Scompenso cardiaco:
la difficile ricerca dell’appropriato percorso terapeutico
Domenico Miceli *, Alfonso Roberto Martiniello **, Antonio
D’Onofrio**, Mariangela Macrino*,Ciro Cavallaro**,Salvatore
Garofalo**,Pio Caso***
* UOSD Cardiologia Riabilitativa post-acuzie, Dipartimento
Fisiopatologia e Riabilitazione Cardio-Pneumologica
** UOS Elettrofisiologia e terapia delle aritmie e *** UOC
Cardiologia, Dipartimento Cardiologia AO Monaldi Napoli
Lo Scompenso Cardiaco (SC) è
l’evoluzione clinica di molte cardiopatie: cardiopatia
ischemica, cardiopatia ipertensiva, cardiopatia valvolare,
miocardite e cardiomiopatia dilatativa primitiva. Esso è
responsabile del 5-10% di tutte le ospedalizzazioni, costituendo
la causa più frequente di ricovero per i pazienti oltre 65
anni. Inoltre, la mortalità annua nei soggetti con maggiore
compromissione funzionale (classe NYHA III-IV, ovvero il 30% dei
pazienti), è elevata: 24,8% per i pazienti in classe III e 36,7%
per i pazienti in classe IV. L’incidenza dello SC aumenta negli
anni, parallelamente all’aumento della vita media ed al
miglioramento del trattamento delle varie forme di cardiopatie,
e, nonostante l’ottimizzazione della terapia, molti pazienti
rimangono fortemente sintomatici, con prognosi infausta, gravata
da alta mortalità per scompenso refrattario o per morte
improvvisa.
Lo SC rappresenta, pertanto, un
importante capitolo della spesa sanitaria, da cui nasce
l’esigenza di adottare delle strategie terapeutiche adeguate.

In tema di terapia medica, nella
lunga stagione dei grandi trial clinici è andata consolidandosi
un’evidenza che trova oggi sintesi in un modello di strategia
farmacologica centrato sull’impiego di agenti in grado di
contrastare la complessa disregolazione neurormonale che
caratterizza la sindrome. Gli antagonisti del sistema
renina-angiotensina-aldosterone (SRAA) – inibitori dell’enzima
di conversione dell’angiotensina (ACE-i), antagonisti
recettoriali dell’aldosterone (ARA) bloccanti recettoriali dell’angiotensina
II (ARB) – e quelli del sistema simpatico-adrenergico (SSA) –
betabloccanti (BB) – sono a tutt’oggi gli unici farmaci per i
quali esista una documentazione di efficacia, oltre che su
sintomi, capacità funzionale, funzione ventricolare e
ospedalizzazioni, anche sui maggiori endpoint di mortalità.
Pertanto, essi vanno considerati i capisaldi dell’attuale
trattamento farmacologico convenzionale dello SC. Inoltre,
nonostante non sia mai stato chiaramente evidenziato un
beneficio prognostico, continuano tuttavia ad essere
raccomandati e ampiamente impiegati anche farmaci “storici”
quali i diuretici e la digitale, i primi in virtù della loro
unicità nel contrastare rapidamente ed efficacemente un
meccanismo fisiopatologico chiave (ritenzione di acqua e sodio)
per
l ’espressività clinica della
sindrome (congestione polmonare e periferica), la seconda grazie
alla sua capacità di migliorare significativamente la qualità di
vita dei pazienti (riduzione dei sintomi e del rischio di
ospedalizzazione).
Eppure, nonostante i favorevoli
trend osservati anche nelle coorti di pazienti di più recente
arruolamento, va riconosciuto che l’entità dei benefici clinici
evidenziati nei trial randomizzati e controllati ha trovato
riscontro solo parziale a livello di comunità, ove i tassi di
mortalità e ospedalizzazione restano ancora inaccettabilmente
elevati, sicuramente perchè l’applicazione di quanto suggerito
dalle linee guida cliniche non trova il riscontro che dovrebbe
essere atteso, come del resto è dimostrato anche dagli stessi
studi osservazionali ANMCO degli ultimi anni (OSCUR, BRINGUP 1 e
2, TEMISTOCLE).
È su questo terreno che si è
innestata la maggior parte delle attuali controversie sul
trattamento farmacologico dello SC, alcune delle quali di
carattere generale – coinvolgenti tutte le classi di farmaci
sino ad oggi testate nello SC – rappresentando la ragione
fondamentale della scarsa generalizzabilità delle linee guida a
sottogruppi di pazienti ignorati dai grandi trial clinici.
Infatti, metanalisi e subanalisi si sono moltiplicate per
trovare conferma dell’efficacia e della tollerabilità dei vari
trattamenti indipendentemente dalle caratteristiche demografiche
e cliniche di base dei pazienti arruolati, ma, di fatto e con
pochissime eccezioni, l’evidenza scientifica attualmente
disponibile su questi argomenti, le cui implicazioni pratiche
hanno un peso enorme dal momento che riguardano la maggioranza
dei pazienti incontrati nella comunità, continua ad essere
indiretta e parziale e dunque del tutto insufficiente per poter
trarre definitive conclusioni.
Ma, oltre alla controversia più
generale sulla reale e concreta applicabilità dei trial clinici
nei pazienti che si incontrano nella pratica, di cui già si è
detto, le controversie che meglio compendiano l’insieme delle
contraddizioni che animano il dibattito sul trattamento
farmacologico dello SC, sono fondamentalmente:
-
la tripla terapia
(ACE-i, BB e ARA o ARB), ovvero l’associazione di ACE-inibitori,
betabloccanti e antagonisti dell’aldosterone o antagonisti
recettoriali dell’angiotensina
-
la quadrupla
terapia, ovvero l’aggiunta alla tripla degli antialdosteronici
-
la
polifarmacologia del trattamento medico del paziente con SC
-
le indicazioni
all’utilizzo di device (ICD, RCT, da soli o in
combinazione)
Per la tripla terapia in
versione ACE-I + BB + ARB, dallo studio Val-HeFT, che aveva
arruolato pazienti in trattamento con ACE-I (93%), BB (35%) e
ARA (5%), è emerso un trend sfavorevole sulla sopravvivenza nel
sottogruppo di pazienti che assumevano, contemporaneamente al
valsartan, anche l’ACE-I e il BB. Anche lo studio ELITE II aveva
fatto sorgere alcune perplessità concernenti un possibile
effetto negativo del losartan quando somministrato a pazienti in
trattamento con BB. Questi dati sono stati successivamente
mitigati dai risultati, oltre che del VALIANT e dell’OPTIMAAL,
anche da quelli dello studio CHARM – in cui il 56% dei pazienti
era in trattamento con ACE-I, il 55% con BB e il 21% con ARA –
il quale ha documentato un beneficio del candesartan anche nei
pazienti trattati contemporaneamente con ACE-I e BB.
In sintesi, qualora la decisione
sia quella di intraprendere la tripla terapia, il dato
complessivo appare favorevole all’impiego della triade ACE-I +
BB + ARA nei pazienti con SC moderatamente severo o severo
(classe NYHA IIIb-IV) e in quelli a-paucisintomatici (classe
NYHA I-II) con disfunzione postinfartuale; l’ARA va
obbligatoriamente impiegato a basse dosi (spironolattone 12.5-25
mg/die, eplerenone 25-50 mg/die) ed esclusivamente nei casi con
profilo di basso rischio (creatininemia <2.5 mg%, potassiemia
<5.0 mmol/l). Viceversa, la triade ACE-I + BB + ARB è l’unica ad
essere indicata nel sottogruppo di pazienti con SC di grado
lieve non postinfartuale (classe NYHA II) e in quelli con SC
moderato di qualunque eziologia (classe NYHA III). Anche per
questa versione della tripla terapia è necessaria un’attenta
stima preliminare del rischio di ipotensione/insufficienza
renale/iperpotassiemia. Non vi sarebbero invece, allo stato
attuale, documentazioni di efficacia della tripla terapia, in
entrambe le sue versioni, nella disfunzione asintomatica non
postinfartuale.
In pazienti con SC severo,
persistentemente sintomatici nonostante ottimizzazione della
terapia con ACE-I, BB e diuretico, di età avanzata e con
comorbilità in grado di influenzare significativamente la
prognosi, spesso diventa prevalente l’obiettivo di alleviare i
sintomi ed evitare l’ospedalizzazione ricorrente per cui –
soprattutto quando anche il profilo di funzionalità renale si
presenta compromesso – la scelta dovrebbe essere a favore
dell’impiego di un ARB. Al contrario, nei pazienti in classe
NYHA III-IV – nei quali teoricamente possono sussistere
indicazioni ad entrambe le versioni della tripla terapia – che,
anche per l’assenza di comorbilità di rilievo, hanno una
maggiore aspettativa di vita, è preferibile orientarsi sul
beneficio dell’aggiunta di un ARA.
Ed ancora, e sempre sulla base
di un’attenta valutazione del profilo di comorbilità dei
pazienti, per valori di creatininemia compresi tra 1.5 e 2.5
mg%, specialmente se si tratta di pazienti anziani e/o con
pregressi episodi di insufficienza renale o severa
iperpotassiemia, l’opportunità di aggiungere l’ARA all’ACE-I e
al BB andrebbe attentamente valutata. In questi casi può essere
preso in considerazione il trattamento con un ARB, anche se in
presenza di un profilo di funzione renale sfavorevole all’ARA, è
probabile che si debba adottare la stessa cautela per l’ARB.
Invece appare difficile negare la versione della tripla terapia
che contempla l’ARB ai pazienti ipertesi e/o diabetici, specie
se con concomitante nefropatia.
Per la quadrupla terapia,
l’evidenza sull’efficacia e la sicurezza di impiego di ACE-I,
BB, ARA e ARB in associazione è limitata ad un’analisi (dati
statisticamente non significativi) condotta su un sottogruppo di
237 pazienti (dei 4576 totali) arruolati nel CHARM.
Le linee guida europee non fanno
riferimento alla quadrupla terapia, per cui non vi sono elementi
per stabilire se questo approccio terapeutico sia raccomandabile
o meno.
Le linee guida americane sono
invece chiare nel non raccomandare l’impiego combinato di ACE-I,
ARA e ARB.
In attesa di un’evidenza
scientifica più probante, la quadrupla terapia non può
rappresentare un approccio raccomandabile di routine, ma solo
una possibilità a cui far ricorso in casi estremamente
selezionati. Il setting clinico più favorevole alla sua
applicazione in termini di beneficio/ rischio potrebbe essere il
sottogruppo di pazienti con ridotta FEVS e SC severo (classe
NYHA IV) che – pur trattati in modo ottimale e stabilizzati con
ACE-I, BB e ARA – restano fortemente sintomatici (classe NYHA II).
Altro aspetto su cui riflettere
è il problema della polifarmacologia, particolarmente evidente
nelle classi di età più avanzate. Di fatto, pressoché tutti i
pazienti che sono potenziale obiettivo della tripla/quadrupla
terapia sono in concomitante trattamento con diuretici (sempre)
e digitale (spesso), i cui effetti – se da un lato sono di
beneficio – dall’altro certamente contribuiscono a restringere i
margini di tollerabilità emodinamica nei confronti degli agenti
antagonisti neurormonali. Questo senza ovviamente considerare
l’esigenza terapeutica delle patologie non cardiovascolari
associate.
Infine, in tema di indicazioni
ai device, attualmente
è possibile avvalersi di un presidio non farmacologico,
legittimato da studi controllati, costituito dalla Stimolazione
Biventricolare / Resincronizzazione, CRT), il cui razionale è
basato sulla dimostrazione che i disturbi della conduzione ,
frequentemente presenti nei pazienti con SC ( BAV di I grado e
Blocco della Branca Sinistra), comportano effetti emodinamici
negativi: perdita della sincronia atrio-ventricolare con
perdita del contributo atriale al riempimento ventricolare,
dissincronia di contrazione interventricolare ed
intraventricolare sinistra che determinano incompleto
riempimento diastolico del VS, riduzione del dP/dT, incremento
dell’insufficienza mitralica, movimento paradosso del SIV. Tale
dissincronia è frutto di un danno miocardico progressivo,
globale o focale, con fibrosi interstiziale che sostituisce
gradualmente il tessuto miocardio, determinando una propagazione
eterogenea dell’attività elettrica con conseguenze meccaniche
sull’efficienza contrattile del cuore.
L’obiettivo della
CRT è dunque quello di ripristinare la sincronia
atrio-ventricolare, la sincronia elettromeccanica del SIV,
ridurre l’insufficienza mitralica telediastolica, ottimizzare la
funzione diastolica e ridurre la discrepanza tra contrattilità
miocardica e dispendio energetico.
In una metanalisi di studi
controllati, la CRT ha dimostrato una riduzione delle
ospedalizzazioni del 32% e la mortalità per tutte le cause del
25%, ovvero, in media, per ogni 9 Device impiantati si
prevengono una morte e tre ospedalizzazioni, e tali risultati
possono rendersi evidenti già dopo 3 mesi dall’impianto. La CRT,
pertanto, ha dimostrato in pazienti in terapie medica ottimale e
comprovata dissincronia ventricolare, una diminuzione dei
sintomi, aumento di capacità di esercizio, qualità di vita,
Frazione di Eiezione, sopravvivenza e diminuzione delle
ospedalizzazioni.
Alla luce delle premesse fatte
ed a quanto raccomandato nelle Linee Guida delle associazioni di
Aritmologia, Italiana, Europea e Nord-Americana, l’indicazione
ad impianto di sistema CRT si considera in Classe 1 per una sola
categoria di pazienti, ovvero:
- scompenso Cardiaco gravemente
sintomatico (Classe NYHA III-IV ambulatoriale) nonostante una
terapia medica ottimale
- ridotta Frazione di Eiezione
(FE ≤
35%), determinata all’ecocardiogramma
- ritmo sinusale
- presenza di Dissincronia
ventricolare, dimostrata all’ecocardiogramma
Di fatto, quello della
dimostrazione della dissincronia ventricolare è considerato il
punto centrale per l’indicazione, in grado di predire
l’efficacia in cronico della CRT, ed anche il punto più
controverso.
Peraltro, nelle linee guida, la
dissincronia ventricolare viene definita in base alla sola
durata del QRS, che deve essere > di 120 msec e a cui, in
recenti studi, viene attribuito un sostanziale significato
discriminante per l’individuazione di responder e
non-responder .Tali Linee Guida prevedono anche, come
indicazione in Classe 2, pazienti con durata del QRS < 120 msec
ma con dimostrazione della dissincronia all’ecocardiogramma. La
selezione ecocardiografica deve avvenire con parametri standard
ad un primo filtro, e successivamente con l’ausilio delle nuove
tecnologie (Doppler Tissutale, Strain bidimensionale , Velocity
Vector Imaging) confermata da un ecocardiografista esperto. Il
follow up ecocardiografico deve avvalersi di una stretta
collaborazione con l’elettrofisiologo per ottimizzare parametri
di attivazione tra gli atri e i ventricoli e tra i due
ventricoli.
Sono da considerare, inoltre,
indicazione in Classe 2, pazienti che differiscano per qualche
aspetto da quelli in classe 1:
1) pazienti in fibrillazione
atriale. Vi sono delle indicazioni favorevoli, specie in
soggetti che siano stati sottoposti al programma di “Ablate &
Pace”.
2) pazienti in classe funzionale
NYHA II, che abbiano comunque indicazione alla stimolazione
ventricolare e/o ICD profilattico. In tali pazienti la
stimolazione dall’apice del ventricolo destro (determinando
un’attivazione ventricolare a tipo BBS) potrebbe indurre o
peggiorare uno stato di dissincronia ventricolare.
3) pazienti nei quali è già
presente una stimolazione ventricolare destra e che siano in
classe NYHA III-IV nonostante terapia e FE
≤
35% (upgrade).
Per quanto concerne l’uso di
apparecchi combinati ICD-CRT, questo deve basarsi essenzialmente
sulle raccomandazioni all’impianto di ICD, sia per la
prevenzione primaria che per la prevenzione secondaria. I due
tipi di Apparecchi (CRT e ICD) sono da interpretare come due
modalità di trattamento della stessa popolazione di pazienti,
essenzialmente con ridotta FE del VS e compromissione
funzionale, dove la presenza o meno di sintomi di scompenso può
orientare verso l’uso di un ICD semplice oppure un apparecchio
combinato. E’ verosimile che un apparecchio esclusivamente per
la stimolazione atrio-biventricolare senza capacità di terapia
antiaritmica, sia da riservare a pazienti estremamente
selezionati, dove l’aspetto preponderante è rappresentato dal
trattamento dei sintomi di scompenso piuttosto che la
prevenzione della morte improvvisa.
In base alle considerazioni su
esposte, specialmente ai fini della indicazione a CRT/AICD, si
può prospettare l’iter diagnostico terapeutico dei pazienti con
SC nel seguente modo:
1) Visita di Inquadramento.
-
Raccolta anamnesi
(Etiologia: Ischemica - non ischemica)
-
Esami di Laboratorio
(Dosaggio BNP, funzione tiroidea, Metabolismo glicidico,
funzione renale, funzione epatica)
-
Rx-Torace (PA e LL).
-
ECG e PA
-
Ecocardiogramma con
valutazione del dissincronismo al DTI
-
Verifica terapia
2) Esami successivi
-
Coronarografia
-
Holter (HRV, Aritmie)
-
Test Cardio-Polmonare
3) Ottimizzazione della terapia
- Farmaci di uso routinario
-
ACE- inibitori
-
Diuretici
-
b-bloccanti
- Farmaci in pazienti
selezionati
4) Follow Up (almeno 3-6 mesi)
-
Ottimizzazione della terapia
5) Rivalutazione
-
Classe NYHA
-
Ecocardiogramma con
valutazione dei ritardi di conduzione al DTI
6) Nei pazienti con classe NYHA
II-IV, FE ≤
35% e ritardi meccanici dimostrati
-
AICD con Stimolazione
biventricolare (sopravvivenza e sintomi)
-
Stimolazione biventricolare
(senza AICD) (sintomi)
7) Nei pazienti con classe NYHA
II-III, FE ≤
30% e senza ritardi meccanici
Per l’indicazione più specifica
al solo ICD, nel decennio scorso numerosi studi ne hanno
dimostrato la capacità di ridurre la mortalità totale e
improvvisa nei pazienti ad alto rischio di arresto cardiaco
tachiaritmico sia quando utilizzato in prevenzione secondaria
sia in prevenzione primaria, in soggetti accuratamente
selezionati. Tre ampi studi (MADIT-II, COMPANION e SCD-HeFT) ne
hanno dimostrato l’efficacia in prevenzione primaria anche in
pazienti selezionati solo sulla base della presenza di grave
disfunzione ventricolare sinistra. L’orientamento delle attuali
linee guida internazionali e nazionali è di porre indicazione
all’impianto di un ICD nei pazienti con cardiopatia e frazione
di eiezione ventricolare sinistra (FEVS) =30%, almeno 40 giorni
dopo un infarto miocardico (IM) acuto e di considerare
“ragionevole” l’indicazione all’impianto anche nei pazienti con
FEVS compresa tra 31 e 36.La stretta aderenza a tali
indicazioni, modificando in modo sostanziale il tradizionale
approccio terapeutico basato su una stratificazione preliminare
con combinazioni di test non invasivi e/o invasivi, ha creato
forti divergenze di opinione tra gli addetti ai lavori e ha
fatto emergere tre importanti ordini di problemi: 1) clinici
(espansione delle indicazioni, abbandono di una consolidata
esperienza di stratificazione prognostica a favore di un mezzo
di selezione poco specifico), 2) etici (a discapito di una
modesta riduzione assoluta della mortalità, impianto di
apparecchi sofisticati, costosi, spesso inutilizzati o gravati
da un’elevata frequenza di effetti indesiderati), e 3) economici
(incremento esplosivo delle spese sanitarie).
In definitiva, la terapia con
ICD per la prevenzione primaria della morte improvvisa nei
pazienti con grave disfunzione ventricolare sinistra non
dovrebbe essere estesa a tutta la popolazione con FEVS =35%.
Dato per scontato che l’impianto di un ICD va evitato quando il
paziente, in grado di intendere e ampiamente informato, rifiuta
l’intervento: 1) l’applicazione di un ICD potrebbe essere
evitata nei pazienti: a) con rischio di MI o arresto cardiaco
<2- 3%/anno o identificabili a basso rischio con un potere
predittivo negativo >96%; b) di età >80 anni (ad eccezione di
quelli con un’aspettativa di vita >2-3 anni); c) con FEVS <20%
e/o in classe funzionale NYHA III/IV-IV nonostante terapia
medica piena e senza criteri per porre indicazione alla CRT; d)
con cardiomiopatia dilatativa idiopatica in cui la FEVS dopo
terapia appropriata (in particolare dopo terapia betabloccante)
migliora in modo significativo; e) con cardiopatia ischemica e
FEVS >30% in assenza di inducibilità di tachiaritmie
ventricolari sostenute; 2) l’indicazione all’applicazione di un
ICD dovrebbe essere posta con cautela nei pazienti di età >75
anni e significativa comorbilità che faccia prevedere un elevato
rischio di morte entro 2-3 anni, nonostante la terapia con ICD;
3) l’impianto di un ICD dovrebbe essere indicato nei pazienti
con recente IM identificati ad alto rischio di eventi aritmici
maggiori. Per i pazienti appartenenti ai primi due gruppi
un’alternativa all’impianto di un ICD potrebbe essere preferito
l’uso, se possibile, di amiodarone, eventualmente in
combinazione con betabloccanti.
In conclusione, la ricerca
dell’approccio terapeutico più appropriato per il paziente con
SC è attualmente difficile per il sommarsi di problematiche sia
di natura terapeutica, legata all’ampio spettro di presidi
farmacologici di cui disponiamo e alla loro
combinazione/interazione, sia alla necessaria ricerca
dell’appropriata indicazione all’uso di dispositivi
intracardiaci.
Purtroppo queste problematiche,
sebbene oggetto di discussione e controversie ormai da numerosi
anni, continuano a rimanere irrisolte e ad essere causa di
incertezza sul modo migliore di agire nel singolo paziente.
