Il defibrillatore impiantabile:
le promesse mantenute e quelle non mantenute
Jorge Salerno-Uriarte
Clinica Cardiologica. Università degli Studi dell’Insubria. Ospedale di Circolo e Fondazione Macchi, Varese.
Dallo studio di Mirowski et al del 19801 il defibrillatore automatico impiantabile (ICD) si è imposto come trattamento essenziale per la prevenzione della morte improvvisa (MI), sia in prevenzione secondaria che primaria, associato o meno a un sistema di risincronizzazione cardiaca (CRT) 2. Molte sono state le attese rispettate ma innumerevoli le promesse non mantenute o molto costose in termini di qualità di vita con un rapporto costo-beneficio spesso discutibile.
Nelle linee guida sia del Heart Rhythm Society (HRS), rese note congiuntamente all’American College of Cardiology (ACC) e all’American Heat Association (AHA)3, e in quelle dell’European Society of Cardiology4, le indicazioni sono di Classe I con livello di evidenza A. In taluni pazienti, secondo le indicazioni definite dai lavori citati in precedenza, l’uso di ICD comporta nella sua globalità una rilevante riduzione di mortalità.
Tuttavia sono molto consistenti le limitazioni legate all’uso di ICD e di seguito vengono elencati alcuni dei più rilevanti:
· complicazioni all’atto dell’impianto per un valore globale di 10.8, di cui anche la morte nel 1.2% di casi;
· interventi inappropriati dell’ICD la cui prevalenza risulta essere in media del 19.1% il che comporta un impatto negativo sulla qualità di vita;
· complicazioni legate malfunzionamento del dispositivo per un totale di 1.4% con problemi connessi agli elettrodi in 1.5% e infezioni in 0.6% dei casi;
· infine, i costi dei dispositivi gravano in maniera rilevante ovunque e in alcuni contesti costituisco limitazioni di rilievo.
A parte le complicanze legate alla fase d’impianto, molto numerose nei primi anni dell’esperienza, ci preme considerare in maniera adeguata la cosiddetta “appropriatezza” delle scariche degli IC. Molte delle scariche appropriate non sono in realtà necessarie in quanto avvengono nel corso di aritmie che altrimenti finirebbero spontaneamente e che si verificano nel corso di aritmie ventricolari che non sarebbero comunque mortali5. Infatti l’efficacia degli ICD è sovrastimata come suggerito dalla percentuale degli interventi appropriati (7.5%) rispetto alle riduzione reale della mortalità media per opera degli ICD negli studi MADIT II e SCD-HEFT (2.4%). Theuns et al.6 sostengono che il 70-85% dei pazienti portatori di ICD non traggono beneficio dalla modalità di terapia intrapresa ma sono esposti ai rischi connessi a tale impianto.
Stiamo trattando comunque solo la punta di un iceberg e sono quanto mai valide le considerazioni sulla morte improvvisa nella sua totalità fatte a suo tempo da Myerburg et al.7. Una corretta strategia di stratificazione del rischio dovrebbe basarsi su criteri che aumentino la probabilità di efficacia e non semplicemente su quelli che orientino la nostra scelta su cut-off legati alla cruda Frazione di Eiezione del Ventricolo Sinistro (FE del VS). Infatti pazienti apparentemente identici quando valutati con la sola FE del VS non traggono sempre lo stesso beneficio. Sono molti gli studi nei quali una FE del VS ridotta viene considerata quale il più potente elemento discriminatorio riportato per individuare il soggetto a rischio da proteggere dalla morte improvvisa che sia o no affetto da scompenso cardiaco8-11. Nell’ultimo studio citato (SCD HeFT) non si è riscontrato alcun beneficio nei pazienti con FE del VS >30%.
Nella popolazione MADIT II (1.232 pz con IM pregresso e FE del VS ≤30%) sono riconosciuti quali predittori clinici di beneficio da parte degli ICD alcuni elementi determinanti (classe NYHA >II, fibrillazione atriale, QRS >120 ms, età >70 anni, e azotemia elevata)12 e sulla base di tali considerazioni autori coinvolti hanno identificato che i pazienti a maggior rischio di morte improvvisa aritmica hanno uno score di rischio compreso tra 2 e 3 su di un totale di 4. Questi ultimi sono a rischio elevatissimo di morte ma non necessariamente aritmica.
In una recente meta-analisi di cinque studi MADIT-II MUSTT, SCD-HeFT,DEFINITE e COMPANION)13 è stato dimostrato che il genere femminile arruolato in tali studi di prevenzione primaria ha sostanzialmente la stessa mortalità rispetto a quella degli uomini pur esperimentando un numero significativamente minore di scariche appropriate suggerendo una lieve minor incidenza di morte improvvisa nelle donne rispetto agli uomini.
Per quanto concerne l’uso di risincronizzatori bi-ventricolari (CRT), il maggiore beneficio è stato riscontrato nei pazienti scelti sulla base di elementi elettrocardiografici che comportassero una maggior durata del QRS, una morfologia di franco BBS e una precisa eziologia (maggior benefici nei non ischemici rispetti agli ischemici) 14-16. Sempre per quanto concerne i portatori di dispositivi per CRT, si è notata una significativa risposta favorevole sull’incidenza di tachicardia ventricolare nei soggetti responders17.
Molti differenti metodi di analisi del rischio sono stati proposti negli anni per affiancare la FE del VS nella stratificazione del rischio di MI ma tutti mancano di adeguata sensibilità o di valore predittivo positivo che giustifichi la loro diffusa applicazione.
Com’è noto tutti presi singolarmente hanno un basso OR e non possiedono un potente potere discriminatorio che consenta una valutazione completa e soddisfacente del rischio di MI. Nessun indice può da solo essere considerato una valida alternativa alla FE del VS. Tuttavia, data la caratteristica di alcuni test che si prestano in maniera egregia all’identificazione dei soggetti a basso rischio di MI, anche in quelli nei quali la FE del VS sia solo moderatamente depressa, il loro utilizzo si va affermando in maniera determinante. Fra questi l’Alternanza dell’Onda T (TWA) è il metodo non invasivo ritenuto il più affidabile sia nelle cardiopatie di natura ischemica che non ischemica. Per quanto concerne quest’ultima, è stato reso noto nel 2007 lo studio italiano ALPHA (T-wave ALternans in Patients with Heart fAlure) 18 e per quanto riguarda quella post-infartuale, lo studio canadese REFINE (Risk Estimation Following Infarction, Non-invasive Evaluation) 19. Entrambi gli studi hanno reclutato i pazienti, per mera coincidenza, da giugno 2001 a luglio 2004. I 446 pazienti affetti da cardiopatia non-ischemica dello studio ALPHA sono stati raccolti da un registro di 3513 pazienti con cardiopatia dilatativa ed i 322 pazienti dello studio REFINE sono stati selezionati nell’ambito di una popolazione di 5699 pazienti. Il follow-up dello studio ALPHA era compreso tra 18 e 24 mesi e quello dello studio REFINE si collocava in una mediana di 47 mesi. Entrambi i trial sono stati determinanti per il progresso delle nostre conoscenze riportando dati estremamente significativi.
L’alternanza elettrica rappresenta una variazione nella morfologia dei complessi elettrocardiografici con sequenza 2:1. L’alternanza visibile nell’ambito della cardiopatia ischemica è stata associata al sopraslivellamento del segmento ST ed è sempre un marker fedele del rischio di aritmie ventricolari maligne e quindi di MI20. L’alternanza elettrica dell’onda T è stata descritta da Hering fin dal 190921 Nel 1984 Smith e Cohen presso il Massachusetts Institute of Technology di Boston svilupparono una simulazione che al computer, utilizzando un modello di processo di conduzione ventricolare con dispersione dei tempi di ripolarizzazione dei potenziali d’azione, permisero di osservare alternanza elettrica che precedeva l’inizio di una aritmia ventricolare. Sulla base di questa simulazione, tali autori pensarono che l’alternanza dell’onda T potesse essere un utile marker spesso presente ma a livello di microvolt e non sempre a livello di millivolt. Il metodo spettrale che potesse rilevare la TWA non sempre visibile nell’ECG standard fu descritto dalla loro Scuola nel 198822.
Lo studio ALPHA rappresenta quello più numeroso disponibile; la valutazione del rischio mediante TWA è molto affidabile quanto il test è negativo. Lo studio ALPHA ha dimostrato un Valore Predittivo Negativo che oscilla fra 97.3% e 98.6%. La mortalità annua è stata appena di 1.2% nella popolazione con test della TWA negativo. Questi risultati sono di tutto riguardo in quanto così si evitano impianti inappropriati di ICD andando incontro alle esigenze di limitare da una parte i costi e dall’altra le complicazioni che nel caso degli ICD come si è già visto non sono trascurabili. Il Potere Predittivo Positivo del test è risultato piuttosto basso come atteso (9% per l’end-point primario a 18 mesi) e sebbene sia aumentato quando considerato in associazione ad altre variabili (10.3% nei pazienti con QRS >120 ms e 10.9% nei pazienti con FE del VS £35%) rimane pur sempre basso. Si può affermare che nel casodella cardiopatia non-ischemica la presenza di un test della TWA anormale (indifferente o positivo9 sia indicativa di aumentato rischio di morte e di eventi aritmici potenzialmente mortali durante il follow-up. Per contro, un test della TWA normale dimostra, durante un lungo follow-up eseguito in una popolazione molto numerosa di soggetti di essere in grado di identificare quelli che pur possedendo segni di franca disfunzione ventricolare sinistra con caratteristiche per nulla diverse da quelle dei pazienti con test della TWA anormale, hanno una miglior prognosi.
Una delle maggiori limitazioni del test è legato all’impossibilità di valutazione dei soggetti con aritmia totale e considerato che almeno un quarto dei pazienti con bassa FE del VS sono affetti da fibrillazione atriale non sono pochi quelli nei quali non è possibile stratificare il rischio con questo metodo.
Nel 2009 è stato proposto il trial ABCD (Alternans Before Cardioverter Defibrillator) che mirava a un confronto fra lo studio elettrofisiologico (invasivo) e la TWA in soggetti con cardiopatia ischemica. Tali metodi risultano essere complementari fra loro23.
Quest’anno il nostro gruppo ha contribuito a una analisi prospettica di cinque diverse indagini riguardanti sia soggetti con cardiopatia non ischemica che ischemica non portatori di ICD (2883 pazienti)24. In tali pazienti la TWA si è dimostrato un potente stratificatore del rischio di MI. I soggetti studiati sono stati 856 (30%) con TWA positiva, 1627 (56%) negativa e 400 (14%) indeterminata. Nei soggetti con FE VS <35% le MI sono state 4.0%, 0.9% e 4.6%, rispettivamente, dimostrando che i pazienti con TWA sia positiva che indeterminata sono ad alto rischio. In quelli con FE VS >35 tali valori sono stati invece di 3.0%, 0.3 e 0.3, rispettivamente. Questo importante studio, numericamente rilevante, ha implicazioni molto rilevanti e prospetta algoritmi molto importanti nella stratificazioni dei soggetti a rischio agli effetti di una corretta prevenzione della MI mediante ICD.
L’approccio vincente deve essere comunque combinato e prevedere due indagini non-invasive di facile applicazione che comprenda sia l’analisi del substrato anatomico (per esempio FE del VS ecocardiografica) che quello elettrofisiologico (per esempio, quello più promettente, TWA).
In conclusione
· La terapia mediante ICD è efficace allo scopo di fare abortire la morte improvvisa e di conseguenza allungare la vita dei pazienti ad alto rischio.
· Siccome non tutti i pazienti traggono beneficio dall’impianto di un ICD, tale terapia non può essere considerata quale una “polizza di assicurazione” ed è assolutamente necessaria una migliore stratificazione del rischio.
· Le linee guida attualmente utilizzate sono alquanto “liberatorie” nell’indicazione degli ICD nei pazienti a moderato-alto rischio.
· Alcuni validi suggerimenti nascono da analisi post-hoc sui metodi diagnostici a disposizione che possono essere ragionevolmente utilizzati nella pratica clinica agli effetti di ottenere nel singolo paziente il miglior rapporto cost-beneficio.
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