La terapia con statine nelle S.C.A. :
dalla UTIC alla Cardiologia Interventistica
Cesare Baldi
Struttura
Complessa di Cardiologia Interventistica-Emodinamica
Dipartimento Medico-Chirurgico di Cardiologia
A.O.” S.
Giovanni di Dio e Ruggi d’Aragona” - SALERNO
Le statine sono state inizialmente utilizzate in soggetti
asintomatici ed in pazienti con cardiopatia ischemica cronica,
ed in entrambe le categorie con valori molto elevati di
colesterolemia. Questi primi studi dimostrarono che le statine
erano in grado di migliorare la prognosi a distanza in maniera
clinicamente rilevante e che questo miglioramento emergeva solo
dopo alcuni anni. Studi disegnati negli anni successivi
documentarono che le statine miglioravano la prognosi anche in
quei soggetti ad alto rischio di eventi coronarici che
presentavano valori normali o solo modestamente elevati di
colesterolemia, ed ancora una volta il miglioramento della
prognosi emergeva solo dopo alcuni anni.
Mentre queste forti evidenze consolidavano l’impiego estensivo
delle statine nella pratica clinica, da un lato, una serie di
studi sperimentali documentava che le statine, impiegate ad alte
dosi, mostravano una consistente azione antinfiammatoria ed
antitrombotica, e dall’altro, robusti studi clinici confermavano
il ruolo della attivazione della cascata infiammatoria e della
trombosi all’interno del modello fisiopatologico delle sindromi
coronariche acute (SCA). La convergenza di queste linee di
ricerca ha stimolato la costruzione di trial basati sulla
utilizzazione di statine ad alte dosi in pazienti con SCA che
hanno dimostrato di migliorare la prognosi già entro il primo
mese dopo l’evento acuto, in particolare nei casi in cui la loro
somministrazione appare associata ad un riduzione degli indici
sistemici della infiammazione.
Perché è utile usare le
statine in UTIC?
Si è fatta pertanto strada la ipotesi che le statine possano
migliorare la
prognosi a lungo termine
nei pazienti stabili attraverso la riduzione della
ipercolesterolemia che si traduce nell’arresto, o addirittura
nella regressione della crescita della placca aterosclerotica,
ma che potrebbero
migliorare
la
prognosi a breve-medio termine
nei pazienti instabili, attraverso effetti di neutralizzazione
della cascata infiammatoria coinvolta nella instabilizzazione
dei pazienti a rischio.
In altri termini, la rapida comparsa di benefici clinici delle
statine ad alte dosi potrebbe essere spiegata considerando
l’esistenza di effetti farmacologici indipendenti dalla
riduzione delle lipoproteine a bassa densità (LDL), chiamati
effetti pleiotropici;
rimangono molteplici i meccanismi da esplorare come, ad esempio,
la possibilità che la riduzione delle LDL produca azioni
immediate finora non misurate, o che le statine abbiano effetti
antiaterogeni significativi e non connessi agli effetti sulle
LDL, o ancora che una condizione proinfiammatoria renda i
pazienti vulnerabili a modifiche acute della placca
aterosclerotica, o, infine, che una qualche combinazione di
questi effetti sia presente nelle SCA e le renda il bersaglio
ideale di una rapida risposta positiva alle statine.
Il substrato fisiopatologico delle sindromi coronariche acute è
rappresentato dalla placca aterosclerotica instabile: in questo
tipo di placca le caratteristiche di instabilità sono
strettamente connesse alla presenza di una infiltrazione
cellulare capace di produrre sostanze che indeboliscono il
cappuccio fibroso della lesione e che aumentano il rischio di
emorragia intraplacca, ad una maggiore tendenza alla formazione
di trombi, ed a un sostanziale incremento della motricità
vasale. I principali artefici della vulnerabilità biologica di
una placca sono proprio le cellule infiammatorie ed in
particolari macrofagi e linfociti-T che rilasciano citochine,
tumor necrosis factor e interferon gamma in grado di attivare le
cellule muscolari lisce alla produzione di enzimi proteolitici
che degradano la matrice extracellulare del cappuccio fibroso o
alla inibizione della produzione di collagene favorendone la
rottura o la erosione.
Recenti studi sull’aterosclerosi hanno focalizzato il ruolo
centrale della infiammazione e definito il contributo del
colesterolo nella patogenesi dell’aterosclerosi attraverso
meccanismi infiammatori. Le LDL ossidate, derivanti dalla
modificazione delle LDL circolanti in eccesso ad opera dei
radicali liberi generati dalle cellule infiammatorie, svolgono
un ruolo chiave nel processo aterogenetico, fondamentalmente
attraverso la ridotta disponibilità di NO (disfunzione
endoteliale) che, oltre a modificare in senso protrombotico la
bilancia emostatica ed a ridurre significativamente i fenomeni
di vasodilatazione flusso-dipendenti, innesca una potente
attività infiammatoria locale attraverso la promozione del
fattore di trascrizione nucleare kB. Questo fattore si è
rivelato responsabile della espressione di una moltitudine di
geni proinfiammatori che conducono alla ulteriore amplificazione
della risposta infiammatoria attraverso l’aumento della
chemiotassi dei monociti, la inibizione della mobilità dei
macrofagi, la proliferazione di cellule muscolari liscie
controllate da fattori di crescita in aumento, la biosintesi di
citochine destinate a stimolare la risposta infiammatoria in
fase acuta. Tra queste citochine, la interleukina-6 rappresenta
lo stimolo più potente alla produzione in sede epatica di alcune
proteine della fase acuta, in particolare della Proteina C
Reattiva (PCR), che si è rilevata un prezioso marcatore di
attività infiammatoria, di agevole e riproducibile misurazione,
quindi facilmente utilizzabile nella pratica clinica sia nei
pazienti senza cardiopatia ischemica manifesta ad elevato
rischio di eventi cardiovascolari sia nei pazienti con evento
coronarico già manifesto ma destinati a prognosi peggiore.
Il modello moderno della fisiopatologia delle SCA prevede che le
complicanze trombotiche che scatenano l’episodio acuto non
derivano necessariamente da stenosi coronariche critiche ma
dalla cascata infiammatoria che espone le placche vulnerabili al
rischio elevato di rottura e/o di erosione. Mentre una lesione
critica in grado di limitare il flusso coronarico può essere
trattata efficacemente mediante un procedura percutanea o
chirurgica di rivascolarizzazione miocardica, sarà
prevedibilmente minimo l’impatto della procedura su tutta la
gamma dei processi biomolecolari responsabili della ricorrente
instabilità delle placche aterosclerotiche nelle sedi
dell’albero coronarico coinvolte dal processo aterosclerotico ma
senza lesioni critiche. Nei pazienti con SCA appare necessario
garantire una terapia sistemica in grado di neutralizzare il
potenziale residuo della lesione trattata ma soprattutto capace
di rendere inoffensive le molteplici placche vulnerabili che
coesistono all’interno di tutto l’albero coronarico.
Quali informazioni
rilevanti dai trial?
Solo nei primi anni 2000 compaiono le prime evidenze
scientifiche dell’impatto, nei pazienti affetti da SCA, di un
inizio immediato della terapia con statine sugli eventi
coronarici. In uno studio pilota iniziale, il
Lipid-Coronary Artery Disease (L-CAD),
furono randomizzati 126 pazienti, a 6 giorni di distanza da un
infarto miocardico acuto o da una procedura di angioplastica per
angina instabile, al trattamento con pravastatina al fine di
ottenere livelli di LDL colesterolo < 130 mg/dL o al trattamento
convenzionale. L’end point clinico combinato (morte totale,
morte CV, IM non fatale, ictus, ricorso a procedura di
rivascolarizzazione) registrò una riduzione a 2 anni del 72%
(OR: 0.28; IC 95%, 0.13-0.6; p= 0.005). Nonostante il
significativo beneficio clinico, lo studio non presentò una
numerosità adeguata a fornire una evidenza di beneficio su larga
scala. A seguire furono pubblicati altri due piccoli trial, il
FLuvastatin On RIsk Diminishment after Acute myocardial
infarction (FLORIDA)
ed il
Pravastatin
in Acute Coronary Treatment(PACT).
Il primo provvide a randomizzare 540 pazienti affetti da SCA a
ricevere fluvastatina 80 mg/die vs placebo, a distanza di 14
giorni dall’evento, e valutò, mediante monitoraggio
ambulatoriale dell’ecg per 48 ore, la presenza di episodi di
ischemia transitoria in condizioni basali, dopo 6 settimane ed a
12 mesi; il trattamento con fluvastatina non mostrò di incidere
significativamente sulla comparsa degli episodi di ischemia né
su qualunque degli eventi clinici rispetto al placebo. Il
secondo, pianificato per arruolare una popolazione consistente
di 10000 pazienti, venne prematuramente interrotto a causa delle
difficoltà di arruolamento; vennero comunque randomizzati 3408
pazienti assegnati al trattamento con pravastatina contro
placebo per 4 settimane, ma l’end point primario dello studio
(una combinazione di morte , IM ricorrente, riospedalizzazione)
mostrò di essere più basso, senza però mai raggiungere la
significatività statistica, nel gruppo in trattamento con la
statina rispetto al placebo, pur registrando, nel sottogruppo
trattato con dosi maggiori, un comportamento più favorevole
degli eventi.
Negli anni successivi sono comparsi i trial che hanno
documentato il beneficio, in termini di riduzione degli eventi
ischemici a distanza, nei pazienti che dopo una SCA assumevano
un trattamento precoce ed intensivo con statine. Il trial
Myocardial
Ischemia Reduction with Aggressive Cholesterol Lowering (MIRACL)
ha provveduto a randomizzare, entro 24-96 ore dall’ingresso in
ospedale, una popolazione di 3086 pazienti con SCA senza
sopraslivellamento ST ad un trattamento con atorvastatina 80 mg
vs placebo. La rivascolarizzazione programmata o la
rivascolarizzazione in urgenza hanno rappresentato all’ epoca
della randomizzazione criteri di esclusione. L’end point
primario (un risultato della combinazione di morte, IM non
fatale, documentazione di ischemia sintomatica con ricorso alla
riospedalizzazione valutati entro le 16 settimane) è stato
registrato nel 14.8% dei pazienti assegnati al trattamento e nel
17.4% del braccio placebo (HR: 0.84; p = 0.048): Da segnalare
che il componente singolo dell’end point composito responsabile
in maniera prevalente del beneficio connesso alla atorvastatina
è risultato essere la ischemia sintomatica con necessità di
riospedalizzazione , mentre gli altri componenti non hanno
mostrato differenze statisticamente significative.
Perché è necessario un
trattamento precoce ed aggressivo?
I quesiti lasciati aperti da questo trial sono rappresentati da
due questioni cruciali: se una tale strategia di trattamento
intensivo conservasse anche a distanza il profilo di efficacia e
sicurezza dimostrato nel breve termine e se potesse considerarsi
migliore di una strategia di trattamento meno aggressivo. Questi
interrogativi hanno trovato una risposta esaustiva nelle
risultanze del trial
Pravastatin
or Atorvastatin Evaluation and Infection Therapy-Thrombolysis in
Myocardial Infarction 22 (PROVE IT-TIMI 22)
nel quale sono stati randomizzati 4162 pazienti, entro 10 giorni
dal ricovero per SCA, ad un regime di trattamento moderato con
pravastatina alla dose di 40 mg/die o ad un regime di
trattamento aggressivo con atorvastatina alla dose di 80 mg/die.
Il 69% dei pazienti era stato sottoposto a rivascolarizzazione
mediante angioplastica coronarica per il trattamento della SCA
prima della randomizzazione; la popolazione fu seguita per un
totale di 2 anni. Il valore mediano dell’ LDL-C raggiunto
durante il trial risultò di 95 mg/dL nel gruppo assegnato alla
pravastatina e di 62 mg/dL nel gruppo in trattamento con
atorvastatina. Le curve attuariali di stima della frequenza
dell’end point primario (composito di morte, IM non fatale,
angina instabile con necessità di riospedalizzazione,
rivascolarizzazione) mostrarono una riduzione dell’HR pari al
16% a favore dell’atorvastatina (HR: 0.84; IC al 95%: 0.74-0.95;
p = 0.005), con un beneficio emergente già a 30 giorni e che
tendeva poi a consolidarsi nel tempo. Un contesto clinico
lievemente differente, nell’ambito comunque di un trattamento
precoce ed intensivo con statine nei pazienti con SCA, è stato
esplorato nel trial
A to Z
(Aggrastat to Zocor),
in cui un totale di 4497 soggetti con SCA è stato randomizzato a
ricevere simvastatina 40 mg/die per 1 mese seguito da un
dosaggio di 80 mg/die , oppure placebo per 4 mesi seguito da
20 mg/die di simvastaina. Nel gruppo placebo+simvastatina l’end
point clinico primario è risultato del 16.7% rispetto al 14.4%
registrato nel gruppo in trattamento con la sola simvastatina,
senza mostrare differenze statisticamente significative. Da
segnalare che il componente singolo della mortalità
cardiovascolare ha registrato un HR pari a 0.75 con p = 0.05,
laddove invece gli altri componenti singoli in combinazione
nell’end point composito (IM non fatale, riospedalizzazine pe
SCA ed ictus) non hanno fatto osservare differenze
significative. Inoltre, secondo una categoria di valutazione
cronologica, durante i primi 4 mesi non si sono osservate
differenze fra i due gruppi relativamente all’end point
primario, che invece è risultato significativamente ridotto fino
alla fine dello studio nel gruppo in trattamento con
simvastatina a 80 mg (HR: 0.75; p = 0.02).
Come interpretare i risultati “apparentemente” differenti di due
trial entrambi disegnati per mettere a confronto il trattamento
intensivo con statine con quello a dosaggio meno aggressivo? I
seguenti fattori potrebbero spiegare il beneficio precoce nel
PROVE-IT ma non nell’A to Z trial: l’adozione del trattamento
intensivo in fasi cronologiche diverse; il momento e la
intensità dei livelli di LDL-C e di PCR, il diverso profilo di
rischio tra le due popolazioni (peggiore nell’A to Z trial) e la
diversa incidenza e timing delle procedure di
rivascolarizzazione (anteriore alla randomizzazione nel
PROVE-IT).
Che la riduzione dei livelli di PCR mostrasse un impatto
rilevante sugli eventi clinici a lungo termine era rimasto un
quesito non risolto. La relazione tra livelli di LDL-C e di PCR
ottenuti dopo trattamento intensivo vs moderato di statine e il
rischio di morte coronarica o di IM ricorrente è stata oggetto
di una analisi ad hoc successiva. I soggetti che in trentesima
giornata mostravano livelli di PCR < 2 mg/L facevano registrare
dopo trattamento con statine una più bassa percentuale di eventi
rispetto a quelli che avevano livelli di PCR più elevati. I
valori di LDL-C e di PCR mostravano di fornire un contenuto
informativo prognostico ugualmente indipendente, implicando che
una strategia finalizzata a raggiungere la riduzione intensiva
dei livelli sia di LDL-C sia di PCR era associata ad un maggiore
beneficio rispetto alle strategie di riduzione dei soli valori
di LDL-C. Questi dati, uniti ad evidenze analoghe provenienti
dallo studio A to Z, suggeriscono che i livelli di PCR, inteso
come marker di infiammazione sistemica, sia un fattore
predittivo indipendente di rischio cardiovascolare a lungo
termine.
Perché è utile usare le
statine ad alte dosi anche nel paziente candidato a PTCA?
Più recentemente , l’interesse ad esplorare gli effetti
pleiotropici delle statine nella modulazione della produzione di
NO e della stabilità di placca e nella neutralizzazione della
cascata infiammatoria e dello stato protrombotico si è esteso
dal contesto clinico delle UTIC alla popolazione dei pazienti
candidati a procedure di interventistica coronarica. Nel 2004
Briguori e coll hanno analizzato in uno studio randomizzato i
risultati di un trattamento preliminare di tre giorni con
statine in soggetti che non assumevano questi farmaci in cronico
e che erano destinati ad angioplastica coronarica in elezione:
nei soggetti trattati in fase preprocedurale è stata documentata
la riduzione significativa non della incidenza ma della
estensione della liberazione dei marcatori di necrosi che, per
valori superiori ad una soglia > 5 volte il limite superiore
dell’intervallo di normalità, mostra un rilevante significato
prognostico nella predizione del rischio di eventi clinici a
distanza della procedura. Questi risultati sono stati peraltro
confermati da uno studio di disegno simile
l’ARMYDA
(Atorvastatin for Reduction of MYocardial Damage during
Angioplasty),
ma che ha randomizzato, 7 giorni prima della procedura elettiva
per angina stabile, pazienti candidati a PTCA per angina
stabile da sforzo al trattamento con atorvastatina 40 mg/die vs
placebo. I meccanismi di questo effetto cardioprotettivo sono
stati chiariti da evidenze sperimentali nel modello animale: le
statine, attraverso la inibizione della HMG-CoA reduttasi,
provvedono a ridurre il contenuto cellulare dei prodotti del
circuito metabolico dell’acido mevalonico. Tra questi prodotti,
oltre al colesterolo, figura anche il geranilgeranilpirofosfato
che attraverso la geranilgeranilazione della proteina Rho induce
la down-regulation della eNOS. Le statine pertanto promuovono la
up regulation della attività della eNOS, aumentando la
disponibilità di NO, ma provvedono anche a modulare la cascata
enzimatica del fosfatidil inositolo 3-chinasi (PI3K) e della
serina/treonina chinasi (Akt), attività enzimatiche che giocano
un ruolo favorevole nel controllo e nella riduzione del danno da
ischemia-riperfusione. Evidenze sperimentali successive hanno
dimostrato che l’effetto cardioprotettivo esplicato dalla
atorvastatina in fase acuta nella riduzione delle dimensioni
dell’infarto tende a ridursi nel tempo per la induzione di una
attività enzimatica , la fosfatasi PTEN, che annulla gli effetti
della attivazione della PI3K, ma che la risomministrazione a
dosi elevate di atorvastatina appare in grado di spostare lo
squilibrio tra queste due opposte cascate enzimatiche a favore
di quella che riduce il danno da ischemia-riperfusione. La più
approfondita conoscenza di questi intimi meccanismi
biomolecolari ha consentito la costruzione di uno studio clinico
(ARMYDA-RECAPTURE)
che ha randomizzato 457 pazienti, già in trattamento cronico con
statine, che presentavano un quadro di angina stabile o di
SCANSTE e che erano candidati ad eseguire una PTCA: il
confronto tra i pazienti assegnati al trattamento aggressivo di
80 mg di atorvastatina 12 ore prima della procedura, integrati
da altri 40 mg 2 ore prima, ed i pazienti assegnati al placebo
ha fatto registrare una riduzione significativa dell’end point
primario (combinazione di morte, IM non fatale e ricorso alla
rivascolarizzazione) nel braccio di “ricarico” del farmaco
rispetto al placebo (3.7% vs 9.4% con p = 0.037), con un
beneficio però circoscritto ai pazienti con SCANSTE rispetto ai
pazienti con angina stabile (NNT pari a 9 nei primi rispetto a
111 nei secondi).
Questi risultati inducono a modificare le prospettive di impiego
di questi farmaci che si sono dimostrati utili non solo nel
lungo periodo nel paziente ormai stabilizzato, ma anche nel
breve periodo dopo un ricovero per SCA, ed addirittura nella
immediatezza della esecuzione di una procedura interventistica
coronarica per la documentazione inequivocabile di un beneficio
clinico e non solo di un vantaggio circoscritto ad un end point
surrogato.
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