DOPO L’EVENTO DALLA STRATIFICAZIONE DEL RISCHIO ALLA TERAPIA
Carmine Riccio – Marco Malvezzi Caracciolo
U.O. Cardiologia Riabilitativa Dipartimento di Cardiologia
A.O. San Sebastiano Caserta
Il tema della gestione del
cardiopatico dopo l’evento ha subito in questi anni una sorta di
disaffezione da parte della cardiologia, tutta incentrata sulla
gestione della fase acuta e sulla ottimizzazione della rete
assistenziale delle prime ore dopo l’evento. Pertanto si sono
diffusi percorsi assistenziali agili, indirizzati a
deospedalizzare rapidamente i soggetti trattati per cardiopatia
acuta ed a basso rischio, anche sotto la spinta della
motivazione economica dei rimborsi per DRG: l’esempio più
tipico è quello dell’infarto miocardico acuto con programma di
dimissione precoce. Nella fase attuale sono in forte diffusione
modelli di organizzazione orizzontale dei percorsi
assistenziali, come la rete interospedaliera per l’assistenza
all’infarto miocardico acuto, mentre è carente la formulazione
di modelli di assistenza verticali, specifici per i pazienti ad
alto rischio ed in grado di accompagnare il loro percorso in
modo graduale dalla terapia intensiva fino alla ripresa di un
ruolo nella comunità. Ciò penalizza proprio quei gruppi di
pazienti con peggior prognosi, rischiando di non incidere sulla
loro mortalità e morbilità a distanza e sulla frequenza delle
riospedalizzazioni.
La cardiologia non ha però
ancora saputo identificare percorsi specifici per i pazienti
trattati per una patologia acuta ad alto rischio, la cui
permanenza in ospedale sia solo leggermente più lunga senza
presentare però le necessarie specificità e senza essere seguita
da una fase postospedaliera realmente protetta.
In questo modo viene disatteso il ruolo centrale della
Cardiologia nella cura del paziente ad alto rischio: è invece
proprio in questa necessità di riorganizzazione culturale ed
organizzativa dell’assistenza, basata su una clinical competence
specifica nelle UTIC, sulla capacità di una stratificazione
prognostica dinamica e sulla costruzione di strutture che
assicurino la gradualità delle cure, che la Cardiologia italiana
deve e può trovare spazio per affermare il suo ruolo centrale
nel governo clinico dell’assistenza.
Per portare a termine questo
processo di maturazione sarà determinante la capacità delle
società scientifiche cardiologiche di porsi come interlocutori e
come consulenti delle istituzioni per la programmazione e per
il controllo dell’outcome e della performance delle strutture.
In realtà le società scientifiche hanno pubblicato, e
periodicamente rivisto, linee guida per la gestione del paziente
dopo l’evento, ma come spesso accade, non sempre sono
uniformemente applicate.
Esiste, ad esempio il problema
della stratificazione prognostica nel paziente che ha avuto una
SCA, trattata con rivascolarizzazione coronarica mediante
angioplastica. Se da una parte l’esame ecocardiografico mantiene
il suo ruolo centrale nella definizione della funzione residua,
che risulta ancora oggi il più affidabile predittore
prognostico, va ridisegnato il ruolo del test da sforzo o di
altri test provocativi. Risulta chiaro, ormai, che l’ergometria
ha una bassa sensibilità e specificità nell’individuare fenomeni
di restenosi, circa il 60%, in pratica poco più del lancio della
monetina. Sappiamo anche dell’elevato numero di tests
ergometrici positivi solamente per segni, che ci hanno condotto
a fare procedure coronarografiche risultate assolutamente
negative per restenosi e pertanto inutili e potenzialmente
dannose.
Bisogna quindi definire dei
percorsi diagnostici che riportino al centro la clinica. Farsi
guidare dalla sintomatologia del paziente, laddove chiaramente
di tipo anginoso, il paziente va indirizzato a coronarografia
senza ulteriori indagini; nel caso in cui esistessero dei dubbi
sulla natura ischemica dei sintomi riferiti, il paziente va
sottoposto ad un test provocativo. La scelta tra eco-stress e
scintigrafia, essendo sostanzialmente sovrapponibile la loro
accuratezza in questo tipo di pazienti, deve essere effettuata,
a mio avviso, in base alle caratteristiche del singolo paziente
e all’esperienza specifica del centro che lo esegue.
Un altro problema è
rappresentato dalla ottimizzazione della terapia. Non esistono
dubbi sul fatto che una terapia combinata con antiaggreganti,
aspirina e clopidogrel, statine, betabloccanti, ace-inibitori e
omega 3 rappresenti il top oggi disponibile.
Ma che senso ha prescrivere
questa terapia, sicuramente efficace ma ad alto costo, senza
valutarne gli effetti, senza aggiustare la posologia in base
alla risposta del paziente? Quanti pazienti, in assenza di
specifiche indicazioni, sospendono un farmaco raccomandato per
la comparsa di un qualche effetto collaterale o semplicemente
perché non gli era stato specificato per quanto tempo doveva
assumerlo? Quanti drammatici casi di restenosi intrastent si
sono verificati per una inappropriata sospensione della terapia
con il clopidogrel, magari per una banale estrazione dentaria?
Una gestione di questo genere è sicuramente fallimentare,
comportando gravi conseguenze per la salute dei pazienti
associate a enormi sprechi di risorse.
Ma la gestione del dopo evento è
fatta anche di counceling alimentare, di attività fisica, di
assistenza psicologica. C’è da chiedersi se la Cardiologia
Ospedaliera ha il tempo, il personale, le competenze per poter
affrontare un programma così strutturato di prevenzione
secondaria? L’invio di questi pazienti ai centri di Cardiologia
Riabilitativa consente di risolvere al meglio il problema. La
maggior parte dei pazienti, a basso rischio e senza comorbilità
di rilievo, possono essere inseriti in programmi ambulatoriali o
di day hospital, riservando invece i programmi ai pazienti
complessi, con gravi comorbidità, e quindi ad alto rischio. In
realtà questo percorso non viene ancora attuato se non in una
piccola percentuale di pazienti, come confermato dai dati
dell’Isyde 2008 che evidenziano che soltanto il 23% dei pazienti
che afferiscono ai centri di riabilitazione è stato colpito da
una SCA o è stato trattato con angioplastica coronaria.
La cardiologia Riabilitativa può
inoltre proporsi come interlocutore privilegiato con il
territorio, sviluppando sinergie di collaborazione con i medici
di medicina generale e con la specialistica territoriale che
consentano di “seguire” il paziente, ottimizzando e perpetuando
i brillanti risultati che oggi vengono ottenuti nella fase acuta
della cardiopatia ischemica.