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L’UTIC
● L’ Anziano e il
Grande Anziano in UTIC
● L’ Anziano e il
Grande Anziano in UTIC:
problematiche
nursing
L’anziano e il grande
anziano in UTIC
Dario Bottiglieri,
Raffaele Mennella, Amelia Ravera
S. C. U.T.I.C.
Dipartimento Medico-Chirurgico di Cardiologia A.O.U.” S.
Giovanni di Dio e Ruggi d’Aragona” - Salerno
La gestione
degli anziani nel mondo occidentale è un problema sociale ed
economico prima che medico; se infatti viviamo in una realtà
nella quale si nasce poco e si muore tardi, grazie al
miglioramento delle condizioni di vita ma anche agli enormi
progressi della medicina, ne deriva che l’età media della
popolazione è avanzata, con un trend in progressiva crescita. In
analogia con i dati epidemiologici generali, gli ultimi studi
osservazionali italiani (BLITZ 3, BLITZ 4) e dell’unico studio
osservazionale campano (ICARO), anche se ormai datati,
dimostrano che i pazienti con età superiore a 65 anni sono
oltre 1/3 del totale dei pazienti ricoverati nelle UTIC e sono
quelli in cui si concentra il più alto tasso di mortalità. Si
tratta di una categoria estremamente eterogenea che va da
pazienti assolutamente autosufficienti e senza problemi clinici
rilevanti ai pazienti con pluripatologie, ai cosiddetti pazienti
‘’fragili’’, ai pazienti con demenza avanzata. Per tale motivo è
molto difficile fare delle generalizzazioni, così come è
difficile applicare in maniera letterale le varie linee guida
che in altri contesti facilitano molto il lavoro dei medici.
Ma quali
sono i problemi della gestione dell’anziano e del grande anziano
in terapia intensiva cardiologica?
Il primo
problema sta a monte dell’UTIC: la tendenza generalizzata,
nettamente in contrasto con le evidenze e con le
raccomandazioni, a essere più solerti nell’accesso alle cure
intensive e più aggressivi nell’approccio terapeutico
farmacologico e non, con i soggetti giovani che con gli anziani;
ad allungare ulteriormente i tempi, la difficoltà che spesso si
incontra a raccogliere una anamnesi accurata (deficit mnesici
dei pazienti, familiari poco presenti, badanti poco attente…) e
il quadro clinico d’esordio spesso complicato dalla presenza di
una serie di comorbidità che possono mascherare il problema
acuto.
Il secondo
problema sta nella valutazione del rapporto rischio-beneficio
delle eventuali terapie, nella consapevolezza che spesso il
paziente che può giovarsi di un atteggiamento aggressivo
(l’anziano e il grande anziano, per esempio) è anche quello che
però può pagarne le conseguenze. A tale proposito bisogna
considerare che attualmente il cardiologo intensivista ha a
disposizione una serie di farmaci efficaci e maneggevoli (bivalirudina,
ticagreloretc), di una serie di dispositivi poco invasivi e di
grande utilità (per es. NIV come alternativa all’intubazione
orotracheale, CVVH come alterativa ai diuretici ad alte dosi che
possono peggiorare funzioni renali già compromesse etc.) che
rendono più facile e più sicuro l’approccio all’anziano con
comorbidità, oltre che del supporto della cardiologia
interventistica non solo per la gestione delle sindromi
coronariche acute (PCI primaria vs fibrinolisi farmacologica) ma
anche per il trattamento di alcune cardiopatie, come alcune
valvulopatie, laddove un approccio chirurgico sarebbe a troppo
alto rischio.
D’altra
parte però bisogna tener presente che l’ambiente della terapia
intensiva può essere anche molto dannoso per i soggetti anziani.
L’ospedale, infatti, e a maggior ragione una terapia intensiva,
può essere considerato il maggior nemico dell’anziano, che, in
circa il 75% dei casi, presenta, al momento della dimissione,
problemi di autosufficienzanon presenti in precedenza e non
sempre attribuibili in prima istanza alla malattia che ne ha
determinato il ricovero.
Non deve
essere nemmeno sottovalutato il rischio di infezioni (polmoniti
per esempio) e di piaghe da decubito che, nonostante tutte le
misure preventive che abitualmente vengono adottate, possono
complicare il decorso ospedaliero intensivo dei pazienti
allettati, soprattutto degli anziani, che spesso già all’atto
del ricovero sono defedati.
Un
ulteriore problema sta nel pericolo che l’anziano, lontano
dall’ambiente domestico e dai familiari, in un ambiente quale
quello delle terapie intensive poco confortevole, presenti
disorientamento spazio-temporale, fino al delirium che impone
l’adozione di terapie sedative anche aggressive, che rischiano
per se di compromettere equilibri già precari.
E’ quindi
evidente che solo in linea teorica tutti gli anziani possono
giovarsi delle cure intensive; nella pratica occorre individuare
quali anziani potranno realmente trarne beneficio. Escludendo a
priori da una parte tutti i pazienti in cui la cardiopatia acuta
rappresenta l’evento terminale di una malattia che si chiama
vecchiaia, per i quali probabilmente non solo la terapia
intensiva cardiologica, ma l’ospedale tutto, non può essere di
alcuna utilità, dall’altra tutti i pazienti assolutamente
autosufficienti, che invece devono ricevere le cure intensive
nei tempi giusti, vi è un’ampia gamma di pazienti per i quali
occorrerebbe una attenta valutazione dello stato cognitivo prima
del ricovero. Ormai da anni si parla della cosiddetta fragilità,
ovvero del paziente ultraottantenne, già non autosufficiente,
che abbia incontinenza urinaria e/o decadimento cognitivio e/o
depressione e/o instabilità posturale. E’ giusto quindi rendere,
con un ricovero magari non inappropriato ma semplicemente
inadeguato, fragile un paziente che all’ingresso in ospedale non
lo è? Esiste la possibilità di predire gli effetti negativi di
un ricovero in ambiente intensivo?
In effetti
esistono da anni numerosi score di valutazione basati su domande
molto semplici che mirano a verificare il grado di autonomia e
la memoria dei pazienti anziani, slatentizzando così una serie
di deficit cognitivi che pare abbiano un valore altamente
predittivo di ‘’effetti dannosi da cure intensive’’.
Pertanto
l’anziano e il grande anziano devono essere ricoverati in UTIC
non solo quando la patologia acuta dalla quale sono affetti lo
richiede, ma anche quando essi possono realmente giovarsi delle
cure intensive e dell’ambiente intensivo; il trattamento deve
essere tempestivo e la degenza il più breve possibile, per
evitare tutte le conseguenze negative che un lungo decorso
ospedaliero intensivo può avere sul loro fisico e sulla loro
psiche.