Come è cambiato e come cambierà l’Infermiere in Cardiologia

 

Claudio Coletta

Azienda USL RME – Roma

 

 

 

Nessun dubbio esiste sul fatto che la medicina abbia conosciuto, negli ultimi decenni, un cambiamento così radicale nell’approccio diagnostico e terapeutico da rendere impensabile, per un osservatore casualmente rimbalzato da un’epoca neanche troppo antecedente alla nostra (diciamo una cinquantina di anni), anche solo poter immaginare l’attuale stato delle cose. Mezzo secolo nel quale si è passati dall’utilizzo del polmone d’acciaio nelle pandemie di poliomielite all’impiego della chirurgia laser, microscopica e robotizzata Se questo è vero in generale, lo è particolarmente in ambito cardiologico, dove il moderno approccio terapeutico e farmacologico al trattamento dell’infarto miocardico acuto, tanto per fare un esempio, ha comportato una riduzione della mortalità ospedaliera del novanta per cento. Se negli anni settanta si poneva, fra gli altri, il problema di come preparare il personale di una UTIC all’impatto psicologico con livelli di mortalità talmente elevata e spesso improvvisa da determinare ricadute di tipo ansioso-depressivo, attualmente l’evento morte è talmente raro da determinare quasi il problema opposto, ovvero come mantenere un livello di consapevolezza del rischio e di vigilanza sufficientemente elevato e costante nel personale turnante. Parallelamente all’evoluzione dell’approccio clinico e dei suoi risultati in termini di outcome e di benessere in generale, la pratica medica e infermieristica in ambito cardiologico hanno conosciuto una trasformazione epocale che ha modificato radicalmente l’approccio dei singoli operatori al paziente con patologia acuta e cronica. Da una parte l’approccio aggressivo alla SCA ha comportato la necessità di gestire complicanze emorragiche sempre più frequenti e pericolose, dall’altra la cultura della riabilitazione ha modificato radicalmente le strategie di assistenza in fase post-acuta grazie anche all’istituzione di strutture di assistenza degenziale e ambulatoriale che richiedono competenze altrettanto specialistiche e conoscenze adeguate a un approccio olistico al malato cronico. Basta citare, a conferma di questo, l’esperienza delle reti di assistenza territoriale al cardiopatico scompensato, paziente cronico per definizione ma altamente vulnerabile e soggetto a riacutizzazioni improvvise e spesso letali. Come si pone la professione infermieristica nell’ambito di queste trasformazioni? Quali competenze sono richieste attualmente all’infermiere di cardiologia per una adeguata professionalità e, cosa forse ancora più importante, quali saranno le nuove competenze che verranno richieste ai giovani infermieri che aspireranno a lavorare in ambiente cardiologico? Non è facile una risposta esauriente a queste domande, tanto numerosi e differenti sono gli ambiti di applicazione dell’assistenza cardiologica. Ritengo che una semplificazione sia utile a questo scopo, possibile solo suddividendo artificialmente i campi di applicazione della professione infermieristica, tenendo conto di tutti i rischi impliciti nelle categorizzazioni e mantenendo, infine, un vigile e prudente spirito critico.  Questi sono i quattro principali campi di applicazione:

-                     Assistenza al paziente cardiologico acuto e post-acuto (UTIC, USIC);

-                     Assistenza al paziente cronico in regime degenziale o ambulatoriale;

-                     Assitenza nelle procedure di diagnostica e di terapia invasiva (Lab. Emodinamica, Lab. Elettrofisiologia);

-                     Assistenza nelle procedure di diagnostica cardiologica non invasiva (Servizi di diagnostica non invasiva: Eco, Ergo, Holter, Tilt test, RM ecc.).

Non casualmente nell’ambito degli ultimi due scenari di applicazione della professione infermieristica non è stato citato il termine “...al paziente...”, come nei primi due. E’ qui infatti che, a mio parere, si gioca il significato della professione infermieristica, nello snodo che divide l’assistenza “tradizionale” al letto del paziente da un concetto di assistenza più allargato, che preveda anche la possibilità che non venga mantenuto un contatto costante e quasi “fisico” con il paziente, ma che il collegamento con quest’ultimo sia garantito dall’ambiente di laboratorio, da una macchina oppure anche, a chilometri di distanza, da un contatto virtuale come quello che si verifica di regola, tanto per dirne una, con le esperienze di telemedicina e di teleassistenza. L’evoluzione della professionalità infermieristica dovrà per forza di cose prevedere, al di là del “tappeto comune” di conoscenze e abilità legate alla clinica infermieristica in senso stretto (saper incannulare bene una vena, saper gestire in sicurezza e competenza la terapia del paziente, saper trattare un’ulcera diabetica o un decubito in maniera competente, saper comunicare con il paziente, ecc.), l’acquisizione, facoltativa e meritevole di adeguato riconoscimento di natura non solo economica, di competenze specifiche e che potremmo definire “specialistiche”. Tale processo, che tutt’ora stimola l’ostilità dei collegi infermieristici – basti pensare alle recenti prese di posizione dell’IPASVI in merito alla questione - e di alcune fra le organizzazioni sindacali di categoria, appare del tutto simile e parallelo a quanto avviene nella transizione dal giovane medico generalista al cardiologo con competenze superspecialistiche senza che nell’ambito della professione medica ciò determini timori o grida di scandalo. Deve essere dato per scontato, ovviamente, che la costruzione della conoscenza debba avvenire per piani sovrapposti, mantenendo le competenze di base sulle quali costruire progressivamente le “supercompetenze” che, sole, potranno determinare l’esistenza delle strutture di eccellenza, attualmente invocate dai nostri governanti. Se tutto questo viene dato per scontato, se è normale che il più esperto emodinamista-interventista sul mercato debba saper ascoltare e distinguere un soffio cardiaco patologico da uno innocente, o debba saper leggere un ECG, non si capisce perché tale sovrapposizione di competenze non possa essere accettata anche per gli infermieri, e in particolare per quelli di cardiologia, dove tale differenziazione appare ancora più vitale nell’economia e nel rendimento di una grande unità ospedaliera specialistica.

   Questa evoluzione appare inevitabile e, a mio modo di vedere, auspicabile. La vera questione sul banco resta un’altra: come dovranno essere suddvise le competenze nell’ambito del triangolo virtuoso (ma che facilmente potrebbe essere fonte di problemi e polemiche) costituito dalle tre figure professionali che andranno a dividersi i compiti legati alla cura del paziente cardiopatico in senso lato? Mi riferisco al sanitario cardiologo, all’infermiere con competenze cardiologiche e al tecnico di cardiologia. La vera questione appare legata al ruolo del tecnico di cardiologia, tutt’ora limitato alla gestione della macchina cuore-polmoni in ambiente cardiochirurgico. E’ da tutti avvertita la necessità che le competenze del tecnico vengano allargate alla miriade di applicazioni attualmente esistenti e che richiedono una competenza tecnica nella loro gestione. Mi riferisco al laboratorio di diagnostica per immagini, al laboratorio di elettrofisiologia invasiva e non invasiva, al laboratorio di emodinamica, probabilmente alla terapia intensiva cardiologica. Soddisfatte queste esigenze, nel rispetto delle competenze suddette, apparirà piuttosto chiara la potenziale distribuzione delle competenze fra le tre figure professionali, e in tale scenario peculiare sarà la funzione dell’infermiere nel curare il rapporto fra paziente e “macchina”. Non un infermiere-tecnico dunque, come spesso si sente dire in questi anni, ma un infermiere con tutte le sue competenze specifiche che si occuperà dell’assistenza al malato nel corso di tali procedure in collaborazione con il cardiologo e il tecnico, che si troverà a gestire in autonomia le procedure necessarie in terapia intensiva e che richiedono conoscenze tecniche di base (emodialisi, UF, contropulsazione, assistenza respiratoria). Il vero problema, la vera sfida in questo scenario auspicabile, sarà la formazione di un infermiere con tali competenze, e, aspetto non trascurabile, il riconoscimento giuridico, normativo ed economico di tali competenze acquisite.