Cardiorete 2011


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Bovenzi

ARTE E SCIENZA NEO-IPPOCRATICA NELLA SFIDA ALLE COMPLESSITÀ CLINICHE DELLA CARDIOLOGIA
Francesco Bovenzi
U.O. Cardiologia, Ospedale Campo di Marte Lucca

"Tutto deve partire dal malato e al malato ritornare".
Cesare Fugoni


Una grande tradizione ha sempre segnato le tappe più significative che hanno caratterizzano l'evoluzione e il progresso del nostro lavoro. Oggi sentiamo sulla nostra pelle la responsabilità morale di credere alla difesa del "cuore", perché viviamo tempi in cui qualcuno ha lanciato la sfida per una nuova condizione della nostra umanità professionale, quella del cardiologo proiettato in nuovi modelli assistenziali per l'intensità di cura. La sfida ci viene lanciata dalla politica per esaltare l'efficienza del lavoro del medico con strategie senza evidenze, ben supportate e confinate in slogan del tipo: centralità del malato, caccia agli sprechi e agli errori, degenza breve, multidisciplinarietà, alta tecnologia, ma il progetto tratteggia un destino inevitabile per il nostro futuro, a partire dalle UTIC. Occorre recuperare tutte le energie non solo intellettuali. Serve molta unitarietà, preziosa coesione perché divisi siamo più deboli, serve tanta responsabilità, nuova ideazione, perché occorre pur agire, e mai come oggi serve rispondere divulgando i nostri dati. In questi ultimi 50 anni abbiamo dato vita alla speranza di tanti cuori malati, abbiamo acquisito grande autorità e autorevolezza morale per creare una nuova e difficile attesa operosa, perché crediamo ancora che qualcosa di diverso possa accadere, cambiare.
L'evoluzione delle conoscenze fisiopatologiche in campo cardiovascolare, le nuove scoperte nella cardiologia molecolare, ma soprattutto i progressi registrati nella cardiologia interventistica hanno portato allo sviluppo di una migliore diagnosi e terapia, ad una degenza più breve ed in un'ultima analisi ad una maggiore sopravvivenza in Ospedale. Questi successi hanno contribuito al crescente invecchiamento della popolazione modificando in modo sostanziale la gestione non solo clinica, ma anche organizzativa dei posti letto, a cominciare dalle Unità di Terapia Intensiva Cardiologica (UTIC). Nonostante che l'ampiezza e la diversità delle comorbidità impongano un lavoro multispecialistico in team, nella maggioranza delle realtà i malati sono affidati a cardiologi che nel tempo hanno acquisito nuove competenze intensivistiche. Il pensiero culturale della disciplina ha accompagnato il cambiamento in atto seguito al progresso scientifico e alla sommessa transizione epidemiologica di questi anni, risultando di fatto egli stesso il motore della ricerca dei lavori multidisciplinari. Questa nuova filosofia assistenziale mira a esaltare forme di convergenze semplificatrici in un medesimo ambito clinico problematico, come accade nelle terapie intensive, con il coinvolgimento di diversi specialisti provenienti da più campi del sapere. La multidisciplinarietà in UTIC, nelle sue diverse forme, si afferma così come superamento della singola specializzazione o, quanto meno, riflette una esigenza di percorso riflessivo di un sapere ancorato alla specificità di una singola disciplina.
Bisogna combattere la spinta che favorisce il "malcostume" di una diagnostica molto acritica, sospinta dall'evoluzione delle conoscenze scientifiche, frutto della messa a punto di apparecchiature sofisticate di diagnostica specialistica. Nella ricerca di risposte dirette e certe, il rischio è quello di delegare e sostituire via via con strumenti tecnologici la figura del medico, storico mediatore, "esperto" della salute e custode di atti umani tra uomini. Questa incognita, che sminuisce e impoverisce una professione vecchia più di Ippocrate, potrà essere circoscritta solo se si avrà la capacità di mettere in campo una corretta comunicazione a tutti i livelli, per riaffermare la fiducia, riproporre i ruoli, orientare le scelte diagnostiche, magari partendo dall'insostituibile esame clinico come sapiente struttura sintattica fatta di notizie anamnestiche e segni obiettivi.
Oggi, risulta difficile far capire ai giovani colleghi che nessuna procedura è più interessante del malato stesso, più difficile spiegare come un fonendoscopio, una palpazione e un racconto, potrebbero valere più degli ultrasuoni o delle radiazioni diagnostiche, che producono immagini di straordinaria definizione, ma spesso dispendiose e ridondanti. Occorre sforzarsi di dare al malato reale lealtà e dignità di Uomo, perché non è certo un oggetto che necessita di una batteria disarticolata di prescrizioni diagnostiche, perdipiù anche pericolose. Il forte razionale che induce a ricercare quell'insostituibile dialogo tra medico e paziente è anche nella straordinaria unicità e irripetibilità del loro stesso rapporto. Ogni malattia ha una sua propria specificità, che la rende mai uguale per tutti.
Ad esempio, fare bene una diagnosi è un processo naturale che aiuta anche a comprendere non solo la dimensione organica oggettiva del malato, ma anche la sua affettività più profonda che, sotto la lente dell'esperienza clinica, potrebbe condizionare le scelte che altrimenti sfuggirebbero ad ogni genere di evidenza e Linea Guida.
La povertà del ragionamento diagnostico è divenuto il paradigma moderno che indebolisce le conoscenze cliniche e indirizza verso una strada senza ritorno, un'ineluttabile deriva che stravolge quell'antica logica frutto di conoscenze, pensiero, azione e perché no, immaginazione e creatività, perché la medicina, sia nella sua componente biomedica che umana, rimane pur sempre un'arte. Forse dovremmo continuare a imparare dai vecchi Maestri, che ci hanno lasciato delle descrizioni veramente "scultoree" dei loro malati ai quali, oltre agli aspetti più propriamente semeiologici, sapevano rilevare con profondo intuito il lato per così dire "estetico", come la facies e quell'insieme di caratteri esteriori più facili a riconoscere, che a descrivere.
La più grande sfida moderna alla medicina, ma nel nostro particolare alla Cardiologia parte proprio dal suo interno e dalla complessa organizzazione ospedaliera, prende spunto dal modello organizzativo e culturale della Toyota, noto come Toyota Production System, realizzato già in alcune realtà internazionali e nazionali (1). In pratica, lo sforzo delle istituzioni tende a trasporre il Toyota Production System in Sanità, per realizzare un sistema assistenziale più fluido, privo di vere e proprie divisioni tra reparti di specializzazione (sia fisiche sia concettuali), che unifica l'erogazione dei servizi per limitare gli sprechi e gli errori. L'affannosa ricerca di soluzioni organizzative più innovative, "leggere", "lean", se da un lato è sostenuta dalle dilaganti inappropriatezze, duplicazioni e palesi inefficienze del "sistema salute", dall'altro è indubbiamente giustificata dalla precaria sostenibilità economica, dal progressivo invecchiamento della popolazione e dalla crescente complessità clinica e organizzativa (2).
La parola "lean" richiama l'idea di leggerezza e flessibilità, ma paradossalmente in sanità la sua applicabilità risulta eticamente problematica per le potenziali conseguenze, legate nel breve e lungo periodo, alla "pesante" incapacità percettiva dei potenziali danni sociali causati da una sua implementazione non verificata. Ci si chiede, perché offrire un sistema omogeneo, più trasversale se la scienza medica evolve verso competenze dedicate e conoscenze sempre più complesse e perché la salute in molti paesi resta di pertinenza primariamente pubblica? L'azienda ospedaliera è mediamente un'azienda a scarso rendimento, proprio perché è difficile prevenire i market failures che in sanità hanno implicazioni di ordine etico e sociale. In questo campo, interventi "pesanti" e tagli potrebbero rendere inefficiente la tutela dei diritti della salute dei cittadini, innescando diseguaglianze non giustificate dalla sola logica del risparmio.
La medicina si è enormemente sviluppata negli ultimi decenni, diventando arte fortemente specializzata, in continua evoluzione, sempre più sofisticata, tecnologica e in costante miglioramento. Osserviamo, in questo progresso, una linearità di sviluppo nell'attività scientifica di ricerca, che svolge un ruolo primario nel produrre evidenze, che rendono sempre più evoluta la scienza medica, le sue conoscenze, ma più complesso il rapporto tra medico e paziente. Le attese del cittadino sono cresciute in termini di qualità delle cure, di sicurezza ed anche di comfort alberghiero, per questo, una delle cause della crescente sfiducia è anche nella vetustà delle nostre strutture ospedaliere (3). L'ospedale rappresenta ancora oggi il primo punto di riferimento del cittadino malato, come testimoniano i dati più recenti sulla ospedalizzazione con ben 53 milioni di giornate di degenza per anno in Italia; come se ogni italiano passasse un giorno l'anno in ospedale (4).
Nonostante queste critiche premesse, appare lodevole lo sforzo di comprendere, di ricercare soluzioni ad un "vecchio" ospedale non più in grado di offrire efficienza, nonostante i suoi crescenti costi assistenziali, ma sarebbe un grave errore disattendere il progresso fin qui conseguito, non continuare ad applicarlo, solo perché economicamente insostenibile. All'ospedale moderno si chiede di mettere al centro la persona e le sue necessità, di aprirsi al territorio e di integrarsi con la comunità sociale.
Una risposta tangibile, pur molto discutibile nel metodo, è venuta dalla Regione Toscana che, prima in Italia, ha dato il via con la legge Regionale 40/2005, al piano di riordino ospedaliero prevedendo una grande innovazione non solo di natura edilizia, ma per l'appunto anche gestionale. La nuova organizzazione prevede una razionale valorizzazione delle risorse, ponendosi come definizione e scelta d'appropriatezza organizzativa, il cui nuovo assetto è funzionale a garantire qualità ed efficienza di un sistema centrato sul malato (5). Si tratta di una sorta di rivoluzione metodologica e organizzativa, la cui filosofia fonda proprio sul moderno "lean thinking" (pensare snello), che prevede un sistema flessibile, competitivo, di lotta agli sprechi, auspica un utilizzo di risorse strettamente necessarie e rivendica la centralità del malato.
Con il progetto "Ospedali per intensità di cura", si favorisce un approccio multidisciplinare, centrato sul malato, che supera una visione "d'organo", di reparto monodiscipliare e di dipartimento omogeneo. Attraverso la realizzazione di moduli/aree di ricovero "aperte e variabili", graduati per intensità di bisogno assistenziale, si pensa che sarà possibile superare le criticità, frequentemente riscontrabili in ospedale, legate alla gestione del posto letto. Non dovendosi necessariamente "costituire uno specifico reparto", si rende più facile il superamento, specie negli ospedali medio-piccoli, del principale ostacolo alla costituzione di poli specialistici cui affidare, secondo criteri di appropriatezza clinica, la gestione del paziente.
L'intero piano di programmazione sanitaria della Toscana è vincolato al nuovo modello d'intensità di cura ed è supportato da un investimento di circa 450 milioni di Euro per la costruzione di quattro grandi Ospedali. Dunque, il modello ruota sull'ineludibile centralità del malato, garantita da nuove figure professionali definite "tutor", ma capovolge la tradizionale organizzazione ospedaliera fondata sulle specialità. La sfida al nuovo paradigma del concetto di cura, quindi, parte dalla cancellazione dell'identità strutturale dei differenti reparti, accorpati funzionalmente in grandi aree più tecnologiche e multidisciplinari, in cui le componenti cliniche vengono disgiunte da quelle organizzative, proprie delle cosiddette piattaforme produttive (dipartimenti, blocchi, ambulatori).
Il primo grande problema è che lo spazio fisico di cura delle Unità di Terapia Intensiva Cardiologica (UTIC) viene ignorato, accorpato in grandi aree sub-intensive, spazzando via le evidenze maturate in cinquanta anni di ricerca clinica applicata (6). Una simile scelta su larga scala distorce l'attuale realtà scientifica, appesantisce le responsabilità sociali, anche perché non si è mai avviato un confronto e una critica verifica su piccola scala dei cambiamenti organizzativi e di ruolo. Un ridimensionamento non concordato e non pianificato della organizzazione e tipologia delle UTIC significherebbe la perdita di un grande patrimonio assistenziale e culturale della Cardiologia tutta. Considerata la complessità delle clinical competence, necessarie nella cura del cardiopatico acuto, è facile immaginare le conseguenze sulla prognosi dei malati in un luogo di cura che potrebbe risultare non idoneo. Eppure, è noto come la rete delle cardiologie italiane ha sostenuto, con grande efficienza ed efficacia in termini di produzione di salute e di vite salvate, il peso epidemiologico delle cardiopatie.
E' pur vero che sarebbe un grave errore mostrarsi contrari a priori al cambiamento, in qualunque sua forma. La staticità non fa parte della natura e anche le società, i contesti sociopolitici, culturali micro e macroeconomici cambiano continuamente. Allo stesso modo, la comunità medica dovrebbe partire dall'evoluzione della scienza e dovrebbe valutare con critica attenzione il paradigma "lean" del modello proposto d'intensità di cura, al fine di capire se questa possibilità di cambiamento culturale sia un reale progresso in termini di salute e vite salvate. Entrando nello specifico, da medico mi chiedo come possa essere accettata e condivisa una riorganizzazione che viene sancita da una legge regionale, proposta dall'alto e senza concrete evidenze a supporto di efficacia in termini di vite salvate o risultati clinici.
Data l'entità formativa e l'impatto reale, non solo economico, dell'attesa rivoluzione, è necessario riflettere se sia stato corretto legare la scelta ad una disposizione di legge, dimenticando lo stato dell'arte delle evidenze e la reale centralità dei malati da assistere. Non vi è dubbio che i peggiori guai della sanità sono cominciati quando i politici hanno permeato fortemente il sistema salute. Detto altrimenti, la cura e la tutela della salute dell'uomo è ben altra cosa che produzione manifatturiera.
Tuttavia, se da un lato bisogna stare attenti a non apparire corporativi, dall'altro non bisogna scivolare in un'organizzazione dove la ricerca e il servizio specialistico sono sopraffatti da semplicistici imperativi organizzativi e finanziari. Secondo molti esperti di economia sanitaria, la risposta agli sprechi potrebbe essere banale, basta tagliare ciò che non funziona, come le scelte persistentemente inappropriate, ma per fare questo serve diffondere la cultura della qualità delle cure, quella basata sulla soddisfazione del paziente e sulla "concorrenza dei risultati di salute". Un sistema cresciuto sulla "concorrenza dell'offerta" necessità di una verifica, di controlli attraverso indicatori, validazioni scientifiche e misurazioni continue.

Difficile far accettare una logica del sistema di miglioramento continuo della qualità. Dunque, è evidente che l'implementazione di un modello per intensità di cura sia più semplice, perché resetta il sistema, ma allo stesso tempo si presenta come un grande rischio (economico, qualitativo) e una fragile opportunità (economica, qualitativa). Il dipartimento cardiovascolare, già proposto nel documento federativo e nei Quaderni del Ministero della Salute rappresenta la sola soluzione al problema assistenziale oggi in crisi. E' assolutamente vero, che l'adozione di una cultura organizzativa lineare, di appropriatezza delle scelte, di caccia agli sprechi ed errori, non è assolutamente un male di per sé, ma occorre prima conoscere a fondo e misurare il presente prima di avviare un cambiamento. In questo, vale la pena ripetere, continua a pesare la carenza di dati a supporto della nuova e complessa organizzazione. Quello che tutti ci saremmo auspicati sarebbe stato l'avvio di una sperimentazione pilota fatta in poche realtà, analizzata, confrontata con dati oggettivi storici, contestualizzata per le differenti discipline, secondo organizzazioni dipartimentali e per varie tipologie di ospedali, magari verificata in rete e per bacino d'utenza, provando criticamente l'impatto con le organizzazioni territoriali e di volontariato, prima di essere implementata su larga scala. Nel disattendere queste riflessioni necessariamente critiche, a farne le spese, più che l'intera cardiologia sarà il cittadino, che vedrà ricondurre un'attesa risposta competente all'interno di altre aree di intervento, nel virtuoso percorso di un pericoloso ritorno al passato. Per concludere, proporre tout court un'organizzazione ospedaliera "leggera" è un compito difficile, ma che presto potrebbe mostrare tutto il suo insostenibile peso.

Conclusioni
La realizzazione di un moderno sistema di cure cardiologiche richiede che il personale operante nel Sistema Sanitario abbia professionalità, motivazione e passione per la propria attività. La presenza di professionisti ed operatori motivati è la chiave di qualsiasi progresso in Sanità. Altrettanto fondamentale è la creazione di una rete di strutture con competenze e funzioni definite a complessità crescente la cui attività sia garantita sul piano delle risorse umane e tecnologiche. Negli ultimi decenni i cambiamenti osservati in cardiologia sono evidenti grazie alla disponibilità di nuove tecniche e tecnologie, nuovi farmaci e presidi, ma soprattutto per il cambiamento di complessità del profilo clinico del paziente cardiopatico. Questa variazione ha modificato l'attività dei cardiologi e rende necessaria anche un'evoluzione delle competenze e delle integrazioni che vengono loro richieste. Questi aspetti non secondari spingono verso i nuovi modelli assistenziali per intensità di cura, concepiti proprio per la gestione del paziente cardiologico "critico" che impone competenze, conoscenze e collaborazione multi-specialistica non solo di tipo clinico, ma anche tecnico-organizzativa. Questo consentirà di non perdere la centralità del paziente rendendo più efficace la sua assistenza orientata su un'organizzazione più esperta, collaborativa e funzionale delle cure.


BIBLIOGRAFIA

1) Berczuk C, The Lean Hospital, The Hospitalist. 2008;12(6)

2) Katz JN, Turer AT, Becker RC. Cardiology and the critical care crisis: a perspective. J Am Coll Cardiol. 2007;49:1279-82.

3) Marino I. R, Sistema salute. Analisi e prospettive per il futuro della sanità italiana, Roma, editrice Solaris srl, 2007

4) ERA (Epidemiologia e Ricerca Applicata), Atlante 2008, Schede di dimissione ospedaliera per genere e USL, http://www.e-r-a.it

5) Regione Toscana, Piano sanitario regionale 2008-2010, Aggiornamento ai sensi dell'art.18, comma 3, e dell'art.142, comma 3 della L.R. 40/2005, Bollettino ufficiale della Regione Toscana n. 39 del 19 novembre 2008

6) Hasin Y, Danchin N, Filippatos GS, et al. Recommendations for the structure, organization, and operation of intensive cardiac care units. Eur Heart J 2005;16:1676-82.

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