L’IPERTENSIONE ARTERIOSA TRA
LINEE GUIDA E PRATICA CLINICA: IL PARERE DEL CARDIOLOGO.
Michele A. Tedesco
Dipartimento di Cardiologia,
Seconda Università di Napoli, A.O.R.N. Monaldi
Grandi vantaggi si sono ottenuti
negli ultimi anni nella strategia del trattamento
dell’ipertensione arteriosa. Molte società scientifiche ed
agenzie governative hanno disegnato e promosso le migliori
strategie utili a facilitare il controllo della pressione
arteriosa. Nonostante queste iniziative, in molti paesi, il
controllo della pressione arteriosa è lontano dall’essere
ottimale. In molti paesi occidentali meno del 40% dei soggetti
trattati è adeguatamente controllato. Inoltre, i pazienti con
rischio cardiovascolare più elevato, diabetici e cardiopatici,
hanno il livello più basso di controllo. È stato stimato che un
adeguato controllo della pressione arteriosa potrebbe ridurre la
mortalità coronarica del 20% e la mortalità cerebrovascolare del
24%.
Pertanto, la condizione
essenziale per un corretto inquadramento ed indispensabile per
l’approccio al paziente iperteso è una precisa valutazione della
PA. Sebbene sia aumentata la consapevolezza di dover ridurre i
valori pressori al di sotto di 140/90 mmHg, i risultati mostrano
quanto questo obiettivo sia stato disatteso. Dai dati raccolti
negli ultimi anni sembra che la prevalenza nella popolazione
generale sia di circa il 25-30% e che nella popolazione oltre i
60 anni essa sia di circa il 50%, pertanto si può presumere che
siano oltre un miliardo nel mondo le persone ipertese e che, di
esse, è stato documentato che solo un quarto abbia una PA ben
controllata. La “rule of halves” coniata negli Stati Uniti negli
anni 60 sembra ancora valida. Il controllo dell’ipertensione
arteriosa varia nei diversi paesi in relazione all’età, al
sesso, alla razza, allo stato socio-economico, alla scolarità,
ed alla qualità del servizio sanitario. Sebbene esistano una
serie di ragioni per spiegare questo insufficiente controllo,
negli ultimi anni si ritiene che la causa più importante nel
determinare lo scarso controllo pressorio sia una sorta di
inerzia clinica e terapeutica. Phillips definisce
inerzia terapeutica la tendenza dei medici a non cambiare o
implementare il trattamento anche quando ciò è fortemente
indicato.
Numerosi studi hanno provato a
quantificare l’inerzia terapeutica durante la visita medica ed
hanno cercato di individuare strategie utili a poterla ridurre.
Purtroppo, l’inerzia terapeutica è un fenomeno complesso con
molte facce che non sono state ancora approfondite
sistematicamente.
Questa situazione è in parte
legata alla natura asintomatica della malattia, infatti
sottoporsi ad un nuovo stile di vita rinunciando ad abitudini
ormai consolidate, come dover dimagrire, smettere di fumare o
ancor di più dover cominciare una terapia farmacologica, per un
problema che inizialmente non procura danni e di cui il paziente
non può avere prova tangibile, porta ad una sottostima della
malattia. L’iperteso spesso non richiede l’intervento del medico
perché non sente la malattia ipertensiva e, soprattutto
non si rende conto della complessa sofferenza multidistrettuale
che coinvolge gli organi bersaglio (cervello, cuore, rene,
arterie). La disponibilità di linee guida ha consentito di
trasformare gli obiettivi della terapia dell’ipertensione
arteriosa focalizzandoli sulla riduzione del rischio CV globale
piuttosto che sulla semplice riduzione dei valori pressori.
Quest processo fonda sulla EBM che ha dimostrato che il
beneficio della terpia sta più nel migliorare complessivamente
il profilo di rischio che non nel controllare un singolo
fattore. Infatti solo meno del 20% degli ipertesi hanno gli
elevati valori pressori come unico determinante del rischio CV
ed i grandi studi clinici hanno dimostrato la validità di
approcci terapeutici globali che mentre riducono i valori
pressori non peggiorano gli altri fattori di rischio e
addirittura riducono le probabilità di sviluppare il diabete
mellito. Tuttavia vi sono evidenze cliniche provenienti da trial
farmacologici comparativi non controllati con placebo secondo
cui sia i farmaci che interferiscono con il sistema RAA che i
calcio-antagonisti sono efficaci nel ridurre la morbilità e la
mortalità specialmente se utilizzati con un diuretico o in
associazione con altri farmaci. A sostegno di ciò ci sono
evidenze che i benefici principali del trattamento
dell’ipertensione siano legati alla riduzione pressoria per se
stessa prima ancora che a particolari proprietà dei farmaci
utilizzati e solo i più recenti trial randomizzati hanno fornito
l’evidenza che farmaci differenti, che causano la stessa
riduzione di PA, possono offrire una diversa protezione
d’organo.
Nella scelta terapeutica
esistono alcuni aspetti condivisi da tutti, in particolare, che
essa si debba basare sulle caratteristiche clinico-demografiche
e sulla presenza di eventuali fattori di rischio e condizioni
morbose concomitanti del paziente da trattare. Numerosi recenti
studi, inoltre, hanno sottolineato la cruciale importanza del
rapporto medico-paziente nella gestione di patologie croniche
come l’ipertensione. La ottimizzazione di questo rapporto
dipende, in parte, dalla percezione globalmente positiva,
ottimistica e motivata, da parte del medico, della patologia
ipertensiva, che avrà come risultato un migliore controllo della
PA.
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