Processo all’angioplastica multivaso:
La Difesa.
Tullio Niglio, MD, Carolina D’Anna, MD, Federico Piscione, MD.
Laboratorio di Emodinamica e Cardiologia Interventistica.
Dipartimento di Medicina Clinica,
Scienze Cardiovascolari ed Immunologiche.
Università degli Studi di Napoli “Federico II”
Affrontare la
complessa questione sulle possibili strategie di
rivascolarizzazione per i pazienti con malattia coronarica
multi-vasale – intervento coronarico percutaneo (PCI) o
chirurgico (CABG) – costituisce non solo un problema
scientificamente attuale, ma anche di stretto interesse
epidemiologico se si tiene conto che l’Italia, insieme
all’Olanda, detiene il primato di rivascolarizzazione coronarica
multi-vasale mediante PCI.1 In cifre, mentre nel Nord
America solo il 20% dei pazienti con malattia dei tre vasi è
rivascolarizzato attraverso PCI (lasciando il restante 80% dei
casi alla chirurgia), in Italia il 40% circa di tali pazienti è
trattato con PCI (figura 1).
Figura 1.
Tassi di
rivascolarizzazione coronarica nei pazienti con malattia
multi-vasale trattati con intervento coronarico percutaneo (PCI)
e by pass aorto-coronarico (CABG).

Naturalmente,
risulta impossibile discernere se tale dato sia da ascrivere ad
un’impavida cardiologica interventistica, ad una prudente
chirurgia cardiaca, ovvero alla maggior aderenza americana alle
Linee-Guida.
Quest’ultime,
infatti, relegano la PCI, per i pazienti con malattia
multivasale, ad indicazioni di Classe IIb oppure III, con bassi
livelli di evidenza.2,3 Ne l corso di quest’anno,
inoltre, sono stati pubblicati, per la prima volta, i criteri di
appropriatezza per la rivascolarizzazione coronarica, che
indicano, per i pazienti con malattia multi-vasale, come
“appropriato” l’intervento di by-pass aortocoronarico, e
conferiscono, invece, all’angioplastica un più che pusillanime
“incerto”.4
Certamente,
gli orientamenti terapeutici tracciati dalle Linee-Guida
poggiano su basi scientifiche solide: infatti tutti gli studi
che hanno messo a confronto PCI e CABG – sia con l’angioplastica
col solo pallone (GABI, EAS, RITA, ERACI, CABRI e BARI), sia con
l’utilizzo di stent non-medicati (MASS-2, SoS, ARTS I), che con
quello di stent medicati (MAIN-COMPARE, LE MANS) – hanno
evidenziato una maggior necessità di re-intervento nei pazienti
trattati con angioplastica. Dunque, dal momento che già i
singoli studi hanno dimostrato un beneficio della chirurgia in
termini di re-intervento, le più recenti meta-analisi non sono
altro che pleonastici coacervi di dati che ripropongono
nuovamente risultati già noti alla comunità scientifica.5,6
In realtà, nel pesare le possibili alternative terapeutiche, non
si può ciecamente limitare il perimetro delle variabili cliniche
valutate semplicisticamente a quelle di pertinenza
cardiovascolare (morte, infarto, ictus cerebri e nuova
rivascolarizzazione). Non si possono ignorare complicanze,
eufemisticamente “accessorie”, della chirurgia cardiaca: nello
studio di Lu et al.7, per esempio, in cui sono stati
arruolati pazienti candidati a CABG per malattia del tronco
comune trattati sia in off- che on-pump, oltre ad una mortalità
intra-ospedaliera del 2.8%, possono, altresì, essere menzionate
l’insufficienza renale (≈ 3.8%), complicanze gastrointestinali
(≈3.5%), aritmie atriali (≈30%) e ventricolari (≈3.4%),
necessità di impiantare un pacemaker (≈3.5%), infezioni
toraciche (≈5%), infezioni della ferita (≈4%), reintervento per
emorragia (≈3%), ventilazione >48 ore (≈5.5%), degenza
post-operatoria >14 giorni (≈9%). Ed ancora, la disfunzione
cognitiva post-operatoria, coinvolgente funzioni quali la
memoria, la capacità di concentrarsi o di processare
correttamente le informazioni, è una complicanza nota da più di
30 anni.8 La disfunzione cognitiva post-operatoria
non risparmia neppure l’acclamata chirurgia off-pump: in uno
studio randomizzato del 2002, il 21% dei pazienti trattati in
“off-pump” ed il 29% di quelli trattati in “on-pump” hanno
sviluppato un declino cognitivo a 3 mesi dopo la chirurgia
cardiaca (differenza statisticamente non significativa, p=0.15).9
Un altro
problema, che potrebbe apparire ai più semplice logomachia, è
rappresentato dal processo diagnostico che conduce alla
definizione di malattia multi-vasale. Per esempio, in uno
studio, che ha coinvolto 250 pazienti (471 lesioni coronariche),
sono state messe a confronto due strategie diagnostiche: una
costituita solo dall’angiografia coronarica e l’altra guidata
anche dalla valutazione della riserva di flusso coronarico, al
fine di definire non solo le caratteristiche anatomiche dei vasi
coronarici, ma anche quelle funzionali.10 Dunque,
mentre con la sola valutazione angiografica il 30%, 43% e 27%
dei pazienti è stato definito affetto da malattia coronarica,
rispettivamente, mono-, bi- e tri-vasale; con la seconda
strategia, il 60%, 17% e 9% degli pazienti è stato classificato
affetto da malattia coronarica mono-, bi- e tri-vasale.10
Sono, pertanto, almeno tre gli elementi degni di nota: il primo,
con la sola valutazione angiografica nel 58% dei casi si
commette un errore di classificazione; il secondo, il 14% dei
pazienti cui è stata diagnosticata una malattia coronarica
mono-vasale, in realtà, non ha una stenosi significativa dal
punto di vista funzionale; il terzo, 2 pazienti su 3, definiti
angiograficamente tri-vasali, sono funzionalmente
bi-vasali, o, addirittura, mono-vasali. Risulta, pertanto,
evidente la complessità e l’eterogeneità dei pazienti con
malattia multi-vasale, il giogo imposto dalla sola definizione
angiografica, e come un problema inizialmente a carattere
semantico trasli in un piano a contenuto epistemologico.
Sono proprio
questi i motivi per cui recentemente è stato sviluppato il
SYNTAX score11: esso si basa sulla valutazione di
singole lesioni coronariche (che vanno tra loro sommate per
ottenere uno score totale), tenendo conto della localizzazione
lungo il decorso epicardico, la dominanza del vaso, il grado di
stenosi, la presenza di lesioni di biforcazione o triforcazione,
la tortuosità della coronaria interessata, la lunghezza della
lesione stessa, la presenza di trombosi intraluminale, la
localizzazione aorto-ostiale e l’estrema calcificazione. Questo
score è stato poi applicato ai pazienti arruolati nello studio
SYNTAX12, che ha messo a confronto CABG versus PCI
con impianto di stent medicato (nel trial è stato utilizzato il
dispositivo TAXUS, a rilascio di paclitaxel, che è in grado,
interferendo con la funzione linfocitaria, di inibire il ciclo
cellulare, e la proliferazione neo-intimale, responsabile,
infine, della restenosi dello stent e della necessità di nuova
rivascolarizzazione). Nel SYNTAX sono stati arruolati 1,800
pazienti, con malattia tri-vasale e/o malattia del tronco
comune, e randomizzati, in proporzione 1:1, a CABG o PCI con
impianto di TAXUS.12 I risultati ad 1 anno, hanno
mostrato un vantaggio della chirurgia in termini di nuova
rivascolarizzazione (13.5% vs. 5.9%, PCI vs CABG
rispettivamente), mentre l’incidenza di morte ed infarto del
miocardio è sovrapponibile tra le due strategie. In aggiunta,
l’ictus, complicanza che è associata ad un’elevata incidenza di
grave disabilità permanente, è risultato più frequente nei
pazienti trattati con CABG (2.2% vs. 0.6% rispettivamente). Se
da una parte, coloro che difendono la chirurgia correlano la più
alta incidenza di ictus ad un basso rate di interventi eseguiti
off-pump (15%), dall’altra parte, essendo il SYNTAX un trial
multi-centrico, in cui ben 85 centri distribuiti in 17 nazioni
sono stati coinvolti, il 15% degli interventi off-pump riflette
in maniera reale la corrente pratica chirurgica dell’Europa e
degli Stati Uniti. Fino a quanto detto, sembrerebbe che il
SYNTAX abbia aggiunto poco alle conoscenze già acquisite su
questo tema. In realtà, la parte più interessante dello studio è
l’analisi effettuata in base alla severità delle lesioni da
rivascolarizzare, sulla scorta del SYNTAX score. Infatti,
dividendo la popolazione in base ad uno score basso (≤22),
intermedio (23-32) ed alto (≥33), si osserva che non vi è
differenza tra CABG e PCI per i pazienti a score basso ed
intermedio, mentre il vantaggio è chiaramente a favore della
chirurgia per i pazienti con uno score alto. Anche i risultati a
2 anni, presentati recentemente al congresso della Società
Europea di Cardiologia (ESC), mostrano un trend simile: non vi è
differenza tra CABG e PCI per i pazienti con un SYNTAX score
basso ed intermedio. Il messaggio che ne deriva risulta chiaro:
prima di affidare al chirurgo un paziente con malattia
multivasale, bisognerebbe stadiare la severità della
malattia coronarica, così come da decenni l’oncologia fa per le
patologie neoplastiche, valutare il rischio chirurgico del
paziente stesso, discutere il caso col cardiochirurgo e, solo a
questo punto, intraprendere una decisione finale, tenendo conto
della sovrapponibilità dei risultati tra chirurgia ed
angioplastica in casi selezionati. Nel SYNTAX, ad esempio, il
tempo tra l’angiografia coronarica e l’angioplastica è stato in
media di circa 7 giorni, a riprova della necessaria
interrelazione tra cardiologo interventista e cardiochirurgo.
Se lo studio
SYNTAX ha proposto un nuovo modo di guardare alla malattia
coronarica multi-vasale, “there is three-vessel disease and
three-vessel disease” dice P.W. Serruys, fornendo uno
strumento in grado di discernere forme complesse di malattia
coronarica, da forme a grado basso o intermedio, lo studio FAME13,
anche esso di recente pubblicazione, propone un’ulteriore
prospettiva: basare l’individuazione del paziente multi-vasale
non già sulle sole basi anatomiche, ma funzionali. Lo studio ha
randomizzato 1,005 pazienti con malattia multi-vasale (definita
come una stenosi >50% in almeno 2 delle 3 coronarie epicardiche
maggiori) a ricevere una rivascolarizzazione mediante PCI e
guidata solo dall’angiografia, o una rivascolarizzazione
mediante PCI e misurazione, in tutte le lesioni >50%, della
riserva di flusso coronarico (FFR), un indice accurato per
indicare se una particolare stenosi coronarica sia responsabile
di ischemia inducibile. Nei pazienti randomizzati a quest’ultimo
braccio, l’angioplastica è stata eseguita solo in caso di
ridotta FFR (rapporto tra pressione media distale e prossimale
alla stenosi <0.8014). I risultati ad un anno hanno
dimostrato una riduzione, a favore della misurazione di routine
della FFR, dell’endpoint composito di morte, infarto del
miocardio e necessità di re-intervento di circa il 30%, guidata
essenzialmente da una ridotta incidenza del composito di morte
ed infarto del miocardio. Inoltre, l’elemento più suggestivo
dello studio è che gli eventi maggiori cardio-cerebro-vascolari
nel braccio FFR del FAME (11%) sono del tutto sovrapponibili al
braccio CABG del SYNTAX (12.4%).
I risultati
del SYNTAX e del FAME gettano nuova luce sulla
rivascolarizzazione del paziente con malattia coronarica
multi-vasale, ponendo le basi per un nuovo rinascimento
dell’approccio percutaneo in questo specifico scenario clinico e
delineando in maniera definitiva il crepuscolo della
stentomania.
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