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IL RAPPORTO TRA PERSONA ASSISTITA E INFERMIERE
Elisabetta Simonetti
Università Politecnica delle Marche.- "Risk Management e Qualità"
Azienda Ospedaliero-Universitaria Ospedali Riuniti di Ancona
Fammi gli auguri per tutto l'anno:
voglio un gennaio col sole d'aprile,
un luglio fresco, un marzo gentile;
voglio un giorno senza sera,
voglio un mare senza bufera;
voglio un pane sempre fresco,
sul cipresso il fiore del pesco;
che siano amici il gatto e il cane,
che diano latte le fontane.
Se voglio troppo, non darmi niente,
dammi una faccia allegra solamente.
Gianni Rodari
INTRODUZIONE
Nel mondo della sanità oggi, forse, qualcosa sta cambiando; infatti, si comincia a capire come un approccio comunicativo centrato sul paziente sia un potente strumento del sistema di cura, come la persona assistita, in qualità di migliore esperto della propria malattia, debba essere interpellata e ascoltata e debba divenire, da oggetto di applicazione delle conoscenze scientifiche del medico e in generale dell'operatore sanitario, un soggetto protagonista dell'incontro.
Abbiamo assistito recentemente a una progressiva valorizzazione dei curricula formativi degli infermieri italiani; in pochi anni si sono realizzati importanti cambiamenti sia degli ordinamenti didattici, sia degli aspetti organizzativo-istituzionali della relativa formazione, che ora richiede il conseguimento di una laurea triennale di primo livello per l'ingresso nella pratica professionale.
E' implicito in questo cambiamento l'obiettivo di migliorare in modo significativo il livello delle conoscenze e delle competenze onde aumentare la qualità dell'assistenza erogata.
Fra gli aspetti che meritano grande attenzione, e che costituiscono sicuramente uno sviluppo "strategico" delle abilità professionale dell'infermiere, va considerata la competenza comunicativa, finalizzata a rendere più efficace la relazione col paziente. Prendersi cura dell'assistito significa oggi costruire una relazione per migliorare le condizioni di vita, facilitare la responsabilità dell'assistito verso il proprio benessere, favorire un rapporto tollerabile con la condizione di disagio e di sofferenza.
La pratica sanitaria dunque, nonostante i cambiamenti significativi che la caratterizzano, implica un'attenzione particolare alla relazione interpersonale con il paziente: tale relazione costituisce il microcosmo all'interno del quale si producono importanti processi che influenzano in modo significativo i risultati dell'intervento sanitario.
Le discipline psicologiche hanno tradizionalmente contribuito a ricondurre al centro dell'attenzione della pratica sanitaria l'individuo malato e, più in particolare, il rapporto interpersonale; si è voluto in tal modo riconoscere la legittimità di tutti i bisogni della persona malata e non soltanto dei suoi sintomi, superando un approccio generale che "riduce" il paziente a oggetto passivo dell'intervento sanitario.
VERSO UNA VISIONE OLISTICA DELLA MEDICINA
In questi ultimi decenni le scienze mediche hanno conosciuto un grande sviluppo. La scienza e la tecnica mettono a disposizione del servizio alla salute apparati sempre più sofisticati ed efficienti. Il Servizio Sanitario Nazionale ha accresciuto le sue strutture, i suoi mezzi e la sua organizzazione.
Non si può tuttavia disconoscere che gli ospedali, giustamente sempre più tecnicizzati e specializzati e organizzati come una moderna azienda, sono esposti al pericolo di un impoverimento delle relazioni umane.
Non è certo alla tecnica e alla organizzazione in se stesse che dovrebbe essere attribuita tale eventuale perdita nella dimensione umana; esse sono anzi indispensabili per una cura della salute veramente qualificata e per una più confortevole accoglienza e assistenza alle persone.
Tuttavia , è di importanza decisiva che la tecnica e l'organizzazione e tutte le attività nelle strutture ospedaliere siano pensate a partire dalla centralità della persona assistita e siano orientate, sempre e concretamente, ad una accoglienza e ad una assistenza il più possibile efficienti ma insieme anche umane.
In sostanza, si vuole porre in rilievo l'esigenza di una crescita anche umana del servizio sanitario non solo perché essa ha valore terapeutico, contribuendo al recupero del benessere della persona assistita, ma anche, e prima di tutto, perché è una esigenza di umanità e di civiltà: il paziente, ricoverandosi in ospedale e svestendosi dei suoi abiti ordinari, non cessa di essere una persona con le sue legittime aspettative e un cittadino con i suoi diritti.
Le scienze biomediche della seconda metà del secolo scorso, hanno fatto riferimento, in maniera prevalente, ad una concezione riduttiva dell'uomo: il suo essere era identificato esclusivamente nella dimensione fisica ed organica.
Ad una tale visione dell'essere umano è logicamente legata una concezione biologico-fisiologica di salute (e di malattia). Così la scienza e la prassi medica venivano ad assumere gli obiettivi e le metodologie proprie delle scienze della natura e il rapporto con il paziente tendeva a costruirsi per lo più secondo un modello concettuale ed organizzativo di tipo tecnicistico. Il medico e il suo sapere e potere finivano per acquisire un ruolo predominante e praticamente esclusivo fra i professionisti della salute. L'assistenza infermieristica si configurava, nel suo primo sorgere, come una forza ausiliaria: all'infermiere venivano richieste dal medico alcune prestazioni di servizio oppure gli erano affidati compiti esecutivi di semplice manualità. L'infermiere si definiva in rapporto al medico piuttosto che alla persona assistita.
Oggi siamo più consapevoli che l'uomo è costituito in una unità complessa ed integrata di corpo, psiche, spirito e che la scienza e soprattutto la prassi medica hanno sempre a che fare con tutto l'uomo, anche quando si rivolgono, in maniera specialistica, com'è necessario, a suoi particolari problemi di salute.
Certamente, è comprensibile che la medicina sia portata ad un approccio analitico e organicistico con il paziente, a prendere cioè in considerazione la sua particolare malattia, il suo organo o funzione malati. Una medicina che si misura unicamente con i processi biologici e psichici (intesi anche questi in senso meccanicistico) dell'uomo rivela oggi sempre più i suoi limiti; essa ha torto non tanto per ciò che dice dell'uomo, ma per ciò che non dice. L'uomo infatti è più che un semplice organismo che si sviluppa secondo le leggi comuni a tutta la natura; egli è anche un soggetto attivo e influente nel suo divenire (per es. sia nel suo diventare malato sia nel processo della guarigione); nella sua dimensione corporea agiscono anche forze psichiche e spirituali, non riducibili alla sua pura dimensione biologico-organica. L'uomo non è solo corpo, ma un'inscindibile unità di corpo e di spirito. E la malattia non è mai soltanto nel corpo; essa fa parte dell'esistenza della persona, è un'esperienza integralmente umana. E' sempre tutto l'uomo che è ammalato, il soggetto tutto intero.
La medicina non deve perciò essere intesa, in senso riduttivo, semplicemente come scienza e tecnica impegnate a riparare eventuali errori della natura (fisica, organica). Essa piuttosto ha sempre a che fare con la persona umana, considerata nella sua integralità e nella sua individuale originalità. Il corpo è il corpo di una persona, e, in definitiva, è la persona che soffre e che ha bisogno di essere curata. L'oggetto della scienza e della prassi medica è un soggetto, la persona umana.
Poiché è la persona che è diventata malata, la persona stessa è soggetto della sua guarigione, sia pure con l'aiuto delle persone curanti.
LO SPECIFICO DELLA PROFESSIONE INFERMIERISTICA
L'esigenza di un approccio al paziente come ad una persona riguarda in maniera primaria e specifica il nursing. Infatti l'infermiere è per la persona malata, per una assistenza qualificata al paziente, deve perciò diventare capace di accostarsi all'assistito prestando attenzione a tutte le sue dimensioni di persona e a tutte le esigenze, mettendo in atto cure personalizzate.
L'attenzione rivolta all'assistito come ad una persona e la capacità di riconoscere e di interpretare in maniera corretta l'insieme dei suoi bisogni e delle sue aspettative e di prendersene cura in maniera appropriata, costituiscono lo "specifico" della professione infermieristica.
L'evoluzione della scienza medica e delle tecniche curative orientano la professione infermieristica verso un sapere sempre più specialistico e un'attività sempre più tecnica. Molte conoscenze che prima erano riservate al medico oggi sono alla portata della cultura e della formazione del personale infermieristico. A sua volta l'organizzazione del lavoro nelle unità operative e la necessità di un continuo collegamento fra i vari servizi e con l'Amministrazione assorbono una parte considerevole del tempo dell'infermiere. Ma il nursing non può definirsi né a partire dal suo rapporto con la professione medica (infermiere come ausiliario del medico) né a partire dal suo rapporto con quella amministrativa, bensì a partire dal rapporto con la persona assistita. Fin dall'origine l'infermiera ha trovato la sua definizione nel rapporto col malato che assiste. Definire il nursing a partire dal rapporto con il malato significa anche indicarne la originalità e la giusta autonomia nei confronti della professione medica e di quella degli altri operatori sanitari. La professionalizzazione del nursing non deve condurre ad una specie di assimilazione dell'infermiere al medico e al suo allontanamento dalle persone da assistere.
Un sapere infermieristico fatto solo di conoscenze scientifiche e di preparazione tecnica non esprime tutta la professionalità del nursing. Per quanto importante e indispensabile, da solo esso finisce per accrescere le distanze tra chi veste il camice bianco e la persona assistita. La scienza deve camminare insieme ad una sapienza che riconosce il valore e i diritti della persona malata, le sue esigenze e le sue attese e i principi etici e sociali ispiratori di un comportamento veramente umano.
EVOLUZIONE DEONTOLOGICA DEL RAPPORTO ASSISTITO - INFERMIERE
Il ruolo dell'infermiere si è evoluto, le sue responsabilità sono accresciute e si sono anche modificati i rapporti con le altre professioni sanitarie (soprattutto con i medici).
Queste considerazioni poggiano evidentemente sul presupposto che il nursing sia inteso come una "professione", ossia un'attività che si definisca a partire da uno specifico bagaglio di conoscenze teoriche e di capacità operative; in effetti il nursing non si svolge in una pura e semplice attività esecutiva di scelte altrui e di pratiche predefinite, esso comporta anche una capacità e un impegno di conoscenza e di discernimento delle diverse situazioni e, entro determinati limiti, un modo di essere e di agire autonomo e creativo e, di conseguenza, responsabile.
La produzione di un codice deontologico da parte delle infermiere è un fatto storicamente recente: è del 1950 il primo codice emanato dalle infermiere americane e del 1960 quello prodotto dalle infermiere italiane.
Un aspetto che emerge nel primo codice deontologico è l'adesione delle infermiere italiane a una visione paternalistica del rapporto con il paziente che ha connotato per secoli l'esercizio della professione medica. Sin dall'antichità la malattia viene interpretata come un disordine non solo fisico, ma anche morale, al punto che Galeno arriva ad affermare che non può esistere virtù senza salute. In questa prospettiva è possibile comprendere le modalità che per secoli hanno ispirato la relazione medico-paziente: interpretando la malattia come la rottura di un equilibrio fisico e morale, il medico detiene non solo le conoscenze e le competenze necessarie, ma anche un potere che lo autorizza a intervenire per ripristinare il buon funzionamento dell'organismo umano. Ne consegue che la relazione tra medico e malato è fortemente sbilanciata e asimmetrica e a quest'ultimo, in passato, non veniva riconosciuta alcuna capacità decisionale.
A questo modello paternalistico hanno aderito anche le infermiere. Infatti all'art. 3 del codice del 1960 si precisa che la malattia pone il malato, in modo temporaneo, in uno stato di minorazione, riconfermando la posizione up-down che ha caratterizzato in passato la relazione tra professionista sanitario e assistito all'interno delle istituzioni sanitarie. A sostegno di questo modello culturale si rammenta l'art. 6 dello stesso Codice che afferma che le infermiere "pongono i rapporti con i medici su un piano di leale collaborazione eseguendo scrupolosamente le prescrizioni terapeutiche e sostenendo nel malato la fiducia verso i medici e verso ogni alto personale sanitario". Tutte le misure volte a indurre nel pubblico la fiducia verso la professione rinforzano il rapporto paternalistico col paziente, ostacolando la crescita di questi a soggetto, utente critico e responsabile dei servizi sanitari (Spinsanti, 1999).
Le virtù della lealtà e dell'obbedienza verso il medico vengono messe in discussione a seguito di un episodio accaduto ad una infermiera condannata a Manila per omicidio colposo avendo eseguito un ordine medico errato, ma devono passare ancora degli anni prima che il concetto di advocacy, inteso come dovere dell'infermiere di tutelare i diritti della persona assistita possa trovare un suo pieno riconoscimento.
Nel 1977 gli infermieri italiani rivedono il loro Codice: esso presenta degli elementi innovativi che riflettono alcuni cambiamenti che hanno investito in quegli anni la società italiana. Tuttavia, persistono i valori religiosi che tradizionalmente hanno connotato la professione.
Il codice del 1977 rimane valido sino al 1999; un intervallo di tempo in cui si sono verificati tanti mutamenti che hanno interessato l'intera società italiana.
Nel codice del 1999 per la prima volta trova una chiara formulazione il valore della centralità della persona assistita, che si esprime innanzitutto nel diritto a ricevere una informazione adeguata e comprensibile. Il codice si differenzia da quelli precedenti per i contenuti che esprimono una nuova sensibilità etica, coerente con un modello culturale che si lasciava definitivamente alle spalle il paternalismo che aveva guidato, da sempre, l'agire professionale dei medici e degli infermieri. Un altro elemento saliente di questo codice è l'affermazione della responsabilità dell'infermiere che si declina nelle norme in relazione ai vari ambiti in cui essa si esercita. La carica innovativa di questi due principi, la responsabilità dell'infermiere e la centralità della persona assistita, è tale che sono rimessi in discussione i rapporti gerarchici dominanti sino ad allora e la persona a cui l'infermiere deve rispondere in primis è proprio l'assistito.
A dieci anni di distanza gli infermieri italiani rimettono mano al loro Codice e nel 2009 viene approvata la versione definitiva; ancora una volta la revisione del Codice nasce dall'esigenza di recepire i mutamenti che hanno interessato sia la professione sia la società italiana.
Sono trascorsi anni ricchi di vicende, di ulteriori mete raggiunte e dell'acquisita maturità di un'identità professionale finalmente netta e definita nei suoi contorni. L'infermiere, quale professionista sanitario, assiste la persona e la collettività attraverso l'atto infermieristico inteso come il complesso dei saperi, delle prerogative, delle attività, delle competenze e delle responsabilità. Una svolta significativa per la professione infermieristica che si delinea con nettezza nel rapporto "infermiere-assistito" che racchiude due soggetti autonomi nella relazione e reciprocamente responsabili del patto assistenziale, di per sé valido e operante senza mediazioni da parte di altre professionalità e che acquisisce una sua specificità all'interno dei percorsi terapeutici e clinico assistenziali.
Il nuovo Codice deontologico fissa le norme dell'agire professionale e definisce i principi guida che strutturano il sistema etico in cui si svolge la relazione con la persona assistita. La mission primaria dell'infermiere è il prendersi cura della persona che assiste in logica olistica, considerando le sue relazioni sociali e il contesto ambientale. Il prendersi cura è agito attraverso la strutturazione di una relazione empatica e fiduciaria soprattutto quando l'assistito, vivendo momenti difficili, diviene più fragile e più bisognoso di aiuto e sostegno.
LA PRESA IN CARICO DELL'ASSISTITO
Il concetto di assistenza elude definizioni precise; mentre non c'è alcun dubbio sul fatto che una buona assistenza (come anche una buona terapia) debba basarsi su interventi e tecniche di documentata efficacia, sarebbe riduttivo pensare che questa sia l'unica componente della qualità.
Quando si parla di assistenza infermieristica ci si riferisce a un insieme di variabili che vanno dai contenuti tecnici degli interventi agli aspetti relazionali, ma anche all'organizzazione del servizio.
Il prodotto dell'assistenza è spesso invisibile e non attribuibile a un singolo gesto o intervento (come invece succede per l'intervento del chirurgo o la terapia del medico). Eppure, anche gli infermieri "curano" e fanno terapia: una terapia che non è fatta solo di tecniche.
Prendere in carico, e creare un ambiente terapeutico, significa seguire nel tempo i problemi dei pazienti, garantire la continuità tra ospedale e territorio (continuità di assistenza, di informazione), farsi carico anche dei problemi emotivi, e non solo di quelli clinici (Haggerry, 2003), fornire un riferimento continuo. Ma anche avere la capacità (e possibilità) di creare e garantire un ambiente di cura in cui il paziente sia seguito, tutelato, possa esprimere quello che pensa, interagire e non solo ricevere trattamenti.
Gli infermieri, assieme ad altri professionisti, associano interventi fisici ed emotivi, parlano di temi difficili, stabiliscono un dialogo, spesso su aspetti molto riservati della vita dell'altro. Fino a qualche tempo fa, queste affermazioni facevano parte dei criteri generici di una buona pratica infermieristica: si trattava di aspetti poco praticabili per motivi diversi, nella maggior parte delle situazioni assistenziali, e trascurati spesso dagli stessi infermieri; troppo spesso, infatti, i contesti di assistenza non favoriscono questa presa in carico né l'espressione del distress del paziente. Oggi invece, sono disponibili evidenze scientifiche che ci indicano la strada da percorrere per garantire un'assistenza più qualificata ed efficace per il paziente.
Il "prendersi cura" attuato dall'infermiere si realizza tanto nell'azione della cura, quanto nella relazione stessa con il paziente; pertanto è in entrambi questi momenti che viene espresso l'impegno personale dell'infermiere nei confronti del bene del paziente. Non solo azioni, dunque, ma relazione; la relazione, infatti, è il momento più idoneo a promuovere nel paziente quella fiducia che è condizione indispensabile per un rapporto di cura efficace.
INFERMIERE E PERSONA ASSISTITA: UN RAPPORTO DA CURARE
Tra i numerosi dati del Rapporto Pit Salute presentato da Cittadinanzattiva nel dicembre 2010, quello sull'umanizzazione dei rapporti tra gli operatori sanitari e i cittadini si è rivelato piuttosto preoccupante.
Nei 14 anni di Pit Salute il tema dell'umanizzazione delle cure ha registrato un trend sostanzialmente stabile, con una crescita molto modesta dal 2006, in pratica, nessun miglioramento davvero significativo.
La mancata umanizzazione è soprattutto non fare quel gesto di attenzione che andrebbe fatto.
Tra gli aspetti negativi considerati nel documento, il più segnalato è stato l'incuria, intesa come mancanza di attenzione/cura verso le persone assistite. Altrettanto numerose sono state le segnalazioni di comportamenti inadeguati del personale, come poca pazienza e frasi poco garbate. Anche in questa edizione del Rapporto come in quelle passate, questi comportamenti negativi sono largamente appannaggio dei medici piuttosto che degli infermieri. Però mentre la tendenza per i primi è in diminuzione, per gli infermieri appare in aumento.
Nel corso della 23^ edizione di "Un mese di sociale", nell'ambito del quale si è svolto un incontro sul tema Fenomenologia di una crisi antropologica, organizzato dal Censis nel mese di giugno 2011, si è sostenuto che nella nostra società i riferimenti valoriali e gli ideali comuni sono sempre più fragili, parallelamente lo sono la consistenza dei legami e delle relazioni sociali. "In questa indeterminatezza diffusa crescono comportamenti spiegabili come l'effetto di una pervasiva sregolazione delle pulsioni, risultato della perdita di molti dei riferimenti normativi che fanno da guida ai comportamenti. E' il depotenziamento della legge, del padre, del dettato religioso, della coscienza, della stessa autoregolamentazione".
Un ulteriore elemento, probabilmente decisivo nel contributo al deprecabile segnale di deterioramento del rapporto tra paziente e infermiere, è legato alla carenza del personale infermieristico. Come è noto, sono ancora diffuse le situazioni nelle quali organici ridotti al minimo determinano, a loro volta, sovraccarichi di lavoro e disservizi. E non è difficile intuire che simili situazioni possono determinare "attriti" non solo tra gli operatori sanitari ma anche tra e con gli assistiti. Molto spesso, inoltre, queste situazioni sono determinate dalla scelta di conservare modelli organizzativi ormai obsoleti, anziché puntare su soluzioni che valorizzino il ruolo degli infermieri nel sistema. E'indubbio che condizioni di lavoro meno gravose e più gratificanti potrebbero ridurre l'insoddisfazione (e anche l'aggressività) sia degli operatori sia delle persone assistite, con un altrettanto indubitabile recupero di quell'umanizzazione dei rapporti tra assistito e infermiere che altrimenti rischia di entrare in crisi.
La capacità di instaurare consapevoli e corrette relazioni umane con la persona assistita, capacità che è una componente essenziale del nursing, non è semplicemente il frutto di una intuizione, di buona volontà e di buon senso. Essa rappresenta un valore che può essere anche acquisito, in un corso di formazione. Innanzitutto attraverso una riflessione teoretica, ossia attraverso lo studio delle scienze umane e sociali. Non solo l'istruzione di base e le scienze cliniche, ma anche le scienze dell'uomo rientrano come componente essenziale nella formazione di coloro che si dedicano alla cura delle persone malate e costituiscono il presupposto indispensabile di una esercizio adeguato della professione. Così l'infermiere può sapere come e quando debba parlare oppure tacere, può avere imparato a riconoscere gli appelli e i bisogni anche psicologici e umani che gli assistiti in vario modo manifestano e a rispondervi con equilibrio e con umanità.
E insieme attraverso la pratica (learning by doing), portata avanti in maniera guidata, nella quotidiana comunicazione con l'assistito, nel dialogo presso il suo letto, nel porgergli il cibo o nell'aiutarlo ad alimentarsi, nell'eseguire la terapia prescritta, nell'intrattenersi con i suoi familiari e infine nel valutare la sua situazione quando ci si scambiano le consegne alla scadenza del turno di lavoro. In questo modo, con la teoria e con la pratica l'infermiere può affinare la sua sensibilità e la sua interiore disponibilità a rivolgersi all'assistito come ad una persona e a lasciarsi in qualche modo coinvolgere nella sua situazione per poterla meglio comprendere.
CONCLUSIONI
Se l'essere umano è un mondo in miniatura
vorrei avere la fortuna e la sapienza
di conoscerne sempre la parola chiave
per comprenderlo
affinchè il mio cammino da Uomo e da infermiere
sia il più costruttivo e soddisfacente possibile.
Giacomo Lomuscio
La relazione con il paziente è importante in ogni professione sanitaria, ma per l'infermiere essa rappresenta il vero distintivo professionale. La professione infermieristica, molto più che altre professioni sanitarie, si fonda e si realizza nella relazione all'interno e attraverso la quale ci si prende cura della persona assistita. I valori umani che scaturiscono dall'approccio del "prendersi cura" sono anzitutto i valori dell'impegno, della solidarietà, della sensibilità morale, tutti valori che sembrano invece ricoprire un ruolo marginale nella contemporanea interpretazione, anche etica, delle professioni sanitarie, maggiormente incentrate su un'etica dell'azione rispetto a un'etica della relazione.
L'assistenza non è solo tecnica, ma è soprattutto presa in carico del paziente. La presa in carico si garantisce costruendo un contesto che dia continuità agli interventi assistenziali, nelle loro componenti tecniche ma anche di informazione, relazione, presenza e, quando necessario, sostituzione.
Come dimostrano numerosi studi in letteratura, i pazienti trattati con interventi continuativi e organizzati (dagli ambulatori per lo scompenso, a un programma di informazione strutturato, a piani personalizzati) riportano risultati migliori, per numerosi aspetti, rispetto ai pazienti seguiti di routine. Questo dovrebbe far riflettere sull'importanza di garantire un'organizzazione che riesca a prendere in carico i pazienti con abilità sia tecniche, sia relazionali.
Una migliore qualificazione dell'assistenza sanitaria richiede certamente una crescita della professionalità di tutto il personale, e anche i necessari mezzi tecnici e un'adeguata organizzazione. Ma la salvaguardia e la promozione della dimensione umana delle strutture di ricovero è affidata soprattutto al personale infermieristico, che è a contatto diretto con gli assistiti giorno e notte. Si può dire anzi che la qualità dell'assistenza ospedaliera dipende in gran parte dalla formazione e dal comportamento degli infermieri e delle infermiere.
Umanità non significa tralasciare competenza ed efficienza, ma esprimere lo spirito con il quale occorre sentire l'altro, lo spirito con il quale noi professionisti della salute dovremmo sentire l'altro.
Tuttavia, se non si riesce, per inesperienza, tecnicismo esasperato, frustrazione professionale, burocratizzazione, distacco emotivo a scoprire con umiltà e pazienza la parola chiave, la password per entrare in quel mondo che è l'Uomo, non potremmo mai godere appieno della Sua unicità soprattutto in una fase delicata della vita: l'incontro con la malattia e la sofferenza.
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