Ipertensione e danno d’organo cardiovascolare: come riconoscerlo
e come prevenirlo
Salvatore Pezzullo, Aldo Celentano
UOC di Cardiologia e UTIC – PO dei Pellegrini, ASL NA1 Centro -
Napoli
L’ipertensione arteriosa rappresenta “il più frequente disordine
cardiovascolare”, con una prevalenza media che in Italia si
attesta intorno al 33% negli uomini e al 28% nelle donne,
secondo gli ultimi dati del Progetto Cuore, e costituisce,
inoltre, un’importante causa di morbilità e mortalità sia
cardiovascolare che globale, nei paesi industrializzati, ma
anche nei paesi in via di sviluppo. Nello studio di Framingham,
l’incidenza di angina, infarto miocardico e morte improvvisa è
risultata complessivamente del 17,4% nei maschi e del 9,6% nelle
femmine tra i soggetti normotesi, mentre è circa il doppio nei
soggetti con ipertensione arteriosa lieve di entrambi i sessi
con un aumento ulteriore tra i pazienti ipertesi con valori
pressori più elevati. Inoltre, secondo i dati di follow-up dello
studio MRFIT relativo a soggetti di sesso maschile, l’eccesso di
mortalità per cardiopatia ischemica direttamente attribuibile
all’ipertensione arteriosa è pari a circa il 7, 17 e 43% nelle
tre fasce di ipertensione arteriosa sistolica 140-159 mmHg,
160-179 mmHg e >180 mmHg. La riduzione dei livelli
pressori in pazienti ipertesi rappresenta un intervento di
protezione efficace nei confronti delle complicanze
cardiovascolari e renali, ed esiste ormai una forte evidenza che
il beneficio è massimo quanto più stretto e stabile è il
controllo dei valori pressori.
Gran parte
dei pazienti ipertesi presenta in aggiunta all’ipertensione
arteriosa uno o più fattori di rischio cardiovascolare, che
spesso amplificano sensibilmente il loro rischio cardiovascolare
globale. Tuttavia, negli ultimi anni la maggiore comprensione
dei meccanismi fisiopatologici della malattia ipertensiva e gli
avanzamenti tecnologici hanno fatto emergere altri aspetti
importanti in grado di influenzare il rischio cardiovascolare
globale del paziente iperteso; in particolare, la presenza di un
danno d’organo cardiovascolare preclinico o di altre condizioni
cliniche, come il diabete, la cardiopatia e la nefropatia
conclamate, modifica drasticamente l’atteggiamento terapeutico
da adottare nei confronti del paziente. Il danno d’organo
rappresenta non solo una complicanza precoce ed asintomatica
dell’ipertensione arteriosa, ma anche un predittore indipendente
di eventi cardiovascolari, come nel caso dell’ipertrofia
ventricolare sinistra o della microalbuminuria. Nei pazienti
ipertesi la ricerca sistematica della presenza di un danno
d’organo cardiovascolare preclinico è fortemente raccomandata
dal momento che consente una migliore stratificazione del
rischio cardiovascolare, incoraggia il conseguimento di valori
pressori più bassi ed aiuta nella scelta dei farmaci
antipertensivi più appropriati. Come indicato dalle ultime linee
guida sull’ipertensione arteriosa (2007) dell’European Society
of Hypertension (ESH) e dell’European Society of Cardiology
(ESC), l’evidenza di un singolo danno d’organo influenza la
prognosi dei pazienti in funzione della severità
dell’ipertensione, e quindi un paziente potrebbe essere
considerato ad elevato rischio cardiovascolare anche in presenza
di valori pressori ancora nel range normale-alto (sistolica
130–139 mmHg o diastolica 85–89 mmHg). Ciò ha importanti
implicazioni dal punto di vista pratico dal momento che oltre ad
implementare le modifiche dello stile di vita, in tali pazienti
potrebbe essere giustificato già l’inizio di una terapia
farmacologica. Inoltre, in presenza di danno d’organo è utile
anche abbassare a 130/80 mmHg il target di pressione arteriosa
da raggiungere.
Il danno
d’organo cardiovascolare è essenzialmente identificabile
nell’ipertrofia ventricolare sinistra, nelle placche
aterosclerotiche a livello vascolare e nell’albuminuria.
Ipertrofia ventricolare sinistra (IVS)
Lo stress
sistolico indotto dagli elevati livelli di pressione arteriosa
intraventricolare viene normalizzato mediante l’induzione della
replicazione dei sarcomeri. L’aumento della grandezza dei
miocardiociti è il principale fattore di ispessimento della
parete ventricolare. L’ipertrofia può manifestarsi nella forma
concentrica (spessore relativo > 0.45) o eccentrica anche senza
dilatazione (spessore relativo < 0.45 ) in relazione a fattori
emodinamici e a fattori di altra natura ancora non ben definiti.
L’ispessimento della parete ventricolare è anche dovuto ad uno
sproporzionato aumento e rimodellamento della matrice
extracellulare con insufficiente neoformazione di vasi
capillari. L’IVS è presente nei pazienti con ipertensione
arteriosa con una percentuale che varia dal 15 al 55% a seconda
del tipo di popolazione esaminata e costituisce, sia quando
diagnosticata elettrocardiograficamente, sia quando
diagnosticata ecocardiograficamente, un importante predittore di
mortalità e morbilità cardiovascolare nei pazienti ipertesi,
nella popolazione generale ed in pazienti con o senza
coronaropatia. Le alterazioni del microcircolo coronarico e la
riduzione della riserva coronarica possono precedere la comparsa
dell’IVS. La riduzione della riserva coronarica nei pazienti
ipertesi in assenza di IVS e di stenosi delle arterie coronarie
epicardiche può essere secondaria a: aumento dello spessore
delle piccole arterie, aumento delle resistenze extravascolari
coronariche per compressione intramiocardica, aumento del
consumo basale di ossigeno, alterata funzione endoteliale.
Aterosclerosi
Esiste una
relazione positiva tra livelli di pressione e numero ed entità
di lesioni aterosclerotiche, dal momento che un aumento di
pressione intravascolare determina un incremento dello stress di
parete ed un danneggiamento dell’endotelio, tali da favorire
l’iniziale formazione ed il successivo accrescimento della
placca aterosclerotica. Ciò è stato dimostrato a livello delle
carotidi comuni che presentano numero ed entità di placche
(anche asintomatiche) più elevati negli ipertesi che nei
normotesi, anche in assenza di altri fattori aterogeni quali l’ipercolesterolemia
e il diabete. Anche lo spessore medio-intimale carotideo è
maggiore negli ipertesi che nei normotesi; spessore
medio-intimale nonché numero e gravità delle lesioni
aterosclerotiche carotidee sono stati in alcuni studi messi in
relazione con l’aterosclerosi di altri distretti e con un
maggior rischio di eventi coronarici e cerebrali. È anche stato
dimostrato che l’ipertensione è uno dei fattori di rischio più
importanti per l’arteriopatia obliterante degli arti inferiori e
che l’aneurisma dell’aorta è più frequente negli ipertesi che
nei normotesi il che rende il controllo dei valori pressori un
presidio terapeutico di fondamentale importanza in questa
patologia. Infine, è noto che esiste una relazione tra patologia
aterosclerotica coronarica e lesioni aterosclerotiche di
carotidi ed arterie periferiche Tutto ciò suggerisce
l’opportunità di una valutazione estesa del danno d’organo
periferico in presenza di danno cardiaco e, di converso, una
ricerca del danno cardiaco in presenza di vasculopatie
periferiche.
Microalbuminuria
La
microalbuminuria consiste in un’escrezione urinaria di albumina
ad un livello non ancora identificabile con i comuni metodi di
laboratorio per la misurazione della proteinuria
(macroalbuminuria). La presenza di microalbuminuria predice lo
sviluppo di proteinuria nei pazienti affetti da ipertensione
arteriosa. Tuttavia, la microalbuminuria non rappresenta solo un
marcatore di danno renale, ma anche un forte indicatore di
aumentato rischio cardiovascolare, nei pazienti con ipertensione
con o senza concomitante diabete. La microalbuminuria riflette
la disfunzione endoteliale, che costituisce un elemento critico
coinvolto nella patogenesi dell’ipertensione e
dell’aterosclerosi. La disfunzione endoteliale insieme ad un
incremento della pressione intraglomerulare, può provocare una
lesione dei capillari glomerulari con conseguente
microalbuminuria. Nei pazienti ipertesi non diabetici la
prevalenza di microalbuminuria varia in maniera considerevole,
con tassi che vanno dal 5% al 40%. In uno studio di coorte
condotto da medici di medicina generale, la quota di pazienti
ipertesi non trattati con microalbuminuria era pari al 32% tra
gli uomini e al 28% tra le donne, ed incrementava con l’età e
con la severità dell’ipertensione.
Il protocollo
strumentale, proposto dalle linee guida sull’ipertensione, per
l’identificazione del danno d’organo cardiovascolare nei
pazienti ipertesi prevede in prima istanza l’esecuzione di un
ECG standard a 12 derivazioni e la valutazione della
funzionalità renale mediante esame delle urine standard e
misurazione della creatininemia, che permette il calcolo
indiretto del filtrato glomerulare attraverso formule standard (Cockroft-Gault
e MDRD). La radiografia del torace e l’esame del fondo oculare
sono considerati opzionali nell’ambito della valutazione
iniziale del paziente iperteso. L’ecocardiografia è superiore
all’ECG nell’identificazione dell’IVS e l’ecoDoppler vascolare è
la metodica di riferimento per dimostrare la presenza di placche
aterosclerotiche o di un ispessimento della parete vascolare, ma
allo stato attuale entrambi questi esami strumentali non sono
indicati in tutti i pazienti ipertesi alla valutazione iniziale,
per un problema essenzialmente di costi. Al contrario, la
ricerca della microalbuminuria si fonda su test semplici, di
rapida esecuzione e poco dispendiosi, il che la rende un esame
estremamente interessante nella valutazione iniziale del danno
d’organo cardiovascolare di tutti i pazienti con ipertensione
arteriosa. Altri esami strumentali per la valutazione del danno
d’organo cardiovascolare nel pazienti iperteso includono: lo
studio della disfunzione endoteliale, mediante ultrasonografia
in corso di test di reattività vascolare farmacologici e non; e
la valutazione della rigidità (“stiffness”) arteriosa mediante
tonometria. Benché l’utilità e l’affidabilità di questi ultimi
esami siano ampiamente supportate da robuste evidenze
scientifiche, al momento, non trovano ancora collocazione
nell’ambito della pratica clinica, ma rivestono un ruolo
importante nel campo della ricerca fisiopatologica.
La maggior
parte dei pazienti ipertesi manifesta apertamente complicanze
cardiovascolari dopo una lunga fase preclinica di elevati
livelli pressori. In questo periodo asintomatico si sviluppano
progressivamente i danni funzionali e strutturali a livello
delle pareti arteriose (disfunzione endoteliale, ispessimento ed
irrigidimento, aterosclerosi) e delle pareti miocardiche
(ipertrofia). Pertanto, è assolutamente indispensabile
intervenire molto precocemente nel decorso della malattia
ipertensiva; in assenza di un danno d’organo cardiovascolare
clinicamente rilevabile, è di fondamentale importanza
incoraggiare ed intensificare le modifiche dello stile di vita,
secondo i singoli casi, in modo da contrastare l’abitudine al
fumo di sigaretta e favorire la perdita di peso attraverso una
dieta equilibrata ed una regolare attività fisica aerobica. Nel
momento in cui si identifica un danno d’organo cardiovascolare,
diventa necessario intraprendere, in aggiunta alle modifiche
dello stile di vita, anche una terapia antipertensiva con lo
scopo di ottenere un controllo stretto e stabile dei valori
pressori nel corso degli anni. Può essere impiegato qualsiasi
farmaco che abbia allo stesso tempo buona efficacia e buona
tollerabilità, in modo da consentire una compliance a lungo
termine verso il trattamento prescritto. Per ottenere la massima
protezione nei confronti del danno cardiovascolare e renale,
dovrebbero essere impiegati farmaci antipertensivi in grado non
solo di prevenire la progressione della malattia ipertensiva, ma
anche di promuovere la regressione del danno d’organo già
rilevabile. I farmaci che bloccano il sistema
renina-angiotensina per gli effetti benefici che esercitano sia
sul danno renale che sull’IVS sembrano rappresentare la prima
scelta nell’ambito delle opzioni terapeutiche.