La cardiologia Interventistica Coronarica
nell’Anziano e nel grande Anziano
Roberto Violini
UO Cardiologia
Interventistica AO S.Camillo Forlanini Roma
La
popolazione anziana e’ oggi in continuo aumento: dai 2 milioni
di ultrasessantacinquenni italiani dell’inizio del ‘900 si è
passati ai circa 11 milioni attuali ed ai 14.2 milioni
prevedibili tra 20 anni. Tra il 1980 ed il 2000, gli anziani di
età >65 anni hanno guadagnato 14 anni in termini di attesa di
vita media. Anche in questa fascia di eta’, le cardiopatie
rappresentano la prima causa di morte e sono al terzo posto tra
le malattie croniche che portano alla disabilità; quindi è molto
importante effettuare per gli anziani interventi sempre più
efficaci per la prevenzione, la diagnosi precoce e l’adeguato
trattamento, anche allo scopo di migliorare la qualità della
loro vita.
La
cardiologia interventistica coronarica resta un’ importante
opzione terapeutica, che pero’ deve essere indicata in base a
precisi e rigorosi criteri di appropriatezza.
E’
consolidato che anche nel paziente anziano, in caso di infarto
miocardico acuto ad ST sopraslivellato (IMA- STEMI), la terapia
di scelta è la precoce ricanalizzazione meccanica della
coronaria occlusa con angioplastica (PCI) primaria, che deve
ormai essere considerata il trattamento di scelta dell’IMA,
indipendentemente dall’età. Il suo rischio in questa fascia di
eta’ e’ moderatamente incrementato, ma la terapia trombolitica è
gravata da un rischio nettamente aumentato di sanguinamenti e di
emorragia cerebrale e, d’altronde, gli anziani sono pazienti ad
alto rischio di mortalita’ nel caso non vengano sottoposti a
terapia riperfusiva. Nonostante la PCI primaria permetta di
ottenere un’alta percentuale di riapertura efficace del vaso di
infarto nei pazienti anziani con una riduzione degli eventi
avversi, la prognosi a lungo termine di questa categoria di
pazienti rimane meno buona rispetto a quella dei pazienti di età
non avanzata.
E’
interessante notare come, finalmente, la terapia riperfusiva
venga utilizzata piu’ estensivamente nei pazienti anziani (+35%
in 10 anni negli USA), che finora erano oggetto di
“undertreatment” essendo considerati popolazione a maggior
rischio: si e’ ottenuto cosi’ una significativa riduzione di
mortalita’ che non appare invece nelle fasce di eta’ inferiore,
gia’ oggetto di un piu’ frequente trattamento invasivo.
Il nostro
gruppo ha dimostrato recentemente in due lavori come l’eta’ >75
anni comporti una mortalita’ ad un anno piu’ elevata sia nei
pazienti che si presentano in shock cardiogeno e siano
sottoposti a PCI primaria, sia nei pazienti che sono sottoposti
a PCI rescue dopo il fallimento della trombolisi. Comunque il
trattamento invasivo resta l’opzione migliore anche in queste
situazioni cliniche.
Nelle
Sindromi coronariche acute ad ST non sopraslivellato (NSTEMI),
la terapia invasiva e’ comunque la terapia di elezione perche’,
come nello STEMI, nei pazienti oltre i 75 anni, il mancato
trattamento di rivascolarizzazione si traduce in una aumentata
incidenza di eventi clinici, compreso un incremento di
mortalità. I risultati nel grande anziano sono comunque
difficilmente valutabili, poiche’ essi vengono spesso esclusi
per protocollo dagli studi randomizzati.
E’ comunque
riportato che la presentazione clinica nei pazienti >75anni e’
diversa rispetto ai piu’ giovani, con minor significativita’
dell’ecg, piu’ frequente dispnea rispetto all’angina e con un
rischio di mortalita’ almeno doppio. Scompenso, sanguinamenti,
stroke, insufficienza renale ed effetti collaterali dalla
terapia medica, soprattutto antiaggregante sono molto piu’
frequenti. E’ quindi importante adattare all’eta’ la dose
terapeutica di diversi farmaci, soprattutto di anticoagulanti
(eparine a basso peso molecolare in particolare) e di
antiaggregante (Prasugrel). Ancora piu’ complesse sono le
indicazioni e le scelte terapeutiche nei pazienti anziani
stabili, nei quali mi sembra si stia virando da un
“undertreatment” ad un inappropriato eccesso di test diagnostici
e di procedure di rivascolarizzazione, nel momento in cui e’
dimostrato che la rivascolarizzazione migliora la qualita’ di
vita del paziente sintomatico, incidendo sulla prognosi solo nei
malati con malattia di tre vasi, compresa l’IVA prossimale e/o
con FE compromessa.
Anche la
Societa’ Europea di Cardiologia conferma questo assunto nelle
nuove linee guida per il trattamento dell’angina stabile,
presentate e pubblicate nel settembre 2013, sottolineando come,
negli anziani, le
comorbidita’, soprattutto diabete ed insufficienza renale,
insieme al sesso femminile costituiscano un importante fattore
di rischio aggiuntivo, da cui spesso conseguono malattia
multivasale, coinvolgimento del tronco comune, ridotta funzione
ventricolare.
Il test da
sforzo, o in alternativa il test con stress farmacologico, e’ un
esame importante per la valutazione funzionale di questi
pazienti, anche se viene riportata una piu’ elevata incidenza di
test falsamente positivi o falsamente negativi quando l’esame e’
effettuato in pazienti > 75 anni. Comunque, in questi pazienti,
un test negativo permette di determinare l’attivita’ fisica che
ciascun soggetto puo’ effettuare, mentre un test positivo deve
permettere l’accesso all’Opmital Medical Therapy (OMT) ed
all’eventuale valutazione invasiva.
Non bisogna
dimenticare che nel paziente anziano l’incidenza di complicanze
delle procedure interventistiche e’ superiore, soprattutto per
quanto riguarda i sanguinamenti e la nefropatia da mezzo di
contrasto, per cui sono essenziali la protezione con
l’idratazione e gli accorgimenti per la prevenzione dei
emorragie, fra i quali l’utilizzo dell’arteria radiale,
fortemente raccomandato nelle Linee guida europee.
E’
importante anche la scelta del tipo di rivascolarizzazione: nei
pazienti anziani viene preferita piu’ spesso la PCI rispetto al
bypass aortocoronarico per il maggior rischio che questo
presenta
Gli score
chirurgici prendono bene in considerazione il rischio
determinato dall’eta’ e dal sesso, mentre non considerano la
fragilita’, parametro che si dimostra sempre piu’ importante e
che puo’ essere ben valutato dai geriatri.
Per la PCI
nell’anziano si pone poi il problema del tipo di stent da
impiantare: sono spesso considerati preferibili gli stent non
medicati (BMS) rispetto ai drug eluting stent (DES), ma le linee
guida europee mettono in evidenza come la precocita’ della
restenosi con il BMS faccia indicare anche negli anziani i
DES, tenendo sempre presente, pero’, le conseguenze di una piu’
lunga, duplice terapia anticoagulante in pazienti con
comorbidita’, piu’ frequente presenza di fibrillazione atriale
che richiede la terapia anticoagulante in aggiunta alla duplice
antiaggregazione, con non rara indicazione ad interventi
chirurgici non elettivi.
Lo studio
TIME, che ha confrontato la OMT con la PCI nei pazienti ≥75 anni
(media 80 anni) ha dimostrato maggior efficacia di quest’ultima,
grazie alla riduzione della sintomatologia ed al miglioramento
della qualita’ della vita, con un limitato incremento di rischio
procedurale che si confronta con il 50% di maggior incidenza di
reospedalizzaaioni e rivascolarizzazione nel gruppo OMT, con il
risultato finale a 4 anni di marcata riduzione di eventi nel
gruppo invasivo.
Anche in
questo studio, rimane, drammaticamente, una peggior prognosi nei
pazienti di sesso femminile: credo si possa concludere che,
mentre l’accesso paritario alle cure dei pazienti anziani
rispetto ai giovani, sia un risultato abbastanza vicino,
annullare le differenze di trattamento legate al genere, con la
conseguente peggior prognosi, e’ la vera sfida dei prossimi
anni.
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