lA VALUTAZIONE DEL rischio  nel paziente da sottoporre a chirurgia non cardiaca

 

GianPiero Perna

U.O. di Cardiologia - AOUOR Pres. Cardiologico G.M. Lancisi

 

La valutazione del rischio clinico nel paziente candidato a chirurgia non cardiaca è una necessità ben sottolineata dalle seguenti considerazioni  :

  1. Ad ogni  intervento  chirurgico si associano variazioni della emodinamica, variazioni emocoagulative, variazioni dell’ apporto di ossigeno miocardico , variazioni della richiesta di ossigeno miocardico, variazioni dell’ assetto neuro-umorale , tutte condizioni in grado di determinare aritmie, infarto miocardico e morte in pazienti con cardiopatia nota o sospetta .
  2. Gli interventi di chirurgia extracardiaca , a differenza delle procedure cardiochirurgiche, non son volti alla correzione della cardiopatia .
  3. La valutazione pre-operatoria e  post-operatoria  in chirurgia non cardiaca è tuttora una pratica poco “gradita” ai vari attori (chirurghi, anestesisti, cardiologi) cui in diverso modo compete, e soprattutto priva di standardizzazione, anche nella definizione delle “competenze”.
  4.  La richiesta di una valutazione preoperatoria e di un trattamento “standardizzati” per  pazienti cardiopatici da sottoporre a chirurgia non cardiaca riflette l’incremento delle procedure chirurgiche in pazienti di età sempre più avanzata, l’uso di nuove e molteplici tecnologie non invasive impiegate nella valutazione e soprattutto un’abbondante letteratura di scarsa qualità con end-points clinici di differente spessore.

Le recenti linee-guida elaborate dalla AHA-ACC sono sicuraente un punto di riferimento essenziale nella definizione di standard di trattamento e valutazione, e ad esse si rimanda per una trattazione sistematica. Qui di seguito affronteremo solo alcun dei problemi “critici” che si affronano nella esperienza clinica quotidiana.

 

Cardiopatia ischemica

Nel paziente con cardiopatia ischemica, l'esistenza di una stenosi coronarica fa sì che il miocardio si trovi talora in situazioni in cui l ' apporto di ossigeno è inferiore ai bisogni metabolici (consumo di ossigeno). Pertanto, il paziente coronaropatico tollera male le condizioni perio-operatorie in cui si realizza uno sbilanciamento di tale rapporto :  stati di desaturazione arteriosa, di anemia, di ipotensione grave e  stati iperdinamici .

Nel contesto della patologia coronarica vanno identificate differenti situazioni cliniche che si associano ad un profilo di rischio operatorio crescente a parità di intervento da eseguire : l'angina stabile, l'infarto pregresso (occorso oltre otto settimane dall'intervento),l'angina instabile, infarto recente (verificatosi entro cinque - otto settimane dall'intervento) e l'infarto acuto (occorso nei 30 giorni precedenti l'intervento).

In pazienti diabetici con disfunzione del sistema nervoso autonomo , l'ischemia miocardica può verificarsi senza comparsa di angina; si configura così il quadro clinico dell'ischemia silente, il cui riconoscimento identifica una sottopopolazione di pazienti a rischio elevato di infarto e morte cardiaca improvvisa .

L'angina stabile è espressione di una stenosi coronarica fissa , mentre nell'angina instabile le lesioni coronariche e la spiccata vasoreattività mediano un quadro clinico più grave caratterizzato da un rapido progredire dei sintomi verso uno stato di male anginoso : la possibilità di eventi perioperatori è pertanto più elevata nei pazienti con angina instabile, ed è stimata  pari al 28% .

Anche il tempo intercorso tra l'episodio infartuale e l'intervento di chirurgia non cardiaca è correlato al  rischio di eventi nel  perioperatorio : in studi pre-ricanalizzazione (PTCA, trombo lisi)  il rischio di reinfarto è stato stimato del 27%, dell'11% e del 4% rispettivamente nei pazienti sottoposti ad intervento entro 3 mesi, nei 3-6 mesi e oltre 6 mesi da un pregresso infarto miocardico  Un parere autorevole sull'argomento è stato recentemente espresso dall'American College of Cardiology/American Heart Association Task Force che ha invitato a considerare a rischio aggiuntivo di reinfarto i pazienti sottoposti ad intervento di chirurgia non cardiaca nelle otto settimane successive ad un episodio infartuale.

 

Valutazione preoperatoria      

La valutazione preoperatoria del cardiopatico da sottoporre ad intervento di chirurgia non cardiaca ha come principali obiettivi:

1.                  la definizione della natura, della gravità e delle ripercussioni della cardiopatia su vari apparati e funzioni dell’organismo;

2.                  la stratificazione del rischio operatorio, in base alla gravità della cardiopatia e alla natura dell'intervento chirurgico;

3.                  la pianificazione di una strategia operativa in funzione del rischio.

L'anamnesi del paziente, l'analisi dei documenti clinici ed un accurato esame obiettivo sono i momenti fondamentali della valutazione preoperatoria. Nella maggior parte dei pazienti, semplici domande consentono di definire la riserva funzionale cardiovascolare: in particolare, la capacità di salire almeno un piano di scale senza disturbi caratterizza una riserva funzionale moderata ( 4 MET; MET = livello di equivalente metabolico). L'elettrocardiogramma (ECG) a riposo, il radiogramma del torace, un bilancio ematochimico completo (esame emocromocitometrico completo di conta piastrinica, attività protrombinica e tempo di tromboplastina parziale, creatininemia, glicemia, sodiemia, potassiemia, cloruremia, calcemia) sono obbligatori nel paziente affetto da cardiopatia.

I pazienti possono essere raggruppati in tre categorie in base alla presenza di fattori di rischio cardiovascolare definiti rispettivamente maggiori, intermedi e minori.

Sono:

 

Fattori di rischio maggiori:

- sindromi coronariche instabili: infarto miocardico acuto (< 30 giorni) con evidenza clinica o strumentale di ischemia residua, angina instabile o invalidante;

- insufficienza cardiaca scompensata;

- valvulopatia grave;

- aritmie gravi: blocco atrio-ventricolare di grado avanzato (blocco di II grado, Mobitz 2 > 2:1; blocco di III grado), aritmie ventricolari sintomatiche, aritmie sopraventricolari con risposta ventricolare non controllata.

 

Fattori di rischio intermedi:

- angina stabile o controllata;

- infarto miocardico pregresso;

- insufficienza cardiaca compensata o pregresso scompenso cardiaco

- diabete mellito.

 

Fattori di rischio minori:

- età avanzata;

- ECG anormale (blocco di branca sinistra, ipertrofia ventricolare sinistra, anomalie della ripolarizzazione, ritmo non sinusale);

- ridotta capacità funzionale;

- pregresso infarto cerebrale;

- ipertensione arteriosa non controllata dalla terapia medica o non trattata.

 

Analogamente, gli interventi chirurgici possono essere distinti in tre gruppi in base al rischio cardiovascolare ad essi correlato.

Sono interventi chirurgici:

 

Ad alto rischio (classe A):

- interventi maggiori in urgenza, specie nell'anziano;

- interventi di chirurgia aortica e vascolare arteriosa periferica;

- procedure chirurgiche prolungate e/o associate a importanti variazioni volemiche.

 

A rischio intermedio (classe B):

- interventi di tromboendoarterectomia carotidea;

- interventi di chirurgia toracica e addominale;

- interventi chirurgici della testa e del collo;

- procedure ortopediche;

- interventi chirurgici della prostata.

 

A rischio basso (classe C):

- procedure endoscopiche;

- procedure chirurgiche di superficie;

- intervento di cataratta;

- chirurgia della mammella

 

Identificati in ciascun paziente i fattori di rischio cardiovascolare e il rischio di complicanze cardiovascolari in relazione alla procedura chirurgica, le indicazioni fornite dall'AHA/ACC si possono schematicamente riassumere come segue:

1.                  I pazienti con fattori di rischio maggiori necessitano di una valutazione cardiologica immediata che condurrà, nella maggior parte dei casi, ad una rivascolarizzazione miocardica o ad una chirurgia valvolare o ad una modificazione della terapia medica in atto, a prescindere dalla natura dell'intervento chirurgico proposto, e purchè questo non rivesta carattere di emergenza,.

2.                  I pazienti con fattori di rischio intermedi possono essere sottoposti ad intervento chirurgico di elezione senza indagini supplementari se la loro riserva funzionale è almeno moderata e l'intervento proposto è a rischio basso o intermedio. Qualora l'intervento sia a rischio elevato, e comunque quando la capacità funzionale è scarsa, è necessaria una valutazione cardiologica .

3.                  I pazienti con fattori di rischio minori possono essere sottoposti ad intervento chirurgico di elezione senza indagini supplementari, qualsiasi sia la natura dell'intervento programmato, se la loro riserva funzionale è almeno moderata e, in caso di scarsa capacità funzionale, se la chirurgia è a rischio basso o intermedio. In caso di chirurgia ad alto rischio e di scarsa capacità funzionale, è necessaria una valutazione cardiologica  più accurata. Inoltre, in ogni paziente, una particolare cura va posta nell'individuazione e nell'ottimizzazione di quelle patologie non cardiache che aggravano il rischio cardiaco e operatorio, vale a dire l'anemia, la malattia polmonare cronica, l'epatopatia avanzata e l'insufficienza renale.  
Nei pazienti a profilo di rischio di entità intermedia è necessaria l'esecuzione di indagini ulteriori al fine di ristratificare il rischio di complicanze cardiache perioperatorie.
Le indagini cardiologiche che consentono un'ulteriore stratificazione del rischio includono quelle che valutano la funzione ventricolare sinistra, l’ischemia cardiaca e relativa riserva coronarica od entrambi. Tuttavia alcuni elementi devono essere considerati :

A)            La valutazione della frazione d’eiezione a riposo non aggiunge alla valutazione clinica dati che contribuiscono alla ulteriore stratificazione del rischio;

B)            Le indagini ergometriche non possono essere effettuate da molti pazienti (dal 30% al 70%) in lista per interventi di chirurgia vascolare e dai soggetti con alterata capacità di deambulare. In ogni caso, il potere predittivo dei test ergometrici è risultato basso ;

C)            La scintigrafia al tallio e/o l’eco-dobutamina, soprattutto nel caso di test negativo, consentono la ristratificazione del rischio nei pazienti inizialmente classificati a rischio intermedio e candidati ad intervento di chirurgia vascolare (evidenza forte), in cui la loro esecuzione è quindi consigliabile . Al contrario, non è evidente il vantaggio di sottoporre a scintigrafia o a eco-dobutamina pazienti a basso rischio candidati a chirurgia vascolare  e i pazienti a rischio basso ed intermedio candidati a chirurgia non vascolare-

D)           Il monitoraggio Holter preoperatorio non ha potere predittivo sul rischio nei pazienti candidati a procedure di chirurgia non vascolare e  in lista per procedure di chirurgia vascolare;

E)            La coronarografia è un'indagine invasiva e rischiosa. L'esame coronarografico non può essere pertanto consigliato al solo fine della stratificazione del rischio perioperatorio. L'unica eccezione è rappresentata da quei pazienti in cui è necessario completare la diagnostica di una sospetta coronaropatia indipendentemente dall’intervento di chirurgia non cardiaca . La Coronaro-TC trova probabilmente in questo campo uno dei suoi potenziali campi di applicazione a futura rapida e decisiva espansione.  

Una volta identificata la classe di rischio a cui un paziente appartiene è poi necessario identificare le strategie operative per minimizzare il rischio in ogni singolo paziente. Si possono riconoscere alcune situazioni paradigmatiche.

1.                  Il rischio è legato a fattori non modificabili quali l’età. Va considerata la possibilità di cambiare l'approccio chirurgico eseguendo, anziché un intervento radicale, un gesto palliativo o meno invasivo; in alcuni casi può essere opportuno escludere alcuna opzione chirurgica.

2.                  Il rischio è legato a patologia cardiaca non ischemica suscettibile di miglioramento (scompenso, aritmia, valvulopatia). In questo caso va in primo luogo ottimizzato il trattamento medico della cardiopatia; successivamente il rischio dovrà essere rivalutato.

3.                  Il rischio è legato ad una cardiopatia ischemica suscettibile di correzione chirurgica. La decisione sull'opportunità di procedere ad una rivascolarizzazione miocardica prima dell’intervento di chirurgia non cardiaca dipende da quanto la correzione della coronaropatia modifica la prognosi a breve e lungo termine. L'angioplastica, efficace nel risolvere l'angina ma meno costosa e meno rischiosa rispetto al bypass coronarico, potrebbe rappresentare un'opzione valida per ridurre il rischio di complicanze cardiache tanto più se si considera il fatto che dopo angioplastica è possibile procedere all'intervento di chirurgia non cardiaca in tempi brevi.

Per quanto riguarda i benefici a lungo termine del bypass coronarico prima dell’intervento di chirurgia non cardiaca, esiste una forte evidenza a favore della rivascolarizzazione per i pazienti con angina instabile refrattaria alla terapia medica massimale, con stenosi del tronco comune, con malattia trivasale e depressa funzione miocardica, con malattia bivasale ma stenosi critica prossimale della discendente anteriore e disfunzione ventricolare sinistra .Questi stessi pazienti rientrano in quella categoria di cardiopatici in cui, secondo le linee guida dell’ACC/AHA, sarebbe indicato procedere a bypass coronarico indipendentemente dal problema contingente dell’intervento di chirurgia non cardiaca. Tuttavia, mancando uniformità di consenso ed evidenza sul timing ottimale dell’intervento di bypass rispetto a quello non cardiaco è consigliabile decidere non sulla base di protocolli standardizzati ma, in ogni singolo caso, in base alla gravità della coronaropatia, all'urgenza dell’intervento non cardiaco e - non ultimo- al parere del paziente debitamente informato.
 
Aspetti specifici sulla terapia con farmaci antiaggraganti

La maggioranza dei pazienti coronaropatici è in terapia antiaggregante, generalmente con acido acetilsalicilico a basse dosi o ticlopidina, più raramente con dipiridamolo, indobufene o picotamide monoidrato. Negli  ultimi anni, inoltre, molti pazienti possono trovarsi in doppia antiaggregazione  perché sottoposti a procedure di PTCA , doppia antiaggregazione talora protratta per 12-18 mesi se la endoprotesi impiantata è un DES.

I problemi principali della gestione attuale di questi pazienti è costituito dalla assenza di linee-guida specifiche e dalla assenza di trial clinici randomizzati . Tuttavia polizie locali devono essere presenti, anche per la gestione del rischio clinico , basandosi su una serie di dati comunque disponibili. Va soprattutto evitata la abitudine di “mutuare” i comportamenti clinici dalla gestione abituale dei pazienti in terapia anticoagulante orale. La conoscenza del tipo di intervento (possibilità di sanguinamento, possibilità di suo controllo) costituiscono l’ elemento primario. La conoscenza della farmacologia dei singoli farmaci rappresenta l’ altro elemento di rilievo clinico.

L’'acido acetilsalicilico , ad esempio, può essere  continuato nel perioperatorio in quanto il suo impiego è associato ad una minore incidenza di ischemia miocardica in assenza di un sostanziale aumento del sanguinamento chirurgico .

La ticlopidina è l’antiaggregante di scelta nei pazienti intolleranti e/o allergici all'aspirina. L'effetto antiaggregante persiste per oltre 8 giorni dopo l'interruzione del farmaco. A tutt'oggi, la gestione della terapia con ticlopidina nel periodo perioperatorio non è codificata. Per una chirurgia elettiva, sembrerebbe prudente sospendere la terapia con ticlopidina.]. Per procedure d'urgenza, rimane dubbia l'efficacia della terapia steroidea e di desmopressina; nel caso di rischio emorragico rilevante, probabilmente è preferibile la trasfusione di concentrati piastrinici .

In considerazione del numero limitato di pubblicazioni pertinenti, non è possibile identificare linee guida in merito alla gestione perioperatoria della terapia antiaggregante con dipiridamolo, indobufene e picotamide.

 

Anestesia generale vs anestesia loco-regionale.

L'anestesia generale e loco-regionale, se correttamente applicate, non presentano differenze importanti in merito al rispetto della funzione cardiaca. La scelta di una particolare tecnica quindi deve essere effettuata in base al tipo di procedura chirurgica, alle caratteristiche fisiche e psicologiche del paziente, alla familiarità dell’anestesista con la tecnica prescelta, all'ambiente in cui avrà luogo il decorso postoperatorio (con speciale riferimento alla possibilità di trasferire il paziente in un ambiente intensivo).

Allo stato attuale delle conoscenze, anche per quanto attiene all’incidenza di complicazioni cardiovascolari perioperatorie, non pare esista differenza tra tecniche di anestesia generale e loco-regionale [48]. Vale la pena di ricordare a questo proposito il lavoro di Shah , che stima pari al 3% l'incidenza di infarto miocardico dopo interventi in anestesia loco-regionale ed identifica i pazienti diabetici ed i coronaropatici con ischemia silente come sottogruppi di pazienti a rischio di complicanze particolarmente elevato.