LA TERAPIA
DELL’IPERTENSIONE ARTERIOSA
NELL’ANZIANO E NEL GRANDE
ANZIANO
Michele A. Tedesco
U.O.C. di Cardiologia,
A.U.P. Seconda Università
di Napoli.
L’ipertensione arteriosa è una patologia molto comune nelle
persone anziane dei Paesi occidentali, arrivando ad interessare
oltre il 60% degli ultrasessantacinquenni e il 70% e più dei
soggetti di età superiore a 85 anni.
È stato
osservato nei Paesi sviluppati un incremento lineare della
pressione arteriosa sistolica di circa 1 mm all’anno fino agli
80 anni, mentre per la pressione diastolica, dopo un picco
massimo che si colloca
intorno ai
60 anni, si registra un graduale decremento negli anni
successivi. Particolarmente frequente nelle persone anziane dei
paesi sviluppati è l’ipertensione sistolica isolata,
caratterizzata da un patologico aumento della pressione
sistolica (PAS), in presenza di valori normali di pressione
diastolica (PAD). Questa condizione arriva ad interessare fino
al 45% degli ipertesi anziani ed è la principale responsabile
dell’incremento della prevalenza di ipertensione arteriosa che
si verifica in età avanzata.
Questa
particolare forma di ipertensione arteriosa sarebbe favorita
nella sua insorgenza da un incremento associato all’età della
rigidità aortica, che comporta un aumento della velocità di
trasmissione dell’onda sfigmica, da cui deriva un incremento
della pressione differenziale ed una iperpulsatilità della
parete arteriosa. Anche nell’anziano l’ipertensione è essenziale
o primaria in più del 90% dei casi.
I risultati
dello studio ICARe Dicomano hanno dimostrato che pazienti
anziani con ipertensione sistolica isolata borderline (PAS
140-159 mmHg e PAD <90 mmHg) presentano dimensioni ed indici di
rigidità delle carotidi e massa ventricolare sinistra
sovrapponibili a quelli dei pazienti con ipertensione diastolica
o sisto-diastolica, nonostante livelli inferiori di PAD e di
pressione media. La PP è infatti la variabile emodinamica più
strettamente associata alla compliance carotidea. Queste
osservazioni possono spiegare come mai in studi longitudinali, a
partire da quello di Darnè et al. del 1989, la PP sia risultata
predittiva del rischio cardiovascolare più della PAS o della PAD
da sole, in
soggetti di
età adulto-giovanile e, ancora di più, in età avanzata.
Due
meta-analisi di trial clinici hanno quantizzato il rischio
cardiovascolare associato alla PAS e alla PP in anziani con
ipertensione sistolica. Secondo una metanalisi di Staessen, che
ha raccolto dati relativi a 15693 pazienti arruolati in otto
trial, per ogni 10 mmHg di aumento della PAS la mortalità
aumentava del 26% (p<0.001), il rischio di ictus del 22%
(p<0.001) e quello di eventi coronarici solo del 7% (p=0.37). È
interessante osservare che, in questo studio, la mortalità era
inversamente correlata alla PAD, a parità di PAS, risultato che
conferma implicitamente il ruolo della PP come determinante
emodinamico primario del rischio. La seconda metanalisi, basata
su circa 8000 pazienti in tre trial, ha riportato che, per ogni
10 mmHg di incremento della PP, la mortalità totale e
cardiovascolare, l’incidenza di ictus e quella di eventi
coronarici aumentavano, rispettivamente, del 15% (p<0.001), 22%
(p<0.001), 17% (p<0.001) e 13% (p<0.05).
Sarebbe un
grave errore considerare l’ipertensione arteriosa nell’anziano,
sia sisto-diastolica, sia sistolica isolata, una condizione in
qualche modo fisiologica, normale e benigna, sottovalutandone la
natura di rilevante fattore di rischio. In realtà, anche in età
senile l’ipertensione arteriosa rimane il principale fattore di
rischio modificabile per l’ictus cerebrale e per lo scompenso
cardiaco, svolgendo comunque un ruolo considerevole anche nel
predisporre all’insorgenza di cardiopatia ischemica, di
insufficienza renale e di arteriopatia periferica. Inoltre, il
rischio di patologie cardio e cerebrovascolari, che è due-tre
volte maggiore negli ipertesi rispetto ai normotesi, è ancora
più elevato nei soggetti anziani.
Numerosi
studi clinici controllati e randomizzati hanno confermato che i
benefici della terapia antiipertensiva riguardano anche i
pazienti anziani affetti da ipertensione sisto-diastolica o
sistolica isolata, in termini di riduzione sia della morbilità e
della mortalità per ictus e per malattie cardiovascolari, nonché
di una lieve diminuzione della mortalità globale. Nei pazienti
ultraottantenni gli eventi cardiovascolari fatali e non fatali
combinati, ma non la mortalità globale, subiscono una riduzione
per effetto della terapia antiipertensiva. Poiché in questa
fascia di pazienti i benefici sono più limitati, la terapia,
quando veramente necessaria, deve essere condotta con
particolare cautela e gradualità.
Salvo casi
particolari, la terapia antiipertensiva si propone nell’anziano
il raggiungimento graduale di valori di pressione arteriosa
inferiori a 140/90 mmHg. In caso di ipertensione sistolica
isolata, valori di PAD inferiori a 70 mmHg e soprattutto al di
sotto di 60 mmHg sembrerebbero associarsi con un incremento del
rischio cardiovascolare e con una prognosi sfavorevole. In molti
pazienti, per ottenere un adeguato controllo pressorio si rende
necessario impiegare due o più farmaci, in particolare in
composizione prefissata. Va detto però che, sulla base dei
risultati di diversi studi anche recenti, solo il 25-30% degli
anziani ipertesi raggiunge e mantiene i valori pressori che
costituiscono l’obiettivo di un trattamento adeguatamente
efficace. Ciò comporta un abbattimento del rischio cardio e
cerebrovascolare nettamente inferiore rispetto a quello che ci
si potrebbe teoricamente aspettare. Il perché di risultati così
deludenti trova diverse spiegazioni. In primo luogo il problema
dell’ipertensione arteriosa viene probabilmente sottostimato
nella sua importanza dopo una certa età.
La scelta
di intraprendere un trattamento antiipertensivo dipende
nell’anziano da più variabili che, nell’insieme, riflettono il
profilo di rischio cardiovascolare di ciascun soggetto. Esse
sono: i valori di pressione arteriosa; la presenza di altri
fattori di rischio cardiovascolare; la presenza di danno
d’organo; la presenza di diabete o di patologie associate che
incrementano il rischio cardiovascolare; la presenza di altre
malattie non di tipo cardiovascolare, quali le alterate funzioni
cognitive o la vera e propria demenza senile (vascolare o
degenerativa). La relazione tra l’ipertensione e la demenza
divenuta oggetto di studio interessante e stimolante in questi
ultimi anni. Infatti se il nesso causale fra demenza vascolare e
ipertensione arteriosa è meglio definito, ancora molte ombre
sono presenti nel rapporto tra ipertensione arteriosa e demenza
di Alzheimer. In uno studio trasversale, di dimensioni limitate
ma molto innovativo, è stata dimostrata una correlazione tra
elevati valori di pressione arteriosa notturna ed una peggiore
performance cognitiva.
Quando
possibile, il primo passo consisterà nella prescrizione di una
terapia non farmacologia, che miri alla modificazione dello
stile di vita.
Per quanto
attiene alla terapia farmacologia, la scelta del farmaco da
impiegare per iniziare il trattamento dipenderà dalla presenza
di altri fattori di rischio, di segni di danno d’organo e di
eventuali patologie associate. Il beneficio del trattamento
nell’anziano è stato dimostrato per almeno un composto delle
seguenti classi di farmaci antiipertensivi: diuretici;
beta-bloccanti; calcio-antagonisti; ACE-inibitori; bloccanti
recettoriali dell’angiotensina II. L’intervento terapeutico deve
essere graduale, specie nei pazienti in più precarie condizioni
generali. è consigliabile iniziare con un solo farmaco a basso
dosaggio o con dosi ridotte di un’associazione di due
medicamenti. Se necessario, si potranno aumentare
progressivamente, ma in modo graduale, le dosi dei farmaci
antiipertensivi.
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