Ipertensione arteriosa e rischio cardiovascolare:

la problematica ricerca

di una appropriata gestione della terapia

 

Michele A. Tedesco

Dipartimento di Cardiologia, Seconda Università di Napoli, A.O.R.N. Monaldi

 

L’ipertensione arteriosa può essere definita come una sindrome clinica complessa caratterizzata da un aumento stabile dei valori della pressione arteriosa oltre una valore soglia definito sulla base delle evidenze epidemiologiche. Nell’adulto si considera ottimale una PA di 120/80 mmHg e si parla di ipertensione arteriosa quando I valori sono uguali o maggiori di 140/90 mmHg. Pertanto, la condizione essenziale per un corretto inquadramento ed indispensabile per l’approccio al paziente iperteso è una precisa valutazione della PA. La prevalenza dell’ipertensione arteriosa è stata analizzata in numerosi paesi del mondo ricavando risultati sostanzialmente univoci. Dai dati raccolti negli ultimi anni sembra che la prevalenza nella popolazione generale sia di circa il 25% e che nella popolazione olter I 60 anni essa sia di circa il 50%, pertanto si può presumere che siano oltre un miliardo nel mondo le persone ipertese e che, di esse, è stato documentato che solo un quarto abbia una PA ben controllata. Questa situazione è in parte legata alla natura asintomatica della malattia, infatti sottoporsi ad un nuovo stile di vita rinunciando ad abitudini ormai consolidate, come dover dimagrire, smetere di fumare o ancor di più dover cominciare una terapia farmacologica, per un problema che inizialmente non procura danni e di cui il paziente non può avere prova tangibile, porta ad una sottostima della malattia. Inoltre, inizialmente l’iperteso in terapia farmacologica percepisce un peggioramento della qualità della vita poichè la riduzione dei valori di PA (soprattutto se brusca e con terapie aggressive) procura riduzione della vis con cui il sangue raggiunge la periferia e pertanto l’organismo deve adattarsi ad una nuova situazione emodinamica con tutti I sintomi ad essa correlata (stanchezza, difficoltà di concentrazione, etc.). l’iperteso quindi non sente la malattia ipertensiva e, soprattutto non si rende conto della complessa sofferenza multidistrettuale che coinvolge gli organi bersaglio (cervello, cuore, rene, arterie). La disponibilità di linee guida ha consentito di trasformare gli obiettivi della terapia dell’ipertensione arteriosa focalizzandoli sulla riduzione del rischio CV globale piuttosto che sulla semplice riduzione dei valori pressori. Quest processo fonda sulla EBM che ha dimostrato che il beneficio della terpia sta più nel migliorare complessivamente il profilo di rischio che non nel controllare un singolo fattore. Infatti solo meno del 20% degli ipertesi hanno gli elevati valori pressori come unico determinante del rischio CV ed i grandi studi clinici hanno dimostrato la validità di approcci terapeutici globali che mentre riducono I valori pressori non peggiorano gli altri fattori di rischio e addirittura riducono le probabilità di sviluppare il diabete mellito. Nella scelta iniziale del trattamento antiipertensivo alcune questioni sono, ancora oggi, oggetto discussione. Il primo problema riguarda la scelta del farmaco iniziale, in particolare, soprattutto negli USA, le classi di farmaci raccomandate come primo gradino del trattamento antiipertensivo sono quelle meno costose (diuretici e beta-bloccanti), sulla scelta iniziale del farmaco antiipertensivo il recente report della JNC-VII (JAMA 2003), conclude che quando si decide di iniziare una terapia antiipertensiva, se non è indicato un altro tipo di farmaco per la presenza di fattori di rischio e/o condizioni morbose concomitanti, si deve scegliere un diuretico o un beta-bloccante, poichè trial clinici a lungo termine hanno già evidenziato una riduzione significativa della morbilità e della mortalità in pazienti ipertesi trattati rispetto al placebo.

Tuttavia vi sono evidenze cliniche provenienti da trial farmacologici comparativi non controllati con placebo secondo cui sia i farmaci che interferiscono con il sistema RAA che I calcio-antagonisti sono efficaci nel ridurre la morbilità e la mortalità specialmente se utilizzati con un diuretico o in associazione con altri farmaci. E per tali motivi la WHO-ISH afferma che, sebbene esistano numerosi dati sugli effetti favorevoli di farmaci di più antico utilizzo come diuretici e β-bloccanti, un numero inferiore di dati sono disponibili su Ca-antagonisti, ACE-I e non ci sono ancora dati certi su α-bloccanti e AIIA, ogni clase oggi disponibile può rappresentare una scelta valida per il trattamento iniziale. A sostegno di ciò ci sono evidenze che i benefici principali del trattamento dell’ipertensione siano legati alla riduzione pressoria per se stessa prima ancora che a particolari proprietà dei farmaci utilizzati e solo pochi e fra i più recenti trial randomizzati hanno fornito l’evidenza che farmaci differenti, che causano la stessa riduzione di PA, possono offrire una diversa protezione d’organo.

Nella scelta terapeutica esistono alcuni aspetti condivisi da tutti, in particolare, che essa si debba basare sulle caratteristiche clinico-demografiche e sulla presenza di eventuali fattori di rischio e condizioni morbose concomitanti del paziente da trattare; ad esempio pazienti di colore e di età più avanzata hanno maggiori probabilità di raggiungere la normentesione utilizzando diuretici a Ca-antagonisti, mentre con ACE-I, AIIA e ß-bloccanti una minore percentuale di pazienti diviene normoteso. Al contrario, pazienti bianchi e di età inferiore ai 50 anni rispondono meglio ai ß-bloccanti, agli ACE-I ed agli AIIA. In pazienti con angina pectoris, un composto ß-bloccante o Ca-antagonista a lunga durata d’azione può costituire una prima scelta in monoterapia.

 

 

Bibliografia

 

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