UN FATTORE DI RISCHIO EMERGENTE:
IL VIRTUOSISMO PROCEDURALE
Roberto Violini
UO Cardiologia Interventistica – Azienda Ospedaliera
S.Camillo Forlanini – Roma
Il decennio che ormai volge al
termine e’ stato caratterizzato, in Cardiologia Interventistica
Coronarica, da enormi progressi
che hanno sopravanzato ed oscurato i pur notevoli successi degli
anni ’90.
Mentre alcune “promettenti”
tecniche scomparivano o si ridimensionavano pesantemente, come
l’Aterectomia direzionale (scomparsa) e l’Aterectomia
rotazionale (sopravvissuta con indicazioni di nicchia), la
triade degli strumenti fondamentali per eseguire una procedura
percutanea coronarica, la guida, il catetere dilatatore e lo
stent, ha subito un’evoluzione senza precedenti con un impatto
enorme su indicazioni, risultati e complicanze.
Le guide hanno acquistato
caratteristiche peculiari che permettono ormai di affrontare
lesioni molto complesse, compresa l’occlusione cronica di
vecchia data, i cateteri dilatatori, con la riduzione del
profilo e l’incremento della capacita’ di spinta, non si fermano
piu’ davanti a lesioni molto serrate e calcifiche ed infine gli
stent con la possibilita’ di rilasciare farmaci
antiproliferativi hanno inciso in maniera determinante sulla
frequenza di restenosi. E’ cosi’ ora possibile trattare per via
percutanea pazienti trivasali, la patologia del tronco comune,
stenosi lunghe, tortuose e calcifiche.
Quindi oggi sono veramente poche
le stenosi coronariche che non e possibile trattare da un punto
di vista tecnico con tecniche percutanee. Paradigmatico e’ il
risultato della PCI delle occlusioni croniche: da una
percentuale di successo del 50% nelle lesioni di eta’ > 3 mesi
si e’ passati ad un successo procedurale del 80%, con
indicazioni che ormai ignorano l’eta’ della patologia. Ed in
quel 20% di “insuccesso” l’approccio retrogrado, cioe’
attraverso il vaso controlaterale ed il circolo collaterale
permette di dimezzare i risultati negativi. L’aggressivita’
dell’approccio paga pero’ uno scotto, piccolo e significativo,
di complicanze in termini soprattutto di dissezioni e
perforazioni.
La prima conseguenza di questo
incredibile successo e’ stata la minor attenzione alle
indicazioni cliniche.
I pazienti asintomatici sono
ormai trattati sulla base del riscontro di ischemia, anche
limitata, ad un’esame strumentale, cosi’ che vengono sottoposti
a PCI numerosi pazienti che in base alle tante celebrate, ma
altrettanto trascurate, linee guida non avrebbero dovuto fare
nemmeno una coronarografia. Ed e’ proprio l’ampliamento delle
indicazioni all’esame diagnostico il primo responsabile del gap
ormai esistente tra teoria e realta’, tra la clinica e gli
interventi eseguiti. Non e’ forse un caso che, in presenza di
una pletora di linee guida, spesso sovrapposte e contraddittorie
perche’ dettate da associazioni diverse e rinnovate ogni due
anni, le ultime linee guida per la coronarografia sono state
pubblicate nel 1999. E’ verosimile che cio’ avvenga per la
difficolta’ a tradurre in linee guida le indicazioni “senza
freni” che caratterizzano l’odierno mondo clinico reale.
Da qui nasce che il tanto citato
riflesso oculo-stenotico diventa la prima indicazione alla PCI,
complice il paziente che ormai non sopporta piu’ l’idea di
essere portatore di una stenosi coronarica e di essere
condannato a “non far nulla”, essendo ormai, nella concezione di
medico e paziente, la terapia farmaclogica oggetto di assoluto
nichilismo..
Per fortuna alcuni studi (COURAGE,
MASS II) hanno recentemente riaffrontato tale problema,
rimettendo in evidenza il ruolo della terapia farmacologica e
ridimensionando quello della rivascolarizzazione. La vasta eco
ottenuta, sia nel mondo cardiologico che sulla stampa non
specializzata, da tali studi hanno fatto dimenticare anche ai
piu’ colti che gia’ nel 1984 il CASS aveva data il medesimo
risultato confrontando terapia medica e rivascolarizzazione
chirurgica.
La voglia di affrontare una
lesione difficile, dimostrando la superiorita’ della PCI e le
proprie capacita’ tecniche, fanno cosi’ spesso dimenticare i
punti fondamentali di un approccio integrato tra clinica e
virtuosismo procedurale:
1.
la rivascolarizzazione, tranne che nella patologia del TC
o dell’IVA prossimale o in presenza di funzione ventricolare
ridotta e suscettibile di ripresa, non cambia la prognosi
pertanto il paziente puo’ trarre
vantaggio solo in termini di qualita’ della vita. E quale
vantaggio trae in questo contesto il paziente asintomatico?
2.
una regione miocardica non vitale non si giova della
rivascolarizzazione e la teoria del vantaggio del vaso pervio a
distanza da un infarto miocardico e’ stata rigettata dallo
studio OAT
3.
il dato piu’ costante che la letteratura cardiologica
abbia mai riportato, confermato da decine di studi dal BARI
(1996) al SYNTAX (2008), e’ che la rivascolarizzazione
percutanea nel paziente diabetico ha risultati inferiori a
quella chirurgica
4.
una procedura con rischio elevato e scarsa
giustificazione clinica e’ un errore medico anche se termina con
risultato positivo, senza complicanze.
Un utile approccio ci viene oggi
fornito dagli ultimi studi clinici ed in particolare dal SYNTAX
che grazie al suo score permette di valutare piu’ oggettivamente
il rischio procedurale rendendolo confrontabile con quello
chirurgico, espresso dall’EUROSCORE, pieno di limiti ma con
un’innegabile validita’ intrinseca.
Il virtuosismo procedurale porta
a brillanti risultati ed enormi soddisfazioni, ma e’
caratterizzato spesso da inutilita’ clinica della procedura ed
incremento dei rischi per il paziente: l’approccio piu’ corretto
deve partire dalla considerazione degli aspetti clinici per
arrivare a considerare sempre l’alternativa chirurgica e,
quindi, a valutare pro e contro di tutte le indicazioni
possibili in quel malato.