Problematiche di fine vita:

la dichiarazione anticipata di trattamento


 

raffaele Calabrò

Cattedra di Cardiologia Università degli Studi di Napoli


 

Il tumultuoso progresso tecnologico in campo medico ha consentito insperate possibilità di avanzamento sul piano clinico e su quello della conoscenza, ma mentre il sapere scientifico continua a progredire, spesso i ricercatori non sanno come utilizzare al meglio questo sapere. Negli ultimi decenni la scienza ha affrontato problemi decisivi della condizione umana, sollevando interrogativi etici e giuridici irrisolti, ai quali il Legislatore da anni tenta di dare risposta.

Soprattutto negli ultimi mesi, in tanti ci siamo domandati se la libertà sia un valore assoluto o non debba piuttosto mirare sempre al bene comune; se l'individuo goda di totale discrezionalità fino al punto di poter decidere della propria vita e del proprio corpo o se piuttosto non debba arretrare dinanzi al diritto altrui e se la libertà non degeneri in arbitrio allorché si riduca a cieco egoismo e non sia più funzionale al miglioramento del bene personale e sociale.

Affermare che la vita non è qualcosa di cui disponiamo è un concetto essenzialmente laico, radicato profondamente nelle coscienze, che appartiene a tutte le culture e a tutte le società. Ma è soprattutto la nostra civiltà millenaria ed il nostro diritto positivo, in primis la nostra Costituzione, a porre un confine che l'individuo non può travalicare. Sappiamo che l’articolo 32 della Costituzione, ampiamente ripreso dal disegno di legge sulle Dichiarazioni Anticipate di Trattamento, riconosce la libertà di scegliere e di rifiutare terapie, ma in nessun modo fa riferimento a forme di sostegno vitale, come l'idratazione e l'alimentazione artificiale. Esso afferma anche che questa libertà terapeutica può essere vincolata da una legge e che qualunque legge si voglia o si debba fare in ossequio all’articolo 32 incontra un limite e la nostra Costituzione dà un nome, ripetutamente, a questo limite. L’articolo 32 chiama questo limite: rispetto della persona umana; e poi c’e` l’articolo 2 che contempla tra i diritti inviolabili, ovvero non negoziabili ed intoccabili, il diritto alla vita. Diritto che non viene meno neppure quando si è dinanzi ad una condizione che potrebbe sembrare apparentemente uno stato di non vita, perché anche allora una persona conserva intatta tutta la sua dignità.

La dignità umana non si misura, infatti, con la capacità delle persone di relazionarsi con gli altri o di intraprendere relazioni economiche, non è esattamente proporzionale all' apporto che un uomo è in grado di dare in termini di produttività alla società. Una persona in stato vegetativo non è un essere biologico, ma una persona con la sua dignità. Ce lo rammenta anche il medico ed artista Enzo Jannacci, anche dichiaratamente laico «che la vita è sempre importante, non soltanto quando è attraente ed emozionante, ma anche se si presenta inerme e indifesa. L' esistenza è uno spazio che ci hanno regalato e che dobbiamo riempire di senso, sempre e comunque".

Oggi anche l’opinione pubblica comincia a comprendere cosa siano le gravi disabilità cerebrali ed in particolare che cosa sia lo stato vegetativo. Sa che si tratta di un quadro clinico in cui il paziente giace apparentemente incosciente anche ad occhi aperti; conserva funzioni respiratorie e cardiocircolatorie, non necessita di tecnologie di supporto. Per mesi si è veicolata l’idea erronea che la scienza avesse già definito in maniera incontrovertibile che cosa debba intendersi per stato vegetativo, lasciando intendere che sia uno stato di non vita in cui solo moderni strumenti tecnologici siano in grado di tenere artificialmente in vita la persona, per poi scoprire che tutto ciò non è vero e che non sono le macchine a tenerle in vita; che anche le persone in Stato vegetativo si alimentano, anche se attraverso un sondino, che anche loro, come noi, hanno un ritmo di sonno –veglia; insomma si è capito che quella è vita e che la scienza raccoglie in questo campo più dubbi che certezze.

Come ignorare la casistica aneddotica che ci racconta di persone risvegliatesi dopo 15-20 anni? E’ vero che si tratta di aneddoti, di episodi, ma dinanzi ai dubbi, non è forse opportuno invocare i principi di precauzione e di prudenza? Lascio che sia nuovamente il medico Jannacci a rispondere: « Si, quegli anni sono tanti, lo so, ma valgono per noi, e non sappiamo nulla di come sono vissuti da una persona in coma vigile. Nessuno può entrare nel loro sonno misterioso e dirci cosa sia davvero, perciò non è giusto misurarlo con il tempo dei nostri orologi. Ecco perché vale sempre la pena di aspettare: quando e se sarà il momento, le cellule del paziente moriranno da sole».

La mia esperienza professionale mi ha insegnato che anche se non ci fosse più alcun ragionevole speranza di ripresa, quella vita non va tolta. Ho visto centinaia di casi di bambini con gravi deficit cerebrali e metabolici ed ogni volta mi sono ritrovato a scoprire il grande amore che riuscivano a trasmette intorno a loro, coinvolgendo non soltanto le loro famiglie, ma tutto l'ambiente che li circondava, anche quello apparentemente freddo e professionale di una corsi ospedaliera; ogni volta mi sono ritrovato a scoprire il profondo significato della loro vita, ossia la capacità di trasformare la vita degli altri, risvegliando negli altri i sentimenti dell'affetto, della solidarietà, della disponibilità e della generosità. Un' esperienza che ho ripercorso leggendo la lettera scritta dal ministro laburista David Cameron dopo la morte del figlio Ivan, gravemente disabile. Scrive Cameron: «Quando ci fu detto per la prima volta quanto fosse grave la disabilità di Ivan, pensai che avremmo sofferto dovendoci prendere cura di lui, ma almeno lui avrebbe tratto beneficio dalle nostre cure. Ora che mi guardo indietro, vedo che è stato tutto il contrario. È stato sempre solo lui a soffrire davvero e siamo stati noi - Sam, io, Nancy ed Elwen - a ricevere più di quanto io abbia mai creduto fosse possibile ricevere dall’amore per un ragazzo così meravigliosamente speciale e bellissimo».

La crisi più grave che sta attraversando la società occidentale non è solo quella di natura economica, ma è anche quella attinente alla perdita dei valori, dalla quale usciremo soltanto se saremo disposti a riscrivere e riformulare i valori sui quali si fonda la nostra società, se impareremo che nell'economia di una società anche l'esistenza di un disabile grave ha forse un valore più profondo della nostra stessa esistenza.

Entrando nel merito del testo di legge sul fine vita licenziato dal Senato, credo che valga la pena di illustrarlo nei suoi punti salienti. Il testo riconosce il principio di autodeterminazione delle cure da parte del paziente anche per il momento in cui dovrebbe eventualmente trovarsi privo della capacità di intendere e di volere, attraverso le Dichiarazioni Anticipate di Trattamento. Ebbene pur ritenendo che le volontà espresse richiederebbero un rinnovo periodico in un tempre breve perché non è facile decidere "ora per allora" e perché i progressi delle biotecnologie sono talvolta più veloci delle nostre previsioni, la durata delle DAT è stata fissata a cinque anni. Ma veniamo al nodo cruciale del testo, al divieto di sospensione di idratazione ed alimentazione artificiale, considerate dalla gran parte delle società scientifiche forme di sostegno vitale e non terapie. Ogni uomo ha il sacrosanto diritto di disporre di non volersi sottoporre ad un intervento chirurgico o a una terapia medica, decidendo in tal modo di accelerare il decorso della sua patologia, ma morirà pur sempre per la storia naturale della sua malattia. Cosa ben diversa è decidere di morire, rifiutando acqua e cibo. Non sempre libertà e diritto coincidono: nessuna norma giuridica ci dirà mai che siamo liberi e padroni di fare tutto quello che vogliamo. Non ci è dato il diritto di decidere di morire di fame e di sete e tanto meno non si può pretendere che sia lo Stato a determinarlo; è una barbarie vietata dal nostro codice penale che tra l'altro punisce il suicidio assistito e la vendita di organi.

Per ciò che attiene al ruolo del medico, non si intende certo sostituire il vecchio rapporto paternalistico con uno di tipo contrattualistico.

Per questa ragione il testo riserva al medico una funzione di consigliere, al quale spetta il compito non facile di cogliere le aspettative, le esigenze e le volontà, confrontandole con le nuove frontiere eventualmente raggiunte dalla medicina. Ecco perché si è voluto sottolineare la necessità di un'alleanza terapeutica tra medico e fiduciario, un'alleanza che può in tal modo, anche se solo idealmente, proseguire quella instaurata con il paziente.

Il buon medico, in obbedienza al giuramento di Ippocrate, sa che esistono purtroppo malattie inguaribili ma non esistono malati incurabili: anche il paziente inguaribile può essere curato, anzi deve essere curato ed accudito, se per cura intendiamo non semplicemente la somministrazione di un farmaco, ma la continua assistenza a chi si trova nella sofferenza. Il compito del medico è curare il malato, non quello di abbandonarlo o peggio di sopprimerlo.