La morte improvvisa
nell’anziano e nel grande anziano
M. Santomauro, C Liguori, F.Albanese, A. Caiazzo,
E.Marsicovetere, V.Poli, A. Costanzo, G. Matarazzo, G. Langella,
C. Vosa
Dipartimento di Cardiologia, Cardiochirurgia ed emergenze
Cardiovascolari, Università Federico II, Napoli
Si definisce
morte improvvisa cardiaca quella morte che si verifica in modo
istantaneo, in apparente assenza di qualsiasi sintomo, o
comunque entro un'ora dalla comparsa di sintomi riferibili al
cuore (dolore toracico, dispnea, ecc..). La morte improvvisa è
nella maggior parte dei casi causata da un’aritmia cardiaca
grave, più spesso da una fibrillazione ventricolare, in molti
casi preceduta da una tachicardia ventricolare. Meno
frequentemente, il meccanismo è rappresentato da una
bradiaritmia. I pazienti interessati da arresto cardiaco da
fibrillazione ventricolare o asistolia, se soccorsi in tempo con
manovre rianimatorie ed interventi appropriati (defibrillazione
ventricolare con shock elettrico) possono essere salvati. La
causa più frequente di morte improvvisa nella nostra popolazione
è la malattia delle arterie coronarie.La morte improvvisa è la
principale preoccupazione e causa di morte in alcuni gruppi di
pazienti che presentano un cuore strutturalmente sano, ma hanno
alterazioni, per lo più congenite, dell’attività elettrica del
cuore, che li predispone a sviluppare tachiaritmie ventricolari
ed arresto cardiaco. Tra queste vi sono, in particolare, la
sindrome del QT lungo e la sindrome di Brugada.
La morte
improvvisa rappresenta circa il 50% di tutte le morti
cardiovascolari. Tutta la popolazione è a rischio, dall’età
pediatrica a quella geriatrica. Lungo l’arco della vita cambiano
però le cause del fenomeno. In età pediatrica e nel giovane
prevalgono le malattie del muscolo cardiaco e alcune malattie
“elettriche” geneticamente determinate. Dopo i quarant’anni la
causa di gran lunga più frequente è rappresentata dalla malattia
coronarica.Ogni anno in Italia
l’infarto colpisce 160mila persone e per 47mila non c’è niente
da fare: l’ischemia è fatale, nella stragrande maggioranza dei
casi ancor prima di arrivare al pronto soccorso. Negli anziani
l’infarto rappresenta una patologia piu’ grave da superare.
Infatti
il cuore degli anziani non ripara mai completamente i danni di
un infarto, anche se l’insulto è di piccole dimensioni e in un
primo tempo sembra essere stato superato brillantemente. La
causa è un “improprio” rimodellamento ventricolare, vale a dire
la risposta naturale e immediata all’infarto fornita dal cuore
di tutte le persone anziane e quasi del tutto assente invece nei
giovani. Cio’ è stato dimostrato dallo studio europeo
multicentrico PREAMI (Perindopril and Remodelling in Elderly
with Acute MyocardialInfarction) che è stato il primo grande
trial internazionale ad occuparsi degli anziani.
Nel cuore dell’infartuato milioni di cellule improvvisamente
muoiono. La reazione immediate è la cicatrizzazione della parte
che rappresenta il primo rimodellamento ventricolare. Il
ventricolo cambia struttura biologica: la cicatrice è infatti
composta da tessuto connettivo non contrattile, completamente
diverso dal tessuto miocardico. Nelle zone circostanti ancora
sane i miociti tornano al programma genetico prenatale, che
prevede il ciclo della vita e della morte. Alcuni miociti si
suicidano, altri cercano di rigenerarsi. Spesso aumentano di
volume ma non riescono a dividersi diventando ipertrofiche.
Sintetizzando le cellule del ventricolo degli anziani si
rimodellano in senso apoptotico e ipertrofico e come conseguenza
inducono il ventricolo a dilatarsi a dismisura. Il paziente
anziano va così incontro a scompenso cardiaco e a un aumentato
rischio di morire. Dunque l’età è un fattore che predispone al
rimodellamento.
Un recente studio condotto dall’Istituto di neuroscienze del CNR
di Padova ha dimostrato che esiste uno stretto legame anche tra
depressione e infarto del miocardio. Gli anziani italiani hanno
il primato europeo della depressione : il 42% degli
ultrasessantacinquenni soffre di depressione , con una
prevalenza nelle donne ( 52%) rispetto ai maschi (31%) e uno
studio condotto dall’Istituto di Neuroscienze del CNR di Padova,
analizzando 5600 pazienti tra i 65 e 84 anni , ha messo in
evidenza la diretta dipendenza tra depressione e infarto
coronarico. E’ stato infatti provato che in soggetti colpiti da
infarto al miocardio la concomitante o conseguente presenza di
sintomi depressivi aumenta il rischio di progressione della
malattia e di mortalità rispetto a chi , con lo stesso quadro
clinico , non soffre di depressione. Soffrire di depressione
diagnosticata o presentare sintomi depressivi pur essendo sani
espone maggiormente a rischio di malattie coronariche. Secondo
questo studio le cause prevalenti sarebbero da ricercare nelle
alterazioni dell’asse ipotalamo –ipofisi-surrene , che è il
rischio biologico maggiore riscontrato nella depressione e anche
l’aggregazione piastrinica , che potrebbe comportare danni
vascolari e un’alterata regolazione neurovegetativa del ritmo
cardiaco.
Anche gli squilibri ormonali possono giocare un ruolo importante
nel favorire l’infarto nell’anziano e nel grande anziano.
Infatti
la combinazione di bassi livelli di vitamina D (25-OHD) e di
elevate concentrazioni di paratormone (Pth) risulta associata in
modo indipendente a morte cardiaca improvvisa (MIC) tra gli
adulti anziani anche senza malattie cardiovascolari. Lo studio,
svolto da Rajat Deo, dell'Università di
Philadelphia, su 2.312 soggetti privi di malattie
cardiovascolari alla prima visitacon un follow-up medio di 14
anni, ha dimostrato 73 eventi di MIC, la cui incidenza annuale è
risultata maggiore tra i soggetti con le più basse
concentrazioni di 25-Ohd (2 eventi per 1.000 con 25-OHD
>20
ng/L e 4 eventi per 1.000 con 25-OHD <20 ng/mL). Analogamente,
l'incidenza di MIC è risultata maggiore tra i soggetti che
avevano le più elevate concentrazioni di Pth (2 eventi per 1.000
con Pth<65 pg/mL e 4 eventi per 1.000 con Pth>65
pg/mL. L'11,7% della coorte (n=267) presentava alti livelli di
Pth e basse concentrazioni di 25-OHD: questa combinazione è
risultata associata a un raddoppio del rischio di MIC dopo
correzione (hazard ratio: 2,19) rispetto ai partecipanti con
livelli normali di 25-OHD e Pth.
Anche gli squilibri elettroliti si sono dimostrati responsabili
di un’ampia quota di MIC nel grande anziano. Lo studio di
Martin O'Donnell, della McMasterUniversity di
Hamilton ha dimostrato che rispetto a un valore basale di
4-5,99 g/die, un'escrezione urinaria di sodio superiore a 7
g/die si associa a un accresciuto rischio di eventi
cardiovascolari (CV), ma se l'escrezione dell'elettrolita
diventa inferiore a 3 g/die aumenta il rischio di mortalità Cv e
di ospedalizzazione per scompenso cardiaco. Vi è dunque tra
escrezione di sodio e rischio di eventi CV una correlazione “a
forma di J”. I ricercatori hanno coinvolto 28.880 pazienti con
diagnosi accertata di malattia cardiovascolare o diabete mellito
provenienti dai trial ONTARGET e TRASCEND, dai cui campioni di
urina del mattutino a digiuno sono state effettuate stime
dell'escrezione urinaria di sodio e potassio lungo le 24 ore
applicando la formula di Kawasaki. Gli outcome di interesse,
valutati a un follow-up medio di 56 mesi, erano costituiti da
mortalità cardiovascolare, infarto miocardico, ictus e
ospedalizzazione per scompenso cardiaco. Rispetto a un gruppo di
riferimento con un valore basale di escrezione di sodio di
5-5,99 g/die, livelli superiori al basale sono risultati
associati a un rischio maggiore di morte cardiovascolare. In
particolare il rischio era quasi raddoppiato nei soggetti con
escrezione basale superiore a 8 g/die, ma aumentava solo del 15%
in quanti avevano un'escrezione iniziale di 7-8 g/die. Comunque,
un basso livello al basale di escrezione di sodio è apparso
associato a un rischio superiore di un outcome composito,
comprendente morte cardiovascolare, infarto miocardico, ictus e
ricovero per scompenso cardiaco. Quanti mostravano un valore
basale inferiore a 2 g/die avevano un rischio per questo esito
aumentato del 21%, cifra che scendeva al 16% nel caso di valori
compresi tra 2 e 2,99 g/die. Da notare, infine, che rispetto a
un valore di riferimento di 1,5 g/die, valori superiori di
escrezione urinaria di potassio si sono accompagnati a riduzioni
crescenti del rischio di ictus (da 23% fino a 32%). Infine
la
patologia cardiovascolare nell’anziano e nel grande anziano
dovrebbe essere oggi affrontata con una modalità
multidisciplinare ove geriatra, internista e cardiologo
confrontano i propri obiettivi diagnostici e terapeutici
cooperando a ridurre drasticamente la quota di mortalità e di
morbilità che colpisce questa fascia di popolazione.
