TRATTAMENTO INTERVENTISTICO
DELLA CARDIOPATIA ISCHEMICA CRONICA
Paolo Calabrò
U.O.C. Cardiologia – Seconda Università di Napoli
Riassunto
L’aumento della vita media ed il miglioramento della sopravvivenza alle sindromi coronariche acute hanno portato ad un incremento dell’incidenza di malattia aterosclerotica cronica, anche nel sesso femminile. Questa condizione comprende un gruppo estremamente eterogeneo di pazienti, con un range di mortalità molto ampio. Nella gestione terapeutica gli obiettivi sono: l’incremento della qualità della vita, la riduzione dei sintomi e il miglioramento della prognosi. La stratificazione del rischio è importante per poter prendere la decisione terapeutica più appropriata, conservativa od interventistica.
Il sesso maschile, il diabete, la pregressa necrosi miocardica, il carico di malattia aterosclerotica coronarica e di ischemia miocardica e la presenza di ischemia residua dopo intervento di rivascolarizzazione costituiscono fattori di rischio indipendenti per mortalità cardiovascolare o eventi cardiovascolari acuti. In gruppi stratificati in base al rischio, si può proporre un trattamento di rivascolarizzazione chirurgica o percutanea, avendo come obiettivo la rivascolarizzazione miocardica completa. La differenza tra i due approcci si ritrova nella maggior invasività dell’intervento di bypass e nel maggior rischio di recidiva e necessità di reintervento a breve termine nel caso di approccio percutaneo. Rimane fondamentale prevenire la progressione della malattia controllando i fattori di rischio.
Le malattie cardiovascolari rappresentano di gran lunga (oltre il 50% del totale) la causa di morte più importante nei paesi economicamente sviluppati. In Italia la cardiopatia ischemica è la prima causa di morte, rendendo conto del 28% di tutti i decessi. Contemporaneamente l’età media della popolazione è in continuo aumento, e la fascia di età in più rapida espansione è quella al di sopra dei 60 anni. Attualmente infatti l’aspettativa di vita a 65 anni è in media di ulteriori 17 anni, a 80 anni di 8. Con l’aumentare dell’età, principale fattore di rischio cardiovascolare, e con il miglioramento della sopravvivenza a sindromi coronariche acute, grazie alle recenti conquiste tecnologiche (angioplastica primaria, stent medicati), si verifica inevitabilmente un aumento del carico di patologia cardiovascolare cronica, anche nel sesso femminile. L’espressione clinica più comune della malattia aterosclerotica cronica è costituita dall’ “angina cronica stabile”, condizione che identifica però un gruppo estremamente eterogeneo di pazienti, sia in termini sintomatologici che prognostici. Infatti nonostante si sia portati a pensare che di angina cronica stabile non si muoia, nella realtà il range di mortalità di questa condizione è molto ampio: dal 2,7% descritto nello studio APSIS3 allo 0,4% riportato nel COURAGE. In quest’ultimo studio non viene osservata una differenza significativa in termini prognostici nella scelta terapeutica tra l’approccio interventistico (PTCA o CABG) e quello conservativo. Tale risultato dipende proprio dal fatto che veniva presa in esame una popolazione a basso rischio (0,4% di mortalità), e nonostante ciò un terzo dei pazienti in terapia medica veniva successivamente sottoposto ad intervento di rivascolarizzazione in urgenza per un evento acuto. Diventa quindi di fondamentale importanza, in questa popolazione di pazienti, la stratificazione del rischio per poter prendere la decisione terapeutica più appropriata, conservativa od interventistica.
Come stratificare i pazienti? Le differenze in termini prognostici sono funzione dell’esistenza di diverse classi di rischio nell’ambito della popolazione con angina cronica stabile; in particolare il sesso maschile, il diabete o la pregressa necrosi miocardica costituiscono fattori di rischio indipendenti per mortalità cardiovascolare o eventi cardiovascolari acuti. Molto influente sulla prognosi è il carico di malattia aterosclerotica coronarica: più numerose ed estese sono le lesioni aterosclerotiche, maggiore è il numero di vasi interessati, più elevato sarà il rischio cardiovascolare. Di enorme importanza è il carico di ischemia miocardica evidenziato con tomoscintigrafia miocardica perfusionale. Infatti studi hanno osservato che in presenza di meno del 5% di miocardio ischemico, la mortalità cardiaca si attesta sotto l’1%, se > 20%, arriva al 6,7%6. Lo stesso vale per la presenza di ischemia residua dopo intervento di rivascolarizzazione miocardica, valutata a distanza di 6-18 mesi: maggiore è l’ischemia attestata, peggiore sarà la prognosi. Lo studio DEFER identifica come popolazione a maggior rischio e con peggiore prognosi, i pazienti con una riserva di flusso coronarico (FFR), valutata emodinamicamente, < 0,75, quindi con stenosi responsabili di ischemia non reversibile. Nella gestione dei pazienti con angina stabile gli obiettivi del cardiologo sono: l’incremento della qualità della vita, la riduzione dei sintomi e il miglioramento della prognosi con riduzione degli eventi cardiovascolari acuti (“hard endpoints”). Sicuramente, in tali pazienti, sarà opportuno impostare una terapia medica adeguata al fine di prevenire la progressione della malattia, mantenendo controllati i valori di pressione arteriosa e di colesterolemia, oltre che consigliare una modificazione dello stile di vita, privilegiando l’esercizio fisico aerobico e la dieta. Da ricordare l’ABCDE in prevenzione cardiovascolare secondaria:
A) Aspirin and Antianginal therapy;
B) Beta Blocker and Blood Pressure;
C) Cigarette smoking and Cholesterol;
D) Diet and Diabetes;
E) Educational and Excercise.
In gruppi stratificati in base al rischio, si potrà proporre un trattamento di rivascolarizzazione chirurgica o percutanea, che ridurrà significativamente la quota di miocardio ischemico, abbattendo il rischio di successivi eventi cardiovascolari e di morte. Tale rischio è particolarmente elevato nei pazienti che presentano una quota elevata di miocardio ischemico alla tomo scintigrafia miocardica perfusionale (> 20%). È noto che più il paziente è anziano, maggiori saranno le possibili complicanze della rivascolarizzazione chirurgica o percutanea, ma soprattutto la mortalità peri-procedurale aumenterà. Tra i pazienti asintomatici o con angina modesta l’approccio interventistico dovrebbe essere proposto in soggetti con uno stile di vita intenso o ad alto rischio occupazionale, o nei pazienti che presentino ampie aree ischemiche ai test non invasivi. Invece, nei pazienti con angina moderato-severa (CCS II-IV) la rivascolarizzazione andrebbe considerata in presenza di test non invasivi positivi per ischemia miocardica, o in caso di mancata responsività alla terapia medica. La scelta di una rivascolarizzazione percutanea rispetto ad una chirurgica si è dimostrata equivalente in termini di sopravvivenza e di incidenza di infarto del miocardio a lungo termine, oltre che in termini di costo sociale. La differenza tra i due approcci si ritrova naturalmente nella maggior invasività dell’intervento di bypass (CABG), responsabile di una maggior mortalità intraospedaliera evidente per tutte le fasce di età. Inoltre come dimostrato da Bravata et al., anche se la rivascolarizzazione chirurgica si dimostra più efficace nel risolvere la sintomatologia anginosa a lungo termine, pone un notevole rischio di ictus periprocedurale (1,2% vs 0,6%, p = 0,002). La rivascolarizzazione percutanea (PTCA), invece, ha un rischio più elevato di recidiva e necessità di reintervento. Tuttavia Barner nel RITA trial mette in evidenza come, se nei pazienti sottoposti a PTCA la percentuale di reintervento è del 28% nel primo anno, del 9% a due anni e del 3% dall’anno 3 all’anno 5, nei pazienti sottoposti a CABG la percentuale di re intervento rimane stabile al 2% per anno ma tende ad aumentare dopo il 7° anno, con una progressione della malattia aterosclerotica a livello dei graft, specialmente di quelli venosi (a 10 anni sono pervi il 41% dei graft venosi e l’83% di quelli arteriosi). Tra i pazienti sottoposti ad angioplastica, l’ischemia miocardica residua a sei mesi dalla procedura risulta significativamente più elevata nei pazienti trattati con stent non medicati, rispetto a quelli trattati con stent medicati. Nella pratica clinica l’utilizzo di stent medicati (DES) ha permesso di trattare per via percutanea lesioni più complesse, come ad esempio, coronaropatie multivasali o biforcazioni, che in epoca pre-DES sarebbero state inevitabilmente indirizzate alla chirurgia. Con lo studio SYNTAX si mette in evidenza l’equivalenza dell’approccio percutaneo rispetto al chirurgico in termini di mortalità ed eventi avversi, dimostrando un più alto tasso di rivascolarizzazione nei pazienti trattati con angioplastica. Inoltre questo studio propone un valido strumento, il SYNTAX score, di aiuto nella stratificazione dei pazienti coronaropatici e nella scelta dell’opzione terapeutica più appropriata. Ad esempio, se consideriamo un paziente affetto da coronaropatia trivasale è corretto va luta re l’estensione della ma lattia aterosclerotica Esistono pazienti con lesioni focali, facilmente aggredibili per via percutanea (basso SYNTAX score), e pazienti con molteplici lesioni disseminate o occlusioni coronariche (alto SYNTAX score), in cui l’approccio più indicato è preferibilmente quello chirurgico. Come detto precedentemente, l’obiettivo deve sempre essere la rivascolarizzazione completa: come visto una rivascolarizzazione incompleta condizionante la presenza di ischemia miocardica residua è un fattore di rischio indipendente di morte nei nostri pazienti.
Un gruppo di pazienti ad elevato rischio sono i diabetici. Infatti il 25% dei pazienti sottoposti a rivascolarizzazione percutanea è affetto da diabete mellito. In tali pazienti si può riscontrare una malattia aterosclerotica più aggressiva, diffusa, soprattutto distale. Il diabetico sottoposto a rivascolarizzazione chirurgica presenta un rischio maggiore di complicanze post-chirurgiche: infezioni sternali, insufficienza renale, ictus, scompenso cardiaco, embolia polmonare, frequenti ri-ospedalizzazioni. Spesso in tali pazienti in molti casi è opportuno privilegiare l’approccio percutaneo.
Conclusione
La procedura di rivascolarizzazione non è la cura della coronaropatia aterosclerotica ma è solo l’inizio del trattamento: lo stile di vita e la terapia modificano il corso della malattia. Qualunque sia il metodo di rivascolarizzazione devono essere corretti i fattori di rischio per ridurre la progressione dell’aterosclerosi. Pertanto è opportuno migliorare il controllo glicemico, lipidico e dei valori pressori, associato a modificazioni dello stile di vita. Infine è necessario stratificare il rischio nei pazienti con coronaropatia cronica stabile considerando stile di vita e rischio occupazionale del singolo paziente, scegliendo la terapia medica nei pazienti paucisintomatici con modesta estensione ischemica; la rivascolarizzazione chirurgica nei pazienti con malattia del tronco comune distale (bi-triforcazione), occlusioni croniche multiple, seconda restenosi intrastent medicati, pazienti diabetici con malattia trivasale o del tronco comune, impossibilità di seguire la terapia con doppio anti-aggregante o pazienti con diatesi emorragica; infine l’angioplastica andrà considerata in tutti gli altri casi, valutando il tipo di lesione e il vaso da trattare, le possibili scelte terapeutiche (stent medicato o non medicato), le potenziali complicanze, l’età del paziente e le sue comorbidità, l’operatore e scegliendo centri di eccellenza con ampie casistiche. In tutti i casi sarà comunque sempre opportuno considerare le preferenze del paziente ed informarlo adeguatamente sugli “hard points” per i diversi approcci terapeutici, e quindi aiutarlo nella scelta.
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