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LA TERAPIA DELL'ARTERIOPATIA OBLITERANTE
DEGLI ARTI INFERIORI
Eugenio Meucci, Fernando Petrosino, Luigi Meucci, Alessandro Luongo, Adriana Perziano
Unità Operativa Complessa di Chirurgia Vascolare
P.O. S.Luca - Vallo della Lucania - ASL Salerno
L'arteriopatia cronica ostruttiva periferica (AOCP) è una manifestazione della patologia aterosclerotica sistemica estremamente diffusa nella popolazione anziana, alla cui evoluzione anatomo-patologica non sempre corrisponde la progressione della sintomatologia. L'espressione clinica dell'AOCP è, difatti, subordinata non solo all'estensione topografica ed all'evolutività delle lesioni ostruttive, ma anche all'attività motoria del paziente, alla presenza di comorbidità e, talvolta, ad eventi traumatici esterni che possono pregiudicare un precario compenso clinico.
Indipendentemente dalla stadio clinico tutti i pazienti affetti da AOCP devono essere considerati, analogamente ai coronaropatici, ad elevato rischio di complicanze cardiovascolari e devono essere indirizzati ad un programma di prevenzione cardiovascolare globale e ricevere specifici trattamenti farmacologici e riabilitativi volti a raggiungere una riduzione del rischio. E' indispensabile un trattamento aggressivo dei fattori di rischio che preveda la sospensione del fumo, il controllo del diabete, dell'ipertensione e dell'ipercolesterolemia. Sono necessarie restrizioni dietetiche rivolte alla riduzione del colesterolo, delle LDL e del sovrappeso. In aggiunta a ciò le opzioni terapeutiche suggerite dalla letteratura medica e dalle linee guida includono i farmaci antiaggreganti (aspirina, ticlopidina e clopidogrel), i vasodilatatori (cilostazolo e pentossifillina) e, più di ogni altra cosa, l'esercizio fisico regolare.
In sintesi le raccomandazioni di maggior rilievo inerenti la terapia medica sono state così sintetizzate nelle linee guida della Società Italiana di Chirurgia Vascolare nel 2009:
- Tutti i pazienti affetti da AOCP (sia sintomatici che asintomatici) devono essere sottoposti a trattamento con antiaggreganti piastrinici (salvo controindicazioni) per ridurre l'incidenza di mortalità e morbidità su base cardiovascolare [Grado A, livello Ib].
- La terapia anticoagulante orale è indicata solo nei pazienti affetti da fibrillazione atriale, stati d'ipercoagulabilità, esiti di recente IMA o portatori di protesi valvolare [Grado B, livello III].
- Un trial di trattamento con cilostazolo dovrebbe essere considerato in tutti i pazienti con claudicatio invalidante (in assenza di scompenso cardiaco) [Grado A, livello I].
- La pentossifillina (400mg x 3/die) potrebbe essere considerata un trattamento di II linea alternativo al cilostazolo per migliorare l'intervallo libero in pazienti affetti da claudicatio [Grado A, livello IIa].
- La somministrazione parenterale di prostaglandina E-1 (PGE-1) o iloprost per un periodo minimo di 7 giorni e massimo di 28, potrebbe essere considerato per ridurre il dolore ischemico e facilitare la guarigione delle lesioni trofiche in pazienti affetti da ischemia critica, ma la sua efficacia è limitata ad un esiguo numero di pazienti [Grado A, livello IIb].
- L'efficacia dei fattori di crescita angiogenetici per il trattamento dei pazienti affetti da ischemia critica non è ancora stata confermata e dovrebbe essere meglio indagata nell'ambito di trial randomizzati controllati con placebo [Grado C, livello IIb].
- Per quanto riguarda i prostanoidi, attualmente sono disponibili i dati di numerosi studi eseguiti nei pazienti affetti da ischemia critica. Il trattamento con prostanoidi è, pertanto, indicato nei pazienti definiti non-rivascolarizzabili e nei fallimenti immediati di una rivascolarizzazione ovvero in pazienti la cui alternativa è l'amputazione maggiore [grado A, livello Ib].
- Un adeguato trattamento del dolore ischemico è, infine, fondamentale nei pazienti con ischemia critica per migliorare la qualità di vita. La terapia del dolore deve essere personalizzata e multifattoriale a condizione che la sua messa in opera non differisca il trattamento definitivo della lesione arteriosa [grado B, livello III]. A tal fine può essere richiesto per breve tempo l'uso di narcotici che può essere proseguito nel post-operatorio. Blocchi epidurali o posizionamento di un catetere peridurale rappresentano dei validi presidi per il controllo del dolore pre- e post-rivascolarizzazione. L'ideale per la terapia antalgica e la sua somministrazione in continuo piuttosto che alla richiesta del paziente.
Nei pazienti asintomatici e claudicanti si raccomanda, quindi, considerata la prognosi, un atteggiamento conservativo, mentre nei pazienti in "ischemia critica" è necessario proporre una rivascolarizzazione precoce. Il termine "ischemia critica" si riferisce ad uno stadio clinico avanzato dell'AOCP determinato dalla grave riduzione cronica della perfusione arteriosa di uno o di ambedue gli arti inferiori e caratterizzata, quindi, dalla presenza di una sintomatologia dolorosa persistente da almeno due settimane e dalla comparsa di alterazioni del trofismo tessutale evolutive sino alla gangrena ed alla sepsi. Tale condizione per le severe comorbidità alle quali è associata, è gravata da un elevato tasso di mortalità (20% ad 1 anno) e, se non trattata con un intervento di rivascolarizzazione, da un alto tasso amputazione a 6 mesi. Come, quindi, sancito con chiarezza dalle linee guida della SICVE 2009 nel paziente con ischemia critica la rivascolarizzazione è la terapia di prima scelta. La mancata rivascolarizzazione è gravata da un'elevato tasso di amputazione entro 6 mesi. [Raccomandazione di Grado B]. La terapia antibiotica sistemica è obbligatoria in tutte le lesioni trofiche ischemiche con infezione [Raccomandazione di Grado B].
Il trattamento dell'ischemia critica richiede, quindi, la collaborazione di un team multidisciplinare di operatori esperti nel trattamento di diversi settori delle patologie vascolari. Gli obiettivi terapeutici sono, parallelamente alla rivascolarizzazione dell'arto, il trattamento dell'infezione e la medicazione delle lesioni trofiche allo scopo di ridurre il tasso di amputazione, di migliorare la qualità di vita e di incrementare la sopravvivenza dei pazienti. Le modalità con le quali realizzare la rivascolarizzazione dell'arto (intervento chirurgico convenzionale, endovascolare o ibrido) devono essere individualizzate selezionando di volta in volta la soluzione più idonea in relazione al quadro clinico (grado di ischemia, comorbidità, etc) ed alle caratteristiche anatomiche delle lesioni vascolari.
L'indicazione ad un'amputazione primaria dell'arto dovrebbe essere valutata esclusivamente nei pazienti con ischemia critica (dolore a riposo o lesioni trofiche) non rivascolarizzabile e non trattabile con terapia farmacologia o con terapie alternative (stimolatore midollare), nei pazienti allettati, dementi, nei pazienti con estesa necrosi delle aree posturali pedidie plantari o con estesa infezione dell'arto evolutiva verso la sepsi sistemica. Un trattamento demolitivo in prima istanza andrebbe considerato anche nei pazienti con aspettativa di vita assai limitata per le severe comorbidità, nei pazienti con ischemia critica rivascolarizzabile ma non ambulanti o che presentano flessione antalgica dell'arto, anchilosi incoercibile o paresi delle estremità [Grado C, livello I].
E' indispensabile comunque sottolineare come negli ultimi anni la più rilevante evoluzione che ha conosciuto il trattamento dell'ischemia critica sia rappresentata dal sempre più diffuso impiego di metodiche di rivascolarizzazione endovascolari piuttosto che chirurgiche. Ciò ha portato attualmente larga parte della letteratura scientifica a considerare le tecniche endovascolari come la prima opzione terapeutica in questo contesto clinico, atteggiamento in parte condivisibile a condizione di non compromettere opportunità terapeutiche future.
L'obiettivo dell'intervento resta la restaurazione di un flusso pulsatile al piede allo scopo di favorire la guarigione tessutale, di ridurre la sintomatologia dolorosa a riposo e di scongiurare la necessità di un'amputazione maggiore, preservando l'autonomia motoria del paziente e migliorando la sua qualità di vita. E' in conclusione essenziale che l'operatore o il team che trattano questa tipologia di pazienti sia in condizione di selezionare e di impiegare tutte le possibili opzioni terapeutiche singolarmente o in associazione, tenendo sempre presente gli obiettivi ed il rapporto rischio-benefici del trattamento da commisurare alle comorbidità del paziente ed alla sua spettanza di vita.
L'estrema diffusione delle metodiche di trattamento endovascolari ha però, sempre più di frequente, favorito l'impiego di trattamenti invasivi anche in pazienti claudicanti in condizioni di relativa stabilità clinica, che non hanno preventivamente controllato i fattori di rischio, sospeso il fumo, realizzato un programma rabilitativo e farmacologico e che soprattutto non sono stati correttamente e completamente informati delle implicazioni future locali e sistemiche della patologia da cui sono affetti. Giova a tale riguardo ricordare le numerose evidenze in letteratura che documentano, come facilmente prevedibile, risultati immediati ed a lungo termine della chirurgia sensibilmente peggiori dopo il fallimento di precedenti trattamenti endovascolari (pervietà a 20 mesi dei by-pass distali del 33% dopo insuccessi dell'endovascolare versus 80% nella chirurgia diretta - J Endovasc Ther 2005;12:13-21).
La decisione di rivascolarizzare i pazienti con claudicatio dovrebbe essere, ancor più che nei pazienti in ischemia critica, rigorosamente fondata sulla severità dei sintomi, ed essere subordinata ad un'importante disabilità riferita dall'individuo, al fallimento della terapia farmacologica e riabilitativa, alla mancanza di severe comorbidità ed alla presenza di un'anatomia favorevole per la strategia terapeutica di rivascolarizzazione preventivata che configuri un favorevole rapporto rischio/beneficio.
Solo dopo un'attenta valutazione degli elementi sopraindicati si può discutere l'indicazione a una rivascolarizzazione e ricorrere a una delle due opzioni terapeutiche (endoluminali ovvero una chirurgiche "convenzionali"), operando una scelta che se talora è evidente, spesso è difficile per la mancanza di dati univoci in letteratura che consentano di precisarne le rispettive indicazioni.
La scelta deve tener conto di diversi elementi:
" l'entità della sintomatologia del paziente, relativa alle proprie esigenze funzionali e quindi diversa da un individuo all' altro ;
" il profilo anatomico delle lesioni obliteranti periferiche, la loro sede, estensione e natura ;
" i rischi
" e i risultati a distanza delle diverse metodiche di rivascolarizzazione ;
" il contesto clinico del paziente e le sue aspettative di vita.
E' evidente che, come suggerito dal buon senso e ribadito dalle linee guida SICVE, quando 2 tecniche di rivascolarizzazione (endovascolare e aperta) danno equivalenti risultati a breve ed a lungo termine, si deve utilizzare per prima la tecnica con minor morbilità e mortalità, tenendo conto anche dei costi [Grado B, livello IIb].
Relativamente al profilo anatomico delle lesioni tale scelta ha senz'altro un punto di riferimento nel documento pubblicato dalla TASC (Trans-Atlantic Inter-Society Consensus) che al fine di trattare adeguatamente le lesioni steno-ostruttive dell'asse aorto-iliaco-femoropopliteo- tibiale ha introdotto nel 2000 una classificazione topografica dell'AOCP; tale classificazione è stata modificata per il settore aorto-iliaco-femoro-popliteo nella TASC 2007.
Come a molti noto tale classificazione identifica nei diversi distretti, in relazione alla severità, alla lunghezza ed alla localizzazione delle lesioni steno-occlusive ed alla coesistenza di più lesioni quattro categorie con grado crescente di complessità (A,B,C e D).
Senza voler descrivere nei dettagli tale classificazione, mentre le lesioni di tipo A, quelle meno severe, sono più volentieri suscettibili di un trattamento endoluminale e quelle più severe, il tipo D, di un trattamento chirurgico, per le lesioni di grado intermedio, di tipo B e C, la scelta rimane tutt' ora difficile e affidata all' operatore. Non si può comunque ignorare la diffusa, crescente predilezione verso le metodiche di rivascolarizzazione endovascolare che ha portato diversi gruppi di estrazione prevalentemente interventistica a riservare alla chirurgia esclusivamente le complicanze e gli insuccessi delle rivascolarizzazioni endoluminali. La conseguenza di tali posizioni estremistiche non sembrano rivolte verso un reale abbattimento dei tassi di amputazione in questa popolazione di pazienti come confermato dai dati ISTAT recentemente pubblicati.
Resta il dato che in un'analisi del Nationwide Inpatient Sample negli Stati Uniti tra il 1996 e il 2000 si è osservato un incremento di 8 volte del numero delle angioplastiche iliache, da 0.3% a 3.4% ogni 100.000 adulti, mentre il numero dei bypass aorto-femorali è diminuito del 15.5%, da 5.8% a 4.9% ogni 100.000 adulti (CX p 370).
E' opportuno, in conclusione, ricordare come il controllo a distanza del paziente affetto da AOCP sottoposto a terapia medica o chirurgica sia costoso ma utile. Mentre nel paziente sottoposto a terapia medica esso serve per valutare l'efficacia della scelta farmacologica, nei pazienti sottoposti a rivascolarizzazione l'obiettivo principale è identificare le lesioni che predispongono ad una complicanza trombotica per trattarle precocemente. Ogni controllo deve essere clinico e strumentale con rilevazione dell'indice pressorio caviglia/braccio e, nel paziente sottoposto a rivascolarizzazione, con valutazione eco-color-doppler del run-in, della sede di terapia endovascolare o del bypass e del run-off. L'indice pressorio caviglia/braccio deve essere rilevato in entrambe gli arti in ogni paziente al momento della prima visita e rivalutato in caso di variazione della clinica [Grado A, livello Ib]
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