PROCESSO ALLO STENT MEDICATO: I FATTI
Gaetano Quaranta
U.O.S. di Emodinamica – U.O.C. Cardiologia-UTIC
ASL Salerno I - Ospedale “Umberto I” – Nocera Inferiore (SA)
L’invenzione dello stent ha
rappresentato una pietra miliare nella evoluzione della
tecnologia a supporto della interventistica vascolare
coronarica.
Il continuo sviluppo tecnologico
della endoprotesi coronarica inizialmente in acciaio, ottenuta
da un singolo filamento oppure intagliata mediante tecnica laser
in tubi d’acciaio a parete estremamente sottile, con le sue
continue evoluzioni riguardanti soprattutto il disegno delle
maglie ed il tentativo di raggiungere spessori più sottili
possibile che permettessero di mantenere il giusto compromesso
tra flessibilità (per consentire di raggiungere segmenti
tortuosi ed adattarsi all’anatomia vascolare) e forza radiale
(per distendere placche fibrocalcifiche ed evitare di collassare
una volta sgonfiato il palloncino) ha migliorato
progressivamente l’efficacia di questo device, permettendo
l’esecuzione di procedure sempre più complesse con un successo
sempre più vicino al 100%.
Avere a disposizione un device
in grado di “fissare” il risultato ottenuto con il solo
palloncino, evitando il rischio della occlusione o riocclusione
completa acuta del vaso (per fenomeno di recoil elastico o,
peggio, per la presenza di dissezione parietale con flap
endovasale occlusivo che non si riusciva ad accollare mediante
gonfiaggi prolungati a bassa pressione) ha donato al cardiologo
interventista la possibilità di lavorare con maggiore
tranquillità, senza la necessità di avere uno stand-by
cardiochirurgico attivo per intervenire in emergenza, spesso con
ischemia transmurale in atto.
L’impianto di una endoprotesi
metallica in un vaso comporta, ovviamente, una serie di reazioni
dovute alla presenza di un corpo estraneo, nonché allo stress
parietale, con conseguente reazione endoteliale, produzione di
citochine con richiamo di cellule infiammatorie, aumentata
aggregazione piastrinica, migrazione e proliferazione di cellule
muscolari lisce con formazione di una neointima, che ricopre le
maglie dello stent e annulla lo stimolo alla adesione ed
aggregazione piastrinica. Questa risposta, purtroppo, può non
limitarsi, e portare, con proliferazione neointimale abnorme, al
fenomeno (iatrogeno!) della restenosi che provoca la progressiva
riocclusione del vaso.
Onde limitare tale fenomeno si è
pensato di applicare allo stent un farmaco il cui rilascio
potesse “modulare” gli eventi, capace di:
- agire sui meccanismi coinvolti
nella restenosi
- essere rilasciato in
sincronismo con la cascata degli eventi che conducono alla
restenosi
- inibire la restenosi
permettendo però la endotelizzazione dello stent onde evitare il
continuo contatto della endoprotesi con il flusso ematico con
rischio di innescare eventi trombotici
- non avere effetti tossici
locali e/o sistemici.
Il problema fondamentale della
fissazione del farmaco sullo stent è stato inizialmente risolto
mediante l’applicazione di un polimero che permettesse una
uniforme distribuzione del farmaco, la sua stabilità e
protezione durante le manovre di impianto e “modulasse” il
rilascio del farmaco (uniforme e controllato nel tempo)
sull’endotelio vasale.
I farmaci che hanno dato
inizialmente i migliori risultati sono stati gli ormai noti a
tutti Sirolimus e Paclitaxel, ed la prima casistica pubblicata
di confronto DES (Drug Eluting Stent: Cypher, a rilascio di
Sirolimus) – BMS (Bare Metal Stent: Bx Velocity, corrispettivo
senza il farmaco) ha entusiasmato molti emodinamisti: nel RAVEL
la restenosi a 6 mesi (sia pure su lesioni “semplici”) era
assente! Il susseguirsi degli studi su Cypher e Taxus (a
rilascio di Paclitaxel) ha mostrato come il fenomeno della
restenosi non potesse dirsi sconfitto, ma di certo ridotto in
maniera significativa, su lesioni anche più complesse, lunghe,
vasi piccoli, e in tutti i sottogruppi di pazienti, compresi i
diabetici. Si poteva anche intervenire sulla restenosi
intrastent (BMS) con un impianto di DES (stent-in-stent) con
grande probabilità di non avere nuova restenosi.
Nello studio ARTS II, il
confronto di un gruppo numericamente sovrapponibile di pazienti
multivasali trattati con DES (CYPHER) con i due gruppi di
pazienti dello studio ARTS I (che aveva mostrato uguale
sopravvivenza tra pazienti trattati con PTCA vs CABG, ma con
maggiore necessità di nuova rivascolarizzazione per i pazienti
sottoposti a PTCA) sembra annullare questo svantaggio, fornendo
un risultato in termini di eventi cardiovascolari maggiori
(MACE) sovrapponibile, se non addirittura tendenzialmente
migliore rispetto al gruppo CABG (sia pure con il bias di
confronto di due gruppi non contemporanei, controbilanciato per
altro dalle caratteristiche cliniche “peggiori” del gruppo
PTCA-DES che annovera, ad esempio, una percentuale
significativamente maggiore di pazienti diabetici).
Questo enorme entusiasmo ha
portato ad un incremento esponenziale delle procedure di PTCA,
spingendo gli emodinamisti ad affrontare patologie più
complesse, coronaropatia multivasale, Tronco Comune non protetto
ecc…anche in pazienti diabetici, con netto sbilanciamento del
rapporto PTCA/CABG in favore dell’interventistica percutanea.
Negli Stati Uniti, nel 2003, anno di approvazione da parte del
FDA del Cypher, sono stati effettuati circa 5000 interventi di
by-pass coronarico in meno (- 30%), contro circa 8000 PCI in più
(+ 28%)!. La impiego percentuale dello stent a rilascio di
farmaco negli USA è aumentato progressivamente fino a sfiorare
il 90% nel 2006.
Anche in Italia si è evidenziato
il più considerevole incremento di procedure di PTCA tra il 2003
ed il 2004 (+19.3%, ) con un importante aumento delle procedure
multivaso (+ 31%, ) in concomitanza della introduzione dello
stent a rilascio di farmaco che ha avuto un trend di incremento
percentuale più “cauto” rispetto agli USA, raggiungendo un picco
del 55% nel 2006 .
Dall’analisi complessiva dei
primi studi in cui erano stati testati Cypher (RAVEL, SIRIUS,
C-SIRIUS, E-SIRIUS, per un totale di 1748 pz) e Taxus (TAXUS II,
IV, V, VI, per un totale di 3445 pz), con un follow-up di circa
3 anni, emergeva chiaramente un beneficio in termini di minor
necessità di nuovo intervento di rivascolarizzazione della
lesione trattata (TLR) rispetto al corrispettivo stent non
medicato (rispettivamente 76.8 vs 93.6 per CYPHER, P<0.0001;
80.1 vs 90.6 per TAXUS, P<0.0001), senza esprimere alcuna
differenza per reinfarto o morte cardiovascolare. D’altra parte
emergeva un trend, sia pure non significativo, per un maggior
numero di eventi trombotici (con due fasi, una precoce, legata
evidentemente alla trombosi acuta e subacuta, ed una tardiva,
progressiva) per entrambi i DES nei confronti dei BMS (1.1% vs
0.6% per CYPHER, 1.3% vs 0.8% per TAXUS). Gli eventi trombotici
tardivi risultavano per lo più correlati alla sospensione della
doppia terapia antiaggregante piastrinica.
Nel 2006 una metanalisi di
Camezind riscontrava un incremento di mortalità nei pazienti
trattati con DES, rispetto al BMS, in un follow-up a 3 anni,
aprendo un acceso dibattito tra sostenitori e detrattori del DES
e focalizzando l’attenzione sul problema della trombosi tardiva
dello stent a rilascio di farmaco.
Tali riscontri hanno
raccomandato maggiore prudenza nell’impiego dei DES: negli USA
si è registrato un progressivo sensibile ridimensionamento della
percentuale di DES (-30%) sul totale degli stent impiantati. Nel
2006 sono state pubblicate le prime “Guidelines to Drug Eluting
Stent Use” nelle quali gli stent ricoperti di polimero a
rilascio di Sirolimus (CYPHER) e di Paclitaxel (TAXUS) venivano
indicati nei seguenti sottogruppi:
Guidelines to Drug Eluting Stent Use (summary) |
Classe I livello di
evidenza A |
·
Lesioni
singole “de novo” |
Classe I livello di
evidenza B |
·
Lesioni
singole “de novo” (sottogruppi 2.25 mm e 4 mm)
·
Restenosi
Intra-Stent (BMS) |
Classe IIa livello di
evidenza B |
·
Biforcazioni (provisional T-stenting con DES sulla
branca principale)
·
Malattia
multivasale (con lesioni non complesse)
·
Graft
venosi
·
Occlusione
Cronica Totale |
Classe IIb livello di
evidenza B |
·
Biforcazione (T stenting, Crush, V stenting)
·
Tronco
Comune non protetto
·
Malattia
multivasale (complessa, specie in pazienti diabetici)
·
Infarto
Miocardico Acuto
·
Restenosi
Intra-Stent dopo fallimento di Brachiterapia (se non
possibile chirurgia) |
Classe IIb livello di
evidenza C |
·
Restenosi
Intra-Stent (DES) |
E’ evidente, da questo grafico,
come l’unica indicazione forte, di classe I A, sia la lesione
relativamente poco complessa, che richieda un singolo stent, non
coinvolga una biforcazione con vaso di grosso calibro, ecc.
D’altro canto, considerando la pratica clinica, è facile
immaginare come i DES vengano impiegati soprattutto nei pazienti
a più alto rischio, per “sfruttare” al meglio le loro
potenzialità, andando spesso, quindi, al di là delle “linee
guida”. E’ evidente che tale tipo di approccio richiede il
conforto di studi randomizzati adeguatamente disegnati per
valutare i sottogruppi di pazienti a maggior rischio: diversi
sono in corso, ne attendiamo i dati.
Da segnalare una metanalisi
assai estesa della Columbia University (A. J. Kirtane, G. W.
Stone, 2008) che ha esaminato tutti gli studi di confronto DES
(Sirolimus-Paclitaxel) vs. BMS con numerosità >100 pazienti e
follow-up >1 anno, selezionando 22 trials randomizzati (totale
circa 9400 pz) e 30 registri (totale circa 174300 pz),
valutando: Mortalità, Infarto, nuova Rivascolarizzazione. Mentre
nei trias randomizzati i DES mostravano un trend, non
significativo, in riduzione della mortalità (-3%) e del
reinfarto (-6%) ed una riduzione assai significativa della
necessità di nuova rivascolarizzazione (-55%), valutando i
registri, espressione più verosimile del “mondo reale”, i DES
spuntano una riduzione statisticamente significativa di tutti e
tre gli end-point: mortalità (-20%), reinfarto miocardico
(-11%), nuova rivascolarizzazione (-47%).
Il fenomeno della trombosi
tardiva, sebbene non appaia statisticamente significativo nel
confronto DES-BMS, è comunque un dato di fatto, che ha
richiamato l’attenzione su diversi fronti:
a)
ricerca dell’accuratezza nella tecnica di impianto:
adeguata preparazione della lesione, valutazione del tipo e del
calibro dell’endoprotesi, impianto ed ottimizzazione della
espansione con post-dilatazione (onde ridurre al minimo i casi
di malapposizione alla parte vasale, che incrementano il rischio
di trombosi): a tale scopo può essere sicuramente d’ausilio
l’esplorazione con ecografia intravasale pre e post-impianto;
b)
maggiore protezione mediante doppia terapia antiaggregante
piastrinica protratta: le più recenti linee guida
statunitensi raccomandano almeno 12 mesi; la Società Italiana di
Cardiologia Invasiva (GISE) in una recentissima Consensus
Conference conferma l’indicazione a doppia antiaggregazione per
almeno 12 mesi, con alcune particolari raccomandazioni:
–
doppia antiaggregazione permanente per pazienti in cui la
trombosi potrebbe essere più facilmente fatale (tronco comune,
ultimo vaso residuo),
–
evitare il DES nelle lesioni ad alto rischio in pazienti
con prevedibile scarsa compliance alla terapia,
–
passaggio alla ticlopidina dopo 6 mesi nei pazienti con
mancata adesione al Clopidogrel (ad esempio per motivi
economici)
–
preferire un BMS in pazienti in terapia anticoagulante
orale
–
attenzione alla tecnica d’impianto onde evitare
malapposizione dell’endoprotesi, vengono incoraggiati l’uso
dell’ecografia intravascolare, valutazione delle calcificazioni,
attenta preparazione della lesione con post-dilatazione finale,
specialmente in caso di lesioni più complesse.
c) nuovi stent con diverse
combinazioni di supporto, vettore, farmaco.
A quest’ultimo proposito abbiamo
ormai una seconda generazione di stent a rilascio di farmaco e
la evoluzione tecnologica si sta focalizzando su tutti i diversi
fattori:
materiale e disegno dello
stent, con minore
spessore e disegno delle maglie tesi a cercare il miglior
compromesso tra flessibilità (garanzia di più facile
attraversamento della lesione in anatomie complesse, maggiore
adattabilità alle tortuosità), forza radiale (per garantire la
adeguata espansione in lesioni fibrocalcifiche ed il
mantenimento del calibro raggiunto con l’espansione del
palloncino) e ampiezza della maglia (per l’impiego su lesioni
in biforcazione limitando l’occlusione e facilitando l’accesso
alle branche laterali);
farmaco,
che sia efficace nell’impedire la restenosi ma non eserciti
effetti eccessivi con tossicità locale e fenomeni di mancata
epitelizzazione a distanza, con rischio quindi di trombosi
tardiva;
vettore del farmaco,
forse l’elemento più importante per i fenomeni di trombosi
tardiva. Nei DES di I generazione sono polimeri “biostabili”,
danno “spessore”, quindi modificano la “performance” dello stent;
sono soggetti a rottura da trauma meccanico (avanzamento,
dilatazione, “kissing balloon”…); possono ritardare l’endotelizzazione
lasciando aree scoperte di stent; spesso non sono del tutto
bio-inerti (ipersensibilità?!).
Gli stent di seconda generazione
veicolano il farmaco mediante polimeri maggiormente
biocompatibili o riassorbibili (fluoropolimeri, fosforilcolina,
polilattati); oppure hanno il farmaco allocato in “reservoir” da
cui viene ceduto in maniera pressoché totale in un determinato
periodo.
I risultati dei primi trials
sono incoraggianti per alcuni di questi DES di seconda
generazione, soprattutto in termini di sicurezza: lo scopo è
ottenere, rispetto ai DES di I generazione un device di
efficacia pari se non superiore, ma con maggiore facilità
d’impianto e maggior sicurezza a distanza.
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Aggiornamento del documento pubblicato su IHJ 2007.