Il
paziente con stent medicato in trattamento con doppia
antiaggregazione in chirurgia non cardiaca
Cesare
Baldi, Francesco Vigorito, Tiziana Attisano, Michele Di Muro,
Anna Battimelli, Maria Luisa Marra, Pietro Giudice
Struttura
Complessa di Cardiologia Interventistica-Emodinamica
Dipartimento Medico-Chirurgico di Cardiologia
A.O.” S.
Giovanni di Dio e Ruggi d’Aragona” - SALERNO
La introduzione nell’armamentario del cardiologo interventista
degli stent a rilascio controllato di farmaci antiproliferativi
(DES) ha rappresentato una profonda innovazione nel campo della
gestione del paziente coronaropatico. I DES hanno infatti
ridotto in maniera significativa la restenosi clinica ed
angiografica rispetto agli stent metallici convenzionali (BMS);
nella fase iniziale del loro impiego, si sono così create le
condizioni per una progressiva e quasi incontrollabile euforia
a cui ha fatto però seguito il crescente timore di pagare la
riduzione della restenosi ad un prezzo troppo alto, sia in
relazione alla incidenza crescente della trombosi intrastent (ST)
sia per la necessità di vincolare il paziente ad un prolungato
ed aggressivo trattamento di doppia antiaggregazione (DAPT).
La ST
è una complicazione potenzialmente catastrofica dell’uso dei DES;
il livello di rischio della ST tende ad aumentare in maniera
rilevante in fase perioperatoria e risulta fortemente associato
alla sospensione della DAPT. Si calcola che circa il 5% della
intera popolazione di pazienti sottoposti a impianto di DES
andrà incontro a chirurgia non cardiaca entro il primo anno
dalla procedura, ponendo seri problemi di gestione in relazione
alla necessità di garantire la continuità del trattamento.
Poiché il rischio di ST risulta controllabile solo da parte di
una adeguata DAPT, si comprende bene come la comune pratica di
sospendere il prescritto trattamento antiaggregante per evitare
un eccessivo sanguinamento postoperatorio metta il paziente in
una categoria di rischio inaccettabilmente elevato. Le
raccomandazioni contenute sia nelle Linee Guida delle società
europee che americane prevedono che la DAPT dopo impianto di DES
continui per almeno 12 mesi dopo la procedura interventistica
(PCI), nei pazienti che non mostrino un elevato profilo di
rischio di sanguinamento: pertanto, nei soggetti in attesa di
intervento chirurgico, questa prescrizione si apre a numerosi
interrogativi di appropriatezza gestionale che ruotano tutti
intorno alla complessa relazione che si realizza caso per caso
tra tre condizioni: livello di urgenza nella esecuzione
dell’intervento chirurgico, rischio trombotico e rischio di
sanguinamento nel singolo paziente (fig 1)

Fig.1. Algoritmo per la gestione dei pazienti candidati a
chirurgia non cardiaca in trattamento con doppia
antiaggregazione (da ESC/EACTS Guidelines on myocardial
revascularization 2010)
ü
La trombosi
intrastent: è motivo di legittima preoccupazione?
A dispetto del grande successo iniziale che ha accompagnato i
primi anni di uso praticamente senza limiti dei DES, se non
quelli imposti dal maggiore onere economico di questi
dispositivi, i dati relativi alla incidenza variabile della
trombosi tardiva ed ultratardiva hanno rapidamente sollevato non
pochi quesiti in termini di sicurezza; un documento consultivo
della FDA ha cercato di rispondere a tali inquietanti domande
riconoscendo un rischio di ST tardiva associato all’uso dei DES
significativamente aumentato, sia pure di dimensioni contenute,
rispetto a quello dei BMS, ma, peraltro, precisando che il
rischio incrementale appare confinato alla sottopopolazione dei
DES ad impiego off label, che copre circa il 60% della totalità
dell’uso dei DES.
Alcuni punti relativi al fenomeno della ST meritano
approfondimento
·
La ST ha una prognosi infausta, con valori di mortalità
oscillanti tra il 9% ed il 45% e con ricorrenza fino al 18%
·
La finestra temporale in cui può comparire il fenomeno è molto
più estesa di quanto si è ritenuto in passato: essa può
realizzarsi precocemente (entro 1 mese dall’impianto nella ST
subacuta), tardivamente (tra 1 mese ed 1 anno nella ST tardiva)
e molto tardivamente (oltre 1 anno nella ST ultratardiva)
·
Entro 1 anno dall’impianto l’uso dei DES non mostra alcun
incremento di incidenza della ST rispetto ai BMS; oltre 1 anno
dall’impianto invece, la incidenza di ST ultratardiva appare più
frequente nei DES, sebbene contenuta in valori prossimi all’0.6%
per anno.
·
Nonostante l’aumento di incidenza di ST ultratardiva a carico
dei DES, questa non si associa ad un parallelo incremento di
mortalità cardiaca, fenomeno spiegabile o in relazione alla
riduzione degli eventi fatali connessi alla restenosi o perché
la mortalità cardiaca a distanza così elevata dall’evento indice
può essere spiegata da eventi estranei al segmento
originariamente trattato
·
La genesi del fenomeno ST appare multifattoriale e le diverse
variabili coinvolte giocano ruoli differenti nelle diverse forme
temporali della ST: nella ST precoce la responsabilità del
fenomeno va attribuita o a errori procedurali nell’impianto
stent (dissezione residua, espansione inadeguata con
malapposizione dello stent alle pareti del vaso) oppure a
deficit di attività inibitoria della aggregazione piastrinica
da parte dei farmaci (scarsa compliance del paziente, resistenza
al farmaco); nella ST tardiva ed ultratardiva i meccanismi
fisiopatologici sembrano chiamare in causa piuttosto fenomeni di
reazione infiammatoria cronica o di ipersensibilità che insieme
alla adozione di particolari tecniche di trattamento di lesioni
su TC o su biforcazione o di occlusione cronica totale possono
spiegare il meccanismo di ritardata ed incompleta
neo-endotelizzazione degli strut dello stent che li rende
vulnerabili alla aggressione delle piastrine attivate ed alla
successiva deposizione di fibrina.
ü
Quando, come
e perché la fase perioperatoria risulta pericolosa per il
paziente portatore di DES in DAPT candidato a chirurgia non
cardiaca?
La ST
è un processo strettamente connesso al diretto intervento delle
piastrine; peraltro, nei DES il processo di riendotelizzazione
può durare al di là del tempo previsto: non stupisce quindi che
il predittore più potente di ST è la interruzione precoce della
DAPT.
I pazienti sottoposti a chirurgia non cardiaca mostrano
mediamente un incremento significativo della mortalità se
l’intervento viene effettuato entro le sei settimane
dall’intervento rispetto ai pazienti operati dopo le sei
settimane. Una serie di 36 casi di ST tardiva in pazienti con
DES ha però mostrato una forte associazione tra gli eventi
clinici avversi e la sospensione della DAPT, con valori medi
dell’intervallo compreso tra l’impianto del DES e la comparsa
dell’evento avverso pari a 242 giorni (range 39-927 gg). Inoltre
il 55% dei pazienti aveva interrotto la assunzione sia di ASA
che di clopidogrel, mentre l’86.3% dei pazienti aveva interrotto
il solo clopidogrel secondo le prescrizioni ufficiali che
prevedono la sospensione dopo 3 mesi per i DES a rilascio di
sirolimus e dopo 6 mesi per quelli a rilascio di paclitaxel. Il
tempo medio di comparsa di un evento avverso risultò 30 giorni
per la sospensione del solo clopidogrel e 7 giorni per la
sospensione combinata di ASA e clopidogrel. In altre parole, se
la chirurgia effettuata precocemente dopo impianto DES si
associa ad un incremento inaccettabile di mortalità
perioperatoria, anche per i pazienti che abbiano completato il
prescritto periodo di 12 mesi di DAPT il rischio non si annulla,
tanto che, nei casi di impiego off label, la DAPT viene
prolungata fino a 24 mesi e, in taluni casi selezionati,
mantenuta indefinitamente.
Il clinico viene chiamato in tale contesto a mantenere un
difficile
equilibrio tra la sospensione anticipata del trattamento
antiaggregante, che può provocare un evento perioperatorio di
ST, e la decisione di non interrompere la DAPT, responsabile
dell’ incremento del rischio di sanguinamento chirurgico che può
risultare potenzialmente fatale.
I dati disponibili sembrano indicare che il rischio di
interruzione del trattamento si associa ad una incidenza di
morte cardiaca perioperatoria di almeno 5-10 volte superiore al
rischio di mantenere immodificato il trattamento.
L’intervento chirurgico come tale realizza una condizione
protrombotica e pro infiammatoria che facilita lo sviluppo di ST
perioperatoria. Lo stress chirurgico promuove una stimolazione
adrenergica ed il rilascio di citochine della fase infiammatoria
che condizionano sinergicamente un incremento della
vasomotricità coronarica e della attivazione piastrinica
connesso ad un indebolimento del sistema fibrinolitico: questo
contesto di ipercoagulabilità sembra addirittura superare quello
che si viene a creare nelle sindromi coronariche acute. D’altra
parte la sospensione improvvisa del trattamento antiaggregante
induce un pericoloso fenomeno di “rimbalzo” delle attività
funzionali piastriniche finora soppresse e che esplodono
rapidamente tutto il loro potenziale pro trombotico. La
combinazione di questi due fenomeni, le modifiche indotte dallo
stress chirurgico e le conseguenze della risposta in rimbalzo
alla sospensione della DAPT, fanno comprendere quanto sia
potenzialmente catastrofico l’atteggiamento non infrequente di
quei chirurghi che, per minimizzare il sanguinamento
intraoperatorio, non esitano a sospendere il trattamento
antiaggregante senza considerare i rischi connessi nel singolo
paziente, in particolare se portatore di DES ad impianto
recente.
ü
Impatto
della DAPT sul rischio di sanguinamento
La previsione del rischio incrementale di sanguinamento e di
impiego di trasfusioni in pazienti sottoposti a chirurgia
maggiore non cardiaca è stata largamente derivata dalla
letteratura cardiochirurgica che contiene dati controversi.
Sicuramente i pazienti in DAPT che vengono sottoposti a
chirurgia coronarica presentano una maggiore incidenza di
sanguinamento, di revisione e di trasfusione, in particolare
quelli che affrontano l’intervento a meno di 5 gg dalla
sospensione del clopidogrel; ma anche in questi l’aumento del
rischio di queste complicanze perioperatorie non sembra mai
tradursi in un significativo aumento di mortalità.
I dati provenienti dalle analisi condotte in chirurgia non
cardiaca appaiono più limitati e controversi. Nella metanalisi
di Burger, che ha incluso oltre 40000 pazienti sottoposti a
chirurgia non cardiaca, continuare l’ASA ha generato un rischio
incrementale di sanguinamento del 50%, senza però aumentare la
incidenza dei sanguinamenti severi né dei sanguinamenti fatali
con eccezione della chirurgia intracranica, della chirurgia del
canale spinale e della prostatectomia trans uretrale (ma
aumentando significativamente la incidenza degli eventi
cerebro-cardio-vascolari). I dati di numerosi studi sembrano
convergere sulla evidenza che, pur in presenza di un sicuro
incremento del sanguinamento chirurgico, il trattamento
antiaggregante non risulta associato a modifiche significative
in termini di esiti sfavorevoli a distanza dell’intervento
chirurgico e di mortalità.
In conclusione, il rischio connesso alla sospensione della DAPT
in pazienti con DES potrebbe avere un peso decisamente maggiore
del rischio di mantenerla immodificata, in particolare nei
pazienti ad alto rischio di ST, e la pratica sfortunatamente
comune di interrompere i farmaci in fase preoperatoria andrebbe
scoraggiata pur in una gestione caso per caso del paziente
individuale.
ü
Strategie di
gestione perioperatoria del paziente con DES in DAPT
In relazione alla mancanza di studi prospettici che abbiano
affrontato questo specifico argomento,
l’approccio
alla gestione del paziente portatore di DES e candidato a
chirurgia non cardiaca dovrebbe essere condotto su base
individuale, ispirarsi ad una visione multidisciplinare che
coinvolga il cardiologo, il chirurgo e l’anestesista ed infine
considerare costantemente il rapporto tra rischio trombotico e
rischio emorragico.
Gli interventi chirurgici in elezione dovrebbero essere
differiti almeno 6 mesi, ma, meglio ancora, 12 mesi dopo
l’impianto del DES; in epoca anteriore ai 6 mesi, qualora
l’intervento non possa essere differito per una condizione di
urgenza, è della massima importanza mantenere la DAPT per
ridurre il rischio di ST: questa condotta può essere seguita
nella maggioranza degli interventi chirurgici ad eccezione di
quelli effettuati in aree anatomiche caratterizzate da uno
spazio chiuso in cui il sanguinamento potrebbe avere conseguenze
catastrofiche, come per la chirurgia intracranica, del canale
spinale, della camera posteriore dell’occhio e per la resezione
transuretrale della prostata.
Per gli interventi da affrontare a distanza di oltre 12 mesi
dall’impianto il rischio di ST, pur nettamente inferiore a
quello della chirurgia più precoce, non può essere considerato
assolutamente marginale e trascurabile; pertanto, se il rischio
emorragico appare contenuto, è preferibile continuare la DAPT;
se invece tale rischio appare più consistente e non sussistono
fattori di rischio per una ST ultratardiva, sembra ragionevole
sospendere esclusivamente la tienopiridina e mantenere
l’aspirina.
Negli interventi associati ad un elevato rischio di
sanguinamento perioperatorio per problemi connessi al tipo di
chirurgia o al tipo di paziente, la tienopiridina può essere
sospesa 5 gg prima, mantenendo l’aspirina; ma, in relazione alla
alta incidenza di ST nei primi giorni subito dopo l’intervento,
è necessario ricominciare la assunzione di clopidogrel appena
possibile e con dose di carico di 600 mg.
Nel caso di ricorso precoce alla chirurgia in una finestra
temporale ancora particolarmente critica per la incidenza di
eventi e nel caso in cui sussistano uno o più fattori di rischio
per ST (diabete mellito, insufficienza renale cronica, recente
SCA, trattamento di TC, di biforcazione, di lesione lunga,
impiego di DES multipli) bisogna prendere in considerazione una
terapia di transizione (“bridging therapy”). Allo stato attuale
gli antitrombotici del tipo eparina non frazionata o eparina a
basso peso molecolare, largamente utilizzati in clinica per
sostituire la TAO in fase perioperatoria, ed intituivamente
proposti anche in questo contesto clinico, non hanno mostrato
alcuna efficacia nella prevenzione della ST in pazienti con DES
perché non mostrano alcuna attività nei confronti delle
piastrine che risultano direttamente coinvolte nel fenomeno alla
base della ST. Una categoria di farmaci particolarmente
interessante per le prospettive di impiego in questo particolare
contesto clinico è invece rappresentata dagli inibitori del
recettore GP IIb/IIIa; tra questi, con esclusione dell’abcximab
che mostra un legame irreversibile con il recettore ed un tempo
di azione non utilmente prolungato, le piccole molecole,
tirofiban ed eptifibatide, mostrano una breve emivita dovuta ad
un legame reversibile con il recettore, il che consente un
completo recupero della funzione piastrinica entro le 2-4 ore
successive alla sospensione della infusione del farmaco. Un
recente studio prospettico di bridging therapy, condotto con
l’impiego di un inibitore anti GP IIb/IIIa a breve durata
d’azione in 30 pazienti con impianto recente di DES (< 4 mesi) e
sottoposti d’urgenza a chirurgia maggiore, non ha mostrato alcun
evento fatale, né di ST né di infarto miocardico, in presenza di
due soli sanguinamenti postoperatori, uno maggiore ed uno minore
gestiti in maniera conservativa.
In conclusione,
se il
rischio di sanguinamento perioperatorio appare accettabile è
importante mantenere la DAPT. Se, invece, il rischio emorragico
è rilevante e non sussistono concomitanti fattori di rischio per
ST può essere ragionevole sospendere la tienopiridina mantenendo
l’aspirina. Nei pazienti che presentano simultaneamente fattori
di rischio multipli per ST e un elevato rischio emorragico va
presa in considerazione la “bridging therapy”
(fig 2).

Fig 2. Algoritmo per la gestione perioperatoria dei pazienti con
DES (da voce n°5)
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