l’i.M.A. DOPO LA dodiciSIMA orA

 

Giannignazio Carbone, Emilio Di Lorenzo, Michele Capasso,

Rosario Sauro

Emodinamica - A.O. San Giuseppe Moscati - Avellino

 

La riperfusione dell’arteria coronaria che provoca l’infarto acuto del miocardio (IMA), sia essa percutanea che farmacologica, determina vantaggi indiscussi quando è effettuata nelle prime ore dall’insorgenza dell’infarto. In particolare, nelle prime due ore, i due tipi di trattamento si equivalgono; in seguito, dopo la terza ora, i vantaggi sia in termini di riperfusione, sia come risultati a distanza risultano a favore dell’angioplastica coronarica (PTCA) primaria(1). Tuttavia, numerosi studi hanno dimostrato che oltre le sei ore il vantaggio della PTCA primaria si va affievolendo. Oltre le dodici non vi sarebbe, infatti, vantaggio sulla mortalità, dal momento che l’effetto della riperfusione su una parete ormai necrotica non determina vantaggi a distanza(2). Nonostante tali osservazione siano ormai i cardini su cui dovrebbe poggiare l’organizzazione sanitaria preposta a soccorrere il paziente colpito da IMA-STEMI, sono ancora numerosi i pazienti che non vengono riperfusi o che vengono trattati tardivamente. Tale situazione è dovuta a molteplici fattori tra cui la presentazione tardiva del paziente in Ospedale; basti pensare, a tal proposito, al paziente anziano che confonde il dolore di natura cardiaca con altre patologie coesistenti oppure al ritardo intraospedaliero o  interospedaliero tra i centri spoke ed i centri hub, oltre che  alla mancanza di coordinamento tra il 118 e l’Ospedale dove giunge l’ambulanza, che talvolta non è attrezzato per erogare la prestazione sanitaria necessaria al caso, per cui il paziente necessita di un ulteriore trasferimento. In tale scenario organizzativo, l’arrivo del paziente oltre le dodici ore dall’insorgenza del sintomo è un’eventualità con cui i cardiologi quotidianamente si confrontano. In tale finestra temporale si impone una razionalizzazione dei percorsi diagnostico-terapeutici partendo dall’esame clinico del paziente, dall’analisi dell’elettrocardiogramma, degli esami di laboratorio e dell’ecocardiogramma. Infatti, se il paziente è ancora sintomatico, è opportuno eseguire una coronarografia seguita da eventuale PTCA. Se il paziente è asintomatico, è necessario integrare elettrocardiogramma ed ecocardiogramma per valutare l’estensione del territorio necrotico. Infatti se l’ecocardiogramma ci fornisce un dato di Frazione d’eiezione superiore al 40%, tale paziente andrà trattato con terapia medica nei primi giorni del ricovero per poi eseguire un test provocativo quando gli enzimi si saranno normalizzati. Se viceversa l’ecocardiogramma evidenzia una F.E. inferiore al 40% o il paziente presenta un importante rischio clinico per aritmie minacciose, impegno emodinamico, classe Killip superiore a 2 o complicanze meccaniche, è necessario lo studio angiografico d’urgenza anche se il paziente è ormai asintomatico (3).E’ fondamentale, anche in tale contesto di urgenza, un’anamnesi mirata volta a carpire dal paziente il momento preciso dell’insorgenza del sintomo e la sua eventuale continuità o intermittenza. Tale dato, infatti, spesso si correla ai rilievi anatomo-patologici osservati nell’infarto a tutto spessore. E’ utile, inoltre, chiedere al paziente se nei giorni precedenti vi sono stati episodi anginosi di breve durata che possano avere creato un precondizionamento, determinando un disturbo della cinetica cardiaca eventualmente reversibile dopo la riapertura dell’arteria(4). Infine, è fondamentale in questo contesto avvertire il paziente e soprattutto i suoi parenti che la storia naturale dell’infarto miocardico non riperfuso è di gran lunga peggiore dell’infarto miocardico riperfuso anche per il rischio di rottura di cuore. Infatti, alcune osservazioni retrospettive su oltre mille pazienti hanno dimostrato come l’infarto miocardico riperfuso abbia un rischio di rottura dello 0.5%, mentre l’infarto non riperfuso abbia un rischio del 3,5% e, elemento ulteriormente aggravante, l’infarto miocardico trombolisato, ma non riperfuso abbia un andamento clinico ancora più sfavorevole con rischio di rottura di circa il 7%. Tale rischio si esprime nei primi giorni dopo l’infarto, ma talvolta anche dopo la dimissione ospedaliera, dopo il settimo giorno. Tale complicanza, sebbene rara, è gravata da un’alta percentuale di mortalità; infatti, in questo gruppo di pazienti la sopravvivenza ospedaliera era del 53%(5-6).

Evidenze strumentali

La risonanza magnetica con contrasto oggi ci permette di evidenziare i rilievi anatomo-patologici predittivi di recupero funzionale o di necrosi del ventricolo. Infatti, il prolungamento del tempo ischemico determina oltre alla necrosi transmurale anche l’ostruzione del microcircolo che impedisce il recupero metabolico e funzionale del cardiomiocita con evoluzione verso la cicatrice ed il rimodellamento del ventricolo sinistro. I dati raccolti su 77 pazienti efficacemente sottoposti ad angioplastica e successivamente sottoposti a risonanza magnetica hanno evidenziato, con differenze statisticamente significative, come i pazienti sottoposti a PTCA entro 90±40 min. non abbiano necrosi transmurale, mentre i pazienti sottoposti a PTCA entro 110 ± 107 min. abbiano necrosi transmurale ma non ostruzione del microcircolo, ed infine i soggetti a cui era stata praticata l’angioplastica in 137 ± 97 min. presentavano più frequentemente necrosi transmurale ed ostruzione del microcircolo(7). Un altro studio dello stesso gruppo ha dimostrato inoltre la correlazione tra la persistenza del sopraslivellamento del tratto ST con il danno microvascolare(8).

Uno studio eseguito su 365 pazienti con scintigrafia ha dimostrato come i soggetti  riperfusi tardivamente, tra le 12 ore e le 48 ore, abbiano un minor indice di necrosi a distanza rispetto ai pazienti giunti nello stesso tempo, trattati in maniera conservativa e che in acuto presentavano in media la stessa estensione percentuale di miocardio necrotico(9). I ricercatori del BRAVE 2, in uno studio eseguito su 365 pazienti giunti tardivamente in ospedale, hanno diviso i soggetti in due gruppi delle stesse dimensioni (uno conservativo ed uno sottoposto a PTCA) ed hanno evidenziato, con l’utilizzo della scintigrafia al  Tc 99 sestamibi, come i pazienti sottoposti a terapia riperfusiva a distanza avevano mediamente una percentuale di necrosi del ventricolo sinistro, statisticamente significativa,  inferiore a coloro che non erano stati riperfusi (end point primario dello studio), mentre gli stessi ricercatori non hanno riscontrato differenze di morte, reinfarto o stroke (end points secondari dello studio) tra i due gruppi esaminati(10). Una metanalisi che ha esaminato 648 pazienti giunti in ospedale oltre le 12 ore, studiati con metodica ecocardiografica, prima e dopo la terapia conservativa o interventistica, ha evidenziato come la frazione di eiezione ed i volumi cavitari in diastole ed in sistole siano più favorevoli nel gruppo trattato con angioplastica, mentre non vi sono tra i due gruppi differenze sul outcome clinico(11). In conclusione, l’arrivo tardivo del paziente non esime il cardiologo dall’impegno clinico che, in tale scenario, si traduce in un’analisi dettagliata di tutti i fattori clinici e strumentali che possono orientare in senso conservativo o in senso invasivo, dal momento che lo studio invasivo oltre le 12 ore è al limite delle linee guida. Inoltre, per il paziente che arriva in ritardo, è da tener presente il maggior rischio di rottura di cuore che può in ogni caso avvenire, sia che venga sottoposto o meno a terapia riperfusiva invasiva, anche se in questo gruppo la percentuale di rottura di cuore sembra essere inferiore.

Bibliografia

1)ACC/AHH PCI guidelines for STEMI 2007

2)De Luca G et al. Time delay to traetment and mortality in primary angioplasty for acute myocardial infarction; every minute of delay counts Circulation 2004,109:1223

3)Braunwald et al. The management of patient with STEMI. From Textbook “The  Heart diseases” 2005

4)Colonna P et al. Reduced microvascular and myocardial damage in patients with acute myocardial infarction and preinfarction angina Am Heart J 2002 Nov; 144(5): 796-803

5) Yamaguchi J et al. Risk factors and effect of reperfusion therapy on left ventricular free wall rupture following acute myocardial infarction J Cardiol 2000 Apr; 35(4): 257-65

6)Ikeda N et al. Effect of reperfusion therapy on cardiac rupture after myocardial in Japanese Circ J 2004 May; 68(5): 422-6

7) Tarantini G et al. Duration of ischemia is a major determinant of transmurality and severe microvascular obstruction after primary angioplasty: a study performed with contrast-enhanced magnetic resonance. J Am Coll Cardiol 2005 Oct 4; 46(7): 1229-35

8) Napodano M et al. Myocardial abnormalities underlying persistent ST-segment elevation after anterior myocardial infarction J Cardiovasc Med (Hagerstown), 2009 Jan; 10(1): 44-50

9) Parodi G et al. Ability of mechanical reperfusion to salvage myocardium in patients with acute myocardial infarction presenting beyond 12 hours after onset of symptoms Am Heart J 2006 Dec; 152(6): 1133-9

10) Schomig A et al. Brave-2 Trial Investigators. Mechanical reperfusion in patients with acute myocardial infarction presenting more than 12 hours from symptom onset: a randomized controlled trial JAMA 2005 Jun 15; 293(23): 2865-72

11)Appleton et al. Late percutaneous coronary intervention for the totally occluded infarct-related artery: a meta-analysis of the effects on cardiac function and remodeling. Catheter Cardiovasc Interv. 2008 May 1; 71(6):772-81