Il rischio cardioVASCOLARE
in chirurgia non cardiaca
E
Passamonti, S Pirelli
Cardiologia Cremona
Premessa
La consulenza al
letto del paziente da sottoporre a chirurgia non cardiaca pone
il Cardiologo in bilico tra il rischio di basarsi su criteri
poco razionali e quindi improntati all’improvvisazione, e quello
di eccedere nella richiesta di indagini ulteriori che comportano
un’aggravio di risorse e spesso un inutile “scompaginamento”
delle liste operatorie. L’approccio è reso ancor piu’ delicato
dal fatto che il piu’ delle volte il paziente non è conosciuto e
deve essere valutato in tempi stretti; il rischio di sequele
medico legali ha contribuito a rendere questo servizio
quotidiano spesso maltollerato.
Le complicanze cardiache (intese come infarto e scompenso)
continuano a rappresentare una frequente causa di mortalita’ e
morbilita’ nei pazienti sottoposti ad interventi di chirurgia
non cardiaca. Infatti nonostante i progressi delle tecniche
chirurgiche e delle procedure anestesiologiche abbiano
potenzialmente ridotto i rischi associati all’intervento, il
progressivo aumento dell’età media della popolazione ha
determinato una piu’ alta percentuale di pazienti anziani con
patologia cardiovascolare avanzata o latente – e quindi a piu’
alto rischio - che afferiscono alla Sala Operatoria.
Nella popolazione generale che afferisce alla sale operatorie la
mortalita’ da causa cardiaca è stimata intorno allo 0.5-1.5% e
le complicanze cardiache non fatali intorno al 2.0-3.5%. Queste
percentuali si traducono, rapportate alla popolazione europea,
in 150000-250000 complicanze cardiache all’anno correlate alla
chirurgia non cardiaca.
Negli interventi di Chirurgia Vascolare l’infarto perioperatorio
raggiunge una incidenza del 15% . Il maggior rischio è
imputabile oltre che all’intervento stesso, che di per se’
risulta piu’ impegnativo, anche alla piu’ frequente presenza di
coronaropatia (stimata attorno al 59 – 76%), spesso
clinicamente occulta a causa del mancato raggiungimento di
livelli adeguati di esercizio imposto dalla patologia
vascolare.
L’Infarto miocardico
perioperatorio, presenta una mortalità elevata, di gran lunga
superiore rispetto ai pazienti in cui si manifesta in assenza di
una concomitanza con un intervento chirurgico; l’infarto è piu’
frequente nei primi tre giorni del decorso postoperatorio con un
picco in 2a giornata : cio’ deve far riflettere sull’importanza
di un controllo attento nei primi giorni dopo l’intervento.
Valutazione clinica
Spesso la consulenza preoperatoria rappresenta per molti
pazienti la prima opportunita’ di ricevere un’attenta
valutazione cardiologica e quindi di vedere riconosciuta una
cardiopatia non nota.
La valutazione clinica di base ottenuta dall’anamnesi,
dall’esame obiettivo, dall’elettrocardiogramma e dalla
radiografia del Torace fornisce dati sufficienti per una valida
stima del rischio operatorio in una buona parte dei casi. La
raccolta dei dati anamnestici deve focalizzare il grado di
instabilità e di severità della eventuale cardiopatia ischemica,
i sintomi dello scompenso cardiaco e la presenza o meno di
aritmie minacciose. Nei pazienti con diagnosi nota di malattia
coronarica è importante mettere in evidenza una eventuale
riduzione critica della soglia di ischemia o della tolleranza
allo sforzo e l’adeguatezza della terapia in corso.
Negli anni passati sono stati proposti – sulla base di analisi
multivariate - numerosi Indici Clinici di Valutazione del
Rischio, nell’intento di codificare e di quantificare i
principali fattori predittivi di eventi avversi perioperatori ;
tra questi il piu’ recente è il “Simple Index” di Lee,
applicabile ai pazienti stabili da sottoporre a chirurgia
maggiore in elezione e composto da sei fattori predittivi
indipendenti
1)
Cardiopatia Ischemica (storia di Infarto, precedente Prova da
sforzo positiva, terapia con nitrati, presenza di onde Q
patologiche all’ecg, angina pectoris)
2)
Storia di scompenso cardiaco
3)
Vasculopatia cerebrale (storia di TIA o stroke)
4)
Chirurgia ad alto rischio (Aneurisma Aorta Addominale, Chirurgia
Vascolare, Toracica, Addominale o Ortopedica)
5)
Diabete Mellito in trattamento Insulinico
6)
Insufficienza renale preintervento definita da creatinina > 2
mg/dL
Nei pazienti con 0, 1 , 2 o > 3 Fattori di rischio la frequenza
di complicanze cardiache (Infarto miocardico, EPA, FV, arresto
cardiaco primario, morte) è risultata rispettivamente di 0.5%,
1.3%, 4%, e 9% in 4315 pazienti di età superiore ai 50 anni
(10).
Allo stato attuale, tuttavia, non esiste un Indice Clinico
sufficientemente accurato da poter essere utilizzato nella
stratificazione del rischio in qualsiasi tipo di intervento. La
valutazione clinica deve inoltre mettere in luce eventuali
patologie concomitanti che possono aumentare il rischio
anestesiologico e la possibilità di complicanze cardiache. Tra
queste vanno ricercate le patologie polmonari ostruttive o
restrittive, il diabete mellito insulino dipendente, l’anemia,
l’insufficienza renale. La presenza di aritmie raramente impone
di posticipare l’intervento: questo è consigliabile nel caso di
aritmie ventricolari sintomatiche in presenza di cardiopatia, o
di aritmie sopraventricolari con frequenza non controllata.
Studi recenti hanno dimostrato che le aritmie ventricolari
asintomatiche (anche coppie o brevi runs di tachicardia
ventricolare non sostenuta) non sono associate ad aumento delle
complicanze cardiache perioperatorie; e’ peraltro opportuno, in
pazienti che non sono mai stati valutati, escludere la presenza
di cardiopatia sottostante con ulteriori indagini. Ache in
questi casi, se non esistono controindicazioni, le evidenze
scientifiche sono a favore di un largo uso di betabloccante nei
pazienti ad aumentato rischio di sviluppare aritmie nel periodo
perioperatorio .
E’ sempre piu’ frequente la valutazione preoperatoria di
pazienti gia’ sottoposti a rivascolarizzazione miocardica; in
questi casi le Linee Guida pubblicate dalle Associazioni
Americane non ritengono necessarie ulteriori indagini per il
paziente a condizione che l’intervento di rivascolarizzazione
chirurgica sia recente (ultimi 5 anni per i Bypass) e che non
siano presenti segni clinici o strumentali di ischemia
coronarica. Piu’ complessa è la valutazione nel paziente che è
stato sottoposto alla rivascolarizzazione percutanea per il
problema della interruzione della doppia terapia antiaggregante
e del rischio di trombosi acuta dello stent. In caso di recente
impianto di stent metallico e chirurgia non urgente è
consigliabile posticipare l’intervento di sei mesi dalla
procedura ; se l’intervento non permette tempi di attesa cosi’
lunghi si puo’ procedere alla chirurgia con il mantenimento
della sola cardioaspirina dopo 6 settimane dalla procedura anche
se il periodo ottimale è di almeno 3 mesi. Se invece il paziente
è stato sottoposto ad impianto di stent medicato le Linee Guida
consigliano di attendere 12 mesi dalla procedura prima di
sospendere il clopidogrel per il rischio piu’ elevato di
trombosi dello stent. In caso di necessita’ di chirurgia nel
paziente sottoposto ad impianto di DES da meno di 12 mesi il
problema resta aperto e attualmente senza una soluzione
definitiva : una possibile strategia, in attesa pero’ di
conferme definitive, è la terapia “bridge” con tirofiban nel
periodo di sospensione perioperatoria del clopidogrel.
Anche se la assenza di angina ed una buona capacità funzionale
possono consentire un atteggiamento conservativo (in termini di
accertamenti ulteriori), un controllo ecocardiografico della
funzione ventricolare sinistra – soprattutto nei candidati a
chirurgia vascolare - puo’ essere opportuno, dal momento che il
rilievo di una funzione ventricolare sinistra depressa (EF<35%)
condiziona un rischio operatorio sicuramente piu’ elevato e
necessita quindi di un attento monitoraggio intra e
postoperatorio.
Nell’ambito della
visita preoperatoria puo’ essere rilevante selezionare i
pazienti che potrebbero beneficiare di una piu’ stretta
sorveglianza cardiologica dopo l’intervento in quanto l’infarto
perioperatorio decorre di solito nelle primissime giornate e
spesso in forma silente.
Nei pazienti con
rischio clinico medio-alto di complicanze cardiache candidati a
chirurgia a rischio alto, è utile l’esecuzione
dell’elettrocardiogramma subito dopo l’intervento e ogni 24 ore
per i primi due giorni; anche il dosaggio della Troponina 24 ore
dopo l’intervento ed in 4a giornata dovrebbe far parte di un
protocollo per il riconoscimento dell’infarto perioperatorio .
Lo stesso controllo potrebbe essere esteso anche ai pazienti che
non hanno storia di coronaropatia nota ma che manifestano segni
di disfunzione ventricolare sinistra durante l’intervento.
Durante la visita pre
operatoria bisogna anche prendere in considerazione la terapia
assunta dal paziente ricordando che l’utilizzo dei betabloccanti
per la riduzione del rischio operatorio è supportato da evidenze
incontestabili; in assenza di controindicazioni assolute questa
terapia dovrebbere essere estesa a tutti i pazienti a rischio
intermedio e alto che non presentano controindicazioni assolute
al farmaco. Le evidenze scientifiche sono sostanzialmente
univoche in questa indicazione, in quanto lo studio POISE che
sembrava aver gettato ombre sull’utilizzo del betabloccante in
questa fase per un apparente aumentato rischio di mortalita’,
prevedeva l’utilizzo del farmaco a pieno dosaggio senza adeguato
tempo di titolazione con conseguenti gravi ipotensioni; per tale
motivo le Linee Guida consigliano la titolazione del
betabloccante prima dell’intervento.
Nei pazienti con
storia di cardiopatia ischemica è raccomandato l’utilizzo delle
statine (Classe IB) da iniziare un mese o almeno una settimana
prima dell’intervento nei pazienti candidati a chirurgia ad alto
rischio.
La Stratificazione
del Rischio: il Paziente e l’Intervento Chirurgico
Per una efficace
stratificazione del rischio, che si basi sui gia’ validati
Indici clinici esistenti, ma che permetta al tempo stesso un
approccio più’ flessibile e più’ adattabile alle diverse
situazioni, è cruciale valutare quattro parametri : due relativi
al paziente e cioè i predittori clinici di rischio e la
sua capacità funzionale e due relativi all’intervento che sono
il rischio specifico legato al determinato intervento chirurgico
e la circostanza in cui viene effettuato (carattere di elezione
o emergenza) .
Sulla base di analisi
multivariate sono stati raggruppati nell’Indice di Lee i
fattori clinici predittivi di rischio perioperatorio per
eventi cardiaci (infarto miocardico, scompenso e morte): storia
di infarto miocardico, angina pectoris,scompenso,stroke,diabete
mellito, insufficienza renale.
Il secondo fattore
relativo al paziente da valutare è la sua capacità funzionale
– espressione della integrità della “pompa” - che è risultata
essere correlata con gli eventi cardiaci perioperatori ed a
lungo termine. In assenza di una Prova da sforzo recente, la
stima della capacita’ funzionale puo’ essere facilmente dedotta
dalla capacità a svolgere le normali attività quotidiane: sono
stati elaborati appositi questionari basati sul “Duke Activity
Status Index” che permettono l’espressione delle comuni attività
in equivalenti metabolici (MET) . Il rischio di eventi
perioperatori ed a lungo termine è risultato aumentato nei
pazienti che non sono in grado di svolgere un’attivita’
equivalente a 4 MET (capacita’ funzionale moderata se > 4 MET),
che corrisponde a salire un piano di scale.
Passando ad
analizzare l’intervento chirurgico vanno presi in
considerazione due concetti: il primo si definisce da sé ovvero
il carattere di urgenza o di elezione. Ovviamente un
intervento in emergenza è gravato da un rischio di eventi
cardiaci molto piu’ alto rispetto allo stesso intervento in
elezione, quantificabile intorno a 2-5 volte superiore . In
questi casi la priorità dell’operazione chirurgica non consente
la possibilità di una adeguata stratificazione cardiologica del
rischio .
Il secondo è
rappresentato dal rischio specifico insito
nell’intervento stesso che è dovuto al grado di stress
cardiocircolatorio correlato, cioe’ alle fluttuazioni della
frequenza cardiaca, della pressione arteriosa, della
ossigenazione, alla probabilità di sanguinamento o di
ipovolemia, alla tendenza alla trombosi ed ancora al grado di
attivazione neuroormonale. Sono considerati interventi ad alto
rischio gli interventi di chirurgia toracica, addominale ed
ortopedica maggiore associati a tempi operatori prolungati, ad
ipovolemia o emorragia e gli interventi di Chirurgia vascolare
(esclusa l’endoaterectomia carotidea). Le operazioni a rischio
intermedio comprendono la endoaterectomia carotidea, gli
interventi di neurochirurgia ed interventi addominali, toracici
ed ortopedici non prolungati. Tra le procedure a basso rischio
vanno comprese tutte le procedure endoscopiche e superficiali e
gli interventi sulla mammella.
Strategia di gestione
preoperatoria del paziente
Esistono condizioni
cliniche di instabilita’ che sconsigliano l’effettuazione di
qualsiasi intervento operatorio ed una adeguata rivalutazione e
stabilizzazione del paziente: angina instabile , infarto
miocardico recente (meno di un mese) , scompenso cardiaco,
aritmie critiche e valvulopatie severe.
In assenza di queste
condizioni è possibile identificare le situazioni in cui il
paziente puo’ accedere o meno alla sala operatoria senza la
necessita’ di indagini ulteriori in base alla semplice
integrazione di quattro parametri: fattori di rischio clinico e
capacita’ funzionale del paziente con il carattere ed il rischio
specifico dell’intervento .
In caso di
interventi di Chirurgia a basso rischio si puo’
consigliare accesso diretto alla sala operatoria ai soggetti che
non presentano condizioni di instabilita’ clinica .
Nei casi di
Chirurgia d’elezione a rischio intermedio non sono
necessarie ulteriori indagini diagnostiche se il paziente
presenta capacità funzionale moderata – buona (> 4 MET) ; andra’
ottimizzata la terapia con betabloccante e statina.
I pazienti che devono
essere sottoposti a chirurgia ad alto rischio e che
presentano valida capacita’ funzionale possono accedere alla
sala senza ulteriori indagini dopo l’ottimizzazione della
terapia betabloccante e delle statine.
Ovviamente, come già
specificato, gli Interventi in Emergenza non lasciano il
tempo per indagini ulteriori proprio perché la ritardata
esecuzione comporterebbe conseguenze gravi per il paziente; in
questi casi la funzione della consulenza si limiterà a consigli
per la terapia farmacologica durante l’intervento, rimandando
una valutazione adeguata al periodo postoperatorio nei pazienti
ritenuti a maggior rischio.
Nei pazienti
candidati a chirurgia ad alto rischio che presentano
capacita’ funzionale moderata o bassa, dobbiamo prendere in
considerazione i predittori clinici: se ne sono presenti meno di
due è possibile procedere all’intervento dopo ottimizzazione di
terapia betabloccante, statine ed ACEinibitore (se esiste
disfunzione sistolica). Se invece questi pazienti presentano
piu’ di due fattori di rischio clinico è consigliabile procedere
ai test non invasivi.
Il test ergometrico
rappresenta il test di scelta nella maggioranza dei pazienti: è
ampiamente disponibile e di basso costo, ma soprattutto fornisce
indicazioni sulla capacità funzionale del paziente, sulla soglia
di ischemia e sulle eventuali aritmie inducibili. In pratica,
nei pazienti che sono in grado di eseguirlo, il test permette di
valutare la capacità del sistema cardiocircolatorio di far
fronte alle aumentate richieste determinate da uno stress quale
quello dell’intervento chirurgico. D’altra parte il test
presenta alcuni limiti che ne riducono l’indicazione: nei
pazienti con piu’ basso profilo di rischio cardiovascolare ha
una bassa accuratezza diagnostica mentre in quelli a piu’ alto
rischio come i candidati alla Chirurgia vascolare, spesso
risulta non effettuabile per incapacita’ ad eseguire lo sforzo
(così pure per i candidati alla Chirurgia Ortopedica maggiore).
Diventa spesso necessario, soprattutto nei candidati alla
Chirurgia Vascolare, indirizzare la scelta verso un test di
imaging. La scintigrafia miocardica ed l’ecocardiografia da
stress hanno mostrato negli studi relativi all’efficacia nei
candidati a chirurgia non cardiaca valori predittivi
sovrapponibili, per cui la scelta del test sarà condizionata
dalle caratteristiche del paziente o dalle “facilities” del
Centro di appartenenza (livello di accuratezza del laboratorio
di Ecocardiografia o di Medicina Nucleare).
Un approccio
diagnostico di tipo invasivo (coronarografia in previsione di
rivascolarizzazione) va preso in considerazione soltanto in quei
casi in cui andrebbe eseguito comunque, indipendentemente dalla
chirurgia non cardiaca, e quindi il suo ruolo resta circoscritto
ai casi in cui gli esami non invasivi siano indicativi di
ischemia estesa.
Conclusioni
La valutazione
clinica resta il cardine della consulenza cardiologica del
paziente candidato ad intervento di chirurgia non cardiaca ed il
piu’ delle volte puo’ anche essere di per sé sufficiente. Una
adeguata terapia con betabloccante a dosaggi ottimizzati e con
statine ha mostrato effetto protettivo nei pazienti a rischio
medio-alto.
L’approfondimento
diagnostico con metodiche non invasive deve essere riservato
soltanto a quei casi in cui è verosimile che il risultato possa
modificare la strategia terapeutica del singolo paziente.
L’esame coronarografico - che prelude ad un intervento di
rivascolarizzazione – puo’ essere raccomandato prima di un
intervento di chirurgia non cardiaca solo nei pazienti per i
quali è prevedibile beneficio prognostico a lungo termine : in
caso di Sindrome Coronarica Acuta oppure se i test noninvasivi
sono indicativi di alto rischio.
Oltre ai test di
ischemia, riveste un ruolo preminente la valutazione
ecocardiografica della funzione ventricolare sinistra perche’ la
disfunzione ventricolare espressa da una EF< o = 35% è correlata
con il rischio di morte e insufficienza ventricolare acuta
postoperatoria; mentre non è stata dimostrata alcuna
correlazione con eventi ischemici perioperatori. E’ ragionevole
richiedere l’esame ecocardiografico nei pazienti con storia di
cardiopatia ischemica e/o di scompenso cardiaco in assenza di
recente documentazione, soprattutto se candidati a chirurgia
vascolare.
Un’indagine condotta da
nove State Boards of Nursing ha permesso di identificare gli
errori più frequenti, classificati poi in una tassonomia che
racchiude otto categorie; le otto categorie di errori
infermieristici che rappresentano un largo range di possibili
errori e fattori contributivi o causativi sono le seguenti: (21)
1. mancanza di attenzione
2. mancanza di interesse
fiduciario
3. giudizio inappropriato
4. mancanza di interventi
nell’interesse del paziente
5. errori terapeutici
6. mancanza di
prevenzione
7. sbagli o equivoci di
altri operatori
8. errori di
documentazione
In considerazione di
quanto sopra esposto, i rischi tipici dell’attività
infermieristica cui l’infermiere può incorrere in ambito
cardiologico, derivano da tutta una serie di situazioni legate
principalmente all'alto numero di attività e processi nei quali
è coinvolto (Tab. 2). Le situazioni in cui l'infermiere è più
impegnato (e che sono direttamente da lui controllabili) sono:
- la sorveglianza del
paziente in ordine a situazioni attualmente o potenzialmente
critiche,
- il coordinamento delle
cure tra professioni e provider diversi,
- l'esecuzione di
attività dirette (legate direttamente all’attività
assistenziale), indirette (legate indirettamente all’attività
assistenziale) ed improprie (poco legate all’assistenza).
Tutte queste attività, ad
eccezione di quelle improprie che dovrebbero essere evitate,
comportano rischi peculiari che possono coinvolgere la
responsabilità dell'infermiere (22), in particolare si richiama
quella legata agli errori terapeutici e agli eventi avversi
causati da mancanza di attenzione o da giudizio inappropriato.
Gli errori terapeutici
Il D.M. 739/1994 “Profilo
Professionale dell’Infermiere” recita “L’infermiere garantisce
la corretta somministrazione delle prescrizioni diagnostico
terapeutiche”.
Già negli anni settanta
si stimava che circa il 30% dei pazienti ospedalizzati andasse
incontro a un evento avverso da farmaco (Adverse Drug Event –
ADE), con la successiva conferma arrivata da uno studio
effettuato su un campione di 30.121 pazienti assistiti nei
diversi ospedali di New York che ha evidenziato la presenza di
una importante reazione avversa durante il periodo di
ospedalizzazione nel 3,7% dei casi di cui il 19,4% è
riconducibile ad ADEIII. Inoltre una proporzione di ADE compresa
tra il 28% e il 56% è prevenibile.
Per quanto riguarda
l’entità del fenomeno in Italia, fino ad ora, non sono stati
effettuati studi nazionali di sorveglianza e di monitoraggio dei
rischi farmacologici e degli aventi avversi da farmaco; i dati
ad oggi disponibili provengono esclusivamente da fonti non
istituzionali o derivano da proiezioni di casistiche
internazionali. (23)
L’infermiere si assume la
responsabilità per preparazione, gestione e somministrazione
della terapia e ha la responsabilità legale nella pratica
clinica. (24)
In particolare la fase
della somministrazione implica una responsabilità sulla buona
pratica clinica, condivisa da tutti gli operatori che sono
coinvolti nel processo. La responsabilità nel processo di
somministrazione della terapia farmacologica è determinata da
tre elementi fondamentali: sicure modalità di identificazione
del paziente, tracciabilità delle attività e tracciabilità del
farmaco.
Si classificano diverse
categorie di errore:
errore
di prescrizione: rappresenta il 39% degli errori terapeutici.
errore
di trascrizione/interpretazione: rappresenta l’11% degli errori
terapeutici.
errore
di dispensazione / di allestimento: rappresentano il 12% degli
errori terapeutici.
errore
di somministrazione: è l’ultima fase del processo di gestione
del farmaco durante la quale l’infermiere somministra il farmaco
prescritto in cartella clinica al paziente cui era destinato e
rappresenta il 38% degli errori terapeutici.
All’interno di ciascuna
di queste fasi vi sono molteplici attività, in ognuna delle
quali può verificarsi un possibile errore. In relazione alle
responsabilità per la gestione della terapia farmacologica, si
individuano due figure principali: il medico, la cui competenza
si riferisce alla determinazione dei farmaci da somministrare e
alla conseguente prescrizione, e l’infermiere, la cui attività è
legata alla somministrazione dei farmaci prescritti. Se
distinguiamo la competenza del medico nel momento prescrittivo,
l’infermiere è direttamente coinvolto in tutte le altri fasi del
processo terapeutico, nel corso delle quali può inserirsi un
errore. L’infermiere è infatti responsabile di tutto ciò che
avviene dal momento della prescrizione medica fino al momento
della somministrazione del farmaco. (25)
Gli eventi avversi da
mancanza di attenzione o da giudizio inappropriato
La mancanza di attenzione
è un buon esempio di una categoria di errori particolarmente
rilevante nell’assistenza infermieristica perché la sicurezza
del paziente dipende dal livello di attenzione degli infermieri
alle condizioni cliniche del paziente e alla risposta alla
terapia. La mancanza di attenzione può essere causata da
problemi a livello di sistema, quali livelli di organico
insufficienti, elevato turnover dei pazienti, improvvisa
modifica delle condizioni dei pazienti senza incremento della
“nursing staff”. Il giudizio inappropriato richiama alla
competenza infermieristica di identificare la natura della
situazione clinica e perseguire il processo di assistenza
infermieristica utilizzando la conoscenza della situazione
clinica. Gli errori si verificano quando ad esempio si
malinterpretano segni e sintomi del paziente. (26)
In ambito sanitario
l’errore dovuto a incompetenza può recare grave danno alla
salute. Esercitare la professione infermieristica richiede la
necessità di dominare un ampio orizzonte di conoscenze, di
competenze e di abilità. Il livello di competenza raggiunto
richiama alla responsabilità che ’infermiere deve/può assumere.
Dal punto di vista giuridico, il richiamo al livello di
competenza raggiunto fa propria una tendenza irreversibile
nell’attuale analisi della responsabilità professionale: la
critica al mansionismo; il parametro prevalente cui è rapportata
l’azione professionale nelle aule
di giustizia è
l’efficacia dell’azione verso il raggiungimento del risultato.
Dentro tale approccio, la conoscenza dei propri limiti risulta
indispensabile per l’infermiere che deve sviluppare capacità di
autovalutazione e richiedere l’intervento di esperti qualora
riconosca dei limiti professionali.(27)
Tale
affermazione sui limiti delle conoscenze non deve costituire,
però, un principio di astensione ma rappresentare una tutela per
la persona assistita cui spetta una assistenza infermieristica
fatta con la massima competenza; declinare la responsabilità
significa farsi carico che altri più qualificati possano
assumerne la presa in carico o, ad esempio, supervisionare una
pratica nuova. Dal punto di vista giuridico evocare il dover di
“umiltà professionale” può anche fungere da esimente della
colpa. Esiste un sottile equilibrio dell’agire
etico-professionale che trova rispondenza anche sul piano degli
obblighi giuridici: anche nel diritto la legalità dei
comportamenti umani è data da un
mix di
doveri di fare e di astenersi. Ne consegue che sia l’eccessiva
esuberanza che la renitenza possono essere ambedue sanzionate.
(28)
CONCLUSIONI
Esiste il
problema della responsabilità professionale sanitaria ed è un
problema importantissimo, tale da condizionare l’esercizio della
professione e quindi innescare un sistema di limitazione
dell’assunzione di responsabilità dell’operatore sanitario che
nel dubbio e nell’incertezza tende a non esporsi oltre il
limite.
Il
pericolo è quello di mettere in atto meccanismi propri della
medicina difensiva che tende ad applicare una serie di norme che
servono ad evitare il contenzioso; l’unico scopo degli operatori
è, in questo caso, quello di non incorrere in ipotesi di
responsabilità, non di migliorare la qualità delle prestazioni
erogate e della relazione con il cittadino. (29)
Il
profilo dell’infermiere disegnato dalla normativa è quello di un
professionista intellettuale, competente, autonomo e
responsabile. Si è di fronte ad una autonomia che ha necessità
di dialogo costante con altre autonomie e di una responsabilità
che ha necessità, per il proprio completarsi, di altre
responsabilità. Non ultima quella del cittadino nel definire il
“proprio” ben-essere. (30)
Le
competenze clinico-assistenziali e la costante “manutenzione”
sono fondamentali, ma vanno sostenute da comportamenti
improntati alla diligenza, al prendersi cura e all’attenzione
alla persona unica e irripetibile. Attraverso un risveglio
dell’interesse per l’uomo è possibile creare una cultura della
cura, attenta alle complesse e peculiari esigenze dei pazienti e
del personale che ne ha la responsabilità.
La
formazione infermieristica, disegnata finora prevalentemente su
un modello bio-medico, deve rivedere il proprio paradigma,
spostando il focus verso contenuti più specifici e attenti alla
realtà della persona e della famiglia.
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