Il trattamento
chirurgico DELLE
STENOSI DELLA CAROTIDE E delLE ARTERIOPATIE PERIFERICHE.
Eugenio Meucci, Luigi Meucci, Alessandro Luongo, Adriana
Perziano, Salvatore De Vivo
U. O. C. di Chirurgia Vascolare PO S.Luca – Vallo della
Lucania
Dipartimento Cardiovascolare ASL SA 3
La possibilità di un trattamento
endoluminale interessa ormai tutte le arteriopatie
extracoronariche e il punto di vista del chirurgo vascolare non
può essere diverso da quello di altri operatori (interventisti e
non) con i quali si confronta e collabora quotidianamente. Gli
elementi di maggiore difficoltà sono attualmente rappresentati
dalla standardizzazione delle indicazioni al trattamento e dalla
scelta sempre più difficile tra le due modalità terapeutiche di
cui disponiamo, endovascolare e chirurgica convenzionale, spesso
senza poter disporre di criteri precisi. Quali sono gli elementi
che ci indirizzano nel trattamento delle stenosi carotidee e
dell'arteriopatia ostruttiva cronica degli arti inferiori?

STENOSI CAROTIDEE
L'ictus cerebrale rappresenta la
terza causa di morte nei paesi industrializzati e la principale
causa di invalidità permanente con una prevalenza nella
popolazione anziana (età>65 anni) del 6,5% (M>F).
I trials pubblicati (NASCET
ed ECST per le stenosi sintomatiche, ACAS ed
ACST per le stenosi asintomatiche) hanno dimostrato
l'efficacia dell’endoarteriectomia carotidea rispetto alla
terapia medica nella prevenzione dell'ictus ischemico, definendo
con chiarezza le indicazioni della chirurgia nei pazienti
sintomatici e asintomatici, con un livello di evidenza I e un
grado di raccomandazione A.
E' ampiamente dimostrato come il
massimo beneficio, in termini di prevenzione di eventi
ischemici, si abbia nei pazienti sintomatici nei quali la
riduzione di rischio è riscontrabile per stenosi superiori al
70% e, anche se meno evidente, per stenosi superiori al 50%, a
condizione di mantenere il tasso di complicanze perioperatorie
al di sotto del 6%.
Recenti metanalisi hanno
confermato come il beneficio sia direttamente proporzionale al
grado di stenosi (ad eccezione delle pseudo-occlusioni o
near-occlusion), proponendo in aggiunta altri fattori
prognostici indipendenti: età, sesso, caratteristiche della
placca, natura del sintomo (oculare o emisferico), data
dell'evento ischemico. In relazione al fattore temporale è
infatti attualmente riconosciuto che nelle stenosi sintomatiche
il beneficio dell'intervento è inversamente proporzionale al
tempo trascorso dal sintomo. Nei pazienti che hanno sviluppato
TIA ed ictus minori si ritiene attualmente indicata difatti l'endoarterectomia
precoce, cioè entro le prime due settimane dall'evento clinico
(Raccomandazione di grado A).
In relazione alla stenosi
asintomatica l'intervento è indicato nelle stenosi di grado
maggiore del 60% (valutata con il metodo NASCET) a condizione
che il tasso di morbi-mortalità sia inferiore al 3%. La
riduzione assoluta di rischio di ictus è, in tal caso, modesta
(1%/anno), ma statisticamente significativa a cinque anni. E'
auspicabile, pertanto, nei pazienti asintomatici, una revisione
sistematica che stratifichi i vari fattori di rischio, onde
identificare i sottogruppi a maggiore rischio di ictus nei quali
è maggiore il beneficio del trattamento chirurgico (grado di
stenosi, caratteristiche della placca, sesso maschile,
ipercolesterolemia, ipercreatininemia).
Facendo riferimento alla
prognosi a lungo termine, il rischio annuale di ictus
omolaterale di questi pazienti portatori di stenosi asintomatica
rimane nell'ordine del 2%, sensibilmente inferiore quindi al
rischio di infarto miocardico e di morte vascolare non correlata
ad ictus. Si impone pertanto primariamente un intervento globale
di prevenzione.
Il ruolo dell'endoarterectomia
nel trattamento della stenosi carotidea è stato rimesso in
discussione in questi ultimi anni dalla diffusione dello
stenting carotideo che si propone attualmente come una procedura
quanto mai attraente, che consente di ottenere un risultato
morfologico soddisfacente nel caso di lesioni anatomicamente
favorevoli. Si pone peraltro il difficile problema della
selezione dei pazienti sulla base di criteri ancora non ben
definiti. Le attuali evidenze non sono, però, tali da suggerire
un cambio di tendenza dall'endoarterectomia verso lo stenting
nel trattamento routinario della stenosi carotidea
(Raccomandazione di grado A).
Lo stenting carotideo, con
adeguati livelli di qualità procedurale ed adeguata protezione
cerebrale è indicato in caso di gravi comorbidità cardiache o
polmonari ed in condizioni specifiche come la paralisi del
ricorrente controlaterale, stenosi ad estensione craniale o
caudale ritenute inaccessibili (Raccomandazione di grado B). Per
convenzione le gravi comorbidità cardiache si intendono: lo
scompenso cardiaco, un intervento cardiochirurgico nelle sei
settimane precedenti, un infarto miocardico nelle quattro
settimane precedenti e l'angina instabile.
Lo stenting carotideo è
indicato, inoltre, in caso di condizioni specifiche (restenosi,
stenosi post-attiniche, colli ostili, occlusione controlaterale)
(Raccomandazione di grado C).
In realtà la definizione di
pazienti a rischio per un intervento di endoarterectomia
carotidea non è affatto scontata. Numerose casistiche riportano
infatti risultati del tutto soddisfacenti con l’endoarterectomia
carotidea anche in pazienti con quelle lesioni anatomiche ovvero
con quelle comorbidità che li definirebbero ad “alto rischio
chirurgico”. Basti pensare che l’età superiore a 80 anni nei
risultati preliminari del CREST ed in altre revisioni risulta un
fattore di rischio elevato dello stenting carotideo, non già
dell’ endoarterectomia carotidea.
Cionondimeno, pur mancando una
“evidenza” scientifica che giustichi la diffusione che lo
stenting sta conoscendo, i suoi risultati, man mano che il
volume delle procedure e quindi l’esperienza acquisita
aumentano, sono sempre più incoraggianti. Molti sono quindi gli
operatori che impiegano routinariamente l'angioplastica
carotidea e piuttosto che individuare i pazienti ad alto rischio
chirurgico da indirizzare verso il trattamento endovascolare,
tendono ad individuare le lesioni anatomiche a rischio per uno
stenting da indirizzare verso l’endoarterectomia carotidea.
I rischi dell’angioplastica
carotidea sono infatti legati essenzialmente a taluni aspetti
anatomici sfavorevoli o proibitivi che possono condurre al suo
insuccesso quali:
·
l’ esistenza di
placche calcifiche e emboligene a livello dell’ arco aortico ;
·
talune
conformazioni dell’arco e dei tronchi epiaortici ;
·
l’ esistenza di
lesioni ostiali che rendono il cateterismo selettivo “a
rischio” ;
·
il carattere
particolarmente serrato della placca carotidea e soprattutto la
sua morfologia che condiziona il rischio emboligeno (lesioni
ipoecogene, materiale trombotico);
·
e infine le
tortuosità accentuate della carotide interna.
Resta, però, ancora da
dimostrare se l’angioplastica carotidea, al di là dei pazienti
“a rischio” , possa essere proposta anche in pazienti a “basso
rischio “ chirurgico, se sia in grado di assicurare a distanza
l’indennità anatomica, cioè la pervietà dell’asse carotideo, e
l’indennità neurologica del paziente, cioè la prevenzione
dell’ictus che è l’unico vero scopo del trattamento delle
lesioni carotidee.
I dati attualmente disponibili
confermano, in conclusione, che l'endoarterectomia è ancora il
trattamento di scelta delle stenosi carotidee secondo le
indicazioni dei trials ormai “storici” i cui risultati si sono
dimostrati ormai largamente riproducibili. L'angioplastica
andrebbe riservata a pazienti arruolati in trial clinici ovvero
a pazienti ad “alto rischio” con tutte le riserve che la
definizione di “alto rischio” comporta. Siamo in attesa dei
risultati dei trials ancora in corso perché trovi conferma o
meno la convinzione di molti di noi che l’angioplastica
carotidea possa avere delle indicazioni ben più larghe di quelle
attuali.
ARTERIOPATIE ARTI INFERIORI
A noi tutti è noto come il
paziente affetto da un’arteriopatia cronica ostruttiva a carico
degli arti inferiori presenti un elevato rischio di altre
complicanze cardiovascolari, ben più gravi del suo disturbo
funzionale, e quanto siano pertanto cruciali il controllo dei
fattori di rischio, il trattamento antiaggregante piastrinico e
un programma di riabilitazione, sulla cui necessità occorre
assolutamente sensibilizzare in prima istanza il paziente.

Solo allora si può discutere
l’indicazione a una rivascolarizzazione ricorrendo ad una
soluzione chirurgica tradizionale, endovascolare o ibrida,
scelta questa che se talora è evidente, spesso è difficile non
esistendo dati in letteratura che consentano di precisarne le
rispettive indicazioni.
La scelta deve tener conto di
diversi elementi:
·
l’ entità della
sintomatologia del paziente, relativa alle proprie esigenze
funzionali;
·
il profilo
anatomico delle lesioni, la loro sede, estensione e natura;
·
i rischi;
·
i risultati a
distanza delle diverse metodiche di rivascolarizzazione ;
·
il contesto
clinico del paziente e le sue aspettative di vita.
Relativamente al profilo
anatomico delle lesioni tale scelta viene senz’altro indirizzata
dalla classificazione TASC (Trans-Atlantic Inter-Society
Consensus) che ha distinto in quattro tipi diversi le lesioni
obliteranti aorto-iliache, femoro-poplitee ed infrapoplitee.
Per la localizzazione
aorto-iliaca, a seconda che si tratti di stenosi o di
occlusioni, di lesioni corte o estese, dell’iliaca comune,
esterna o di entrambe, sono stati distinti 4 tipi di lesioni
A,B,C e D che vedete qui dettagliati e schematicamente
rappresentati. Le lesioni di tipo A, meno severe, sono più
volentieri suscettibili di un trattamento endoluminale, quelle
di tipo D di un trattamento chirurgico, mentre per le lesioni di
grado intermedio, di tipo B e C, la scelta dipende dall'età e
dal profilo di rischio del paziente, dalle comorbidità, ma
viene significativamente influenzata dall’esperienza e dalle
preferenze dell’operatore. Resta il dato che in un’analisi del
Nationwide Inpatient Sample negli Stati Uniti tra il 1996 e il
2000 si è osservato un incremento di 8 volte del numero delle
angioplastiche iliache, da 0.3% a 3.4% ogni 100.000 adulti,
mentre il numero dei bypass aorto-femorali è diminuito del
15.5%, da 5.8% a 4.9% ogni 100.000 adulti.

Le rivascolarizzazioni
chirurgiche aorto-femorali vengono attualmente realizzate il più
delle volte con bypass protesici con risultati in termini di
pervietà immediata e a distanza di gran lunga migliori che nel
passato, grazie alla messa a punto di tecniche sempre più
meticolose e precise. Le rivascolarizzazioni «ideali» a livello
aorto-iliaco sono i bypass anatomici, ma in pazienti a rischio
una soluzione alternativa, meno aggressiva, viene offerta dai
bypass extraanatomici, il cui tragitto è sottocutaneo, e che
quindi evitano sia la laparotomia che il clampaggio aortico.
Il bypass aorto-femorale è
attualmente indicato nel caso di :
·
lesioni aortiche
non suscettibili di un trattamento endoluminale, quali le
stenosi calcifiche e le occlusioni juxta-renali ;
·
lesioni iliache
associate a un aneurisma o a una distrofia aneurismatica dell’
aorta.
·
stenosi o
occlusioni multiple dell’iliaca comune, dell’iliaca esterna e
eventualmente della biforcazione femorale ;
·
occlusione di
entrambe le iliache esterne.
I risultati immediati e a
distanza della chirurgia aorto-iliaca sono ben noti. Da una
meta-analisi relativa a 23 pubblicazioni ed alcune migliaia di
pazienti la pervietà a 5 e a 10 anni è eccellente, essendo,
rispettivamente, del 91 e dell’86% per i pazienti con
claudicatio, e dell’87 e 82% per i pazienti con ischemia
critica. L’aspetto più interessante dei progressi di questa
chirurgia è la netta riduzione della mortalità che attualmente è
del 2-5% e che trova le sue ragioni in quelle misure di
protezione miocardiche che in questi ultimi due decenni sono
state oggetto di una ricerca clinica estremamente interessante e
che consistono da un lato nello screening e nell’eventuale
trattamento delle lesioni coronariche associate, dall’altro
nella protezione farmacologica nel periodo peri-operatorio.
Quanto ai bypass
extra-anatomici, il bypass axillo-femorale e femoro-femorale,
proposti inizialmente nei pazienti a alto rischio in alternativa
alla chirurgia diretta dell’aorta, hanno attualmente indicazioni
limitate, poiché da un lato, come già menzionato, lo sviluppo
delle metodiche endoluminali ha globalmente ridotto le
indicazioni a una rivascolarizzazione chirurgica delle lesioni
obliteranti aorto-iliache, dall’altro la riduzione delle
complicanze cardiache ha ridotto il numero dei pazienti a
rischio nei quali una chirurgia aortica diretta è
controindicata. Il bypass axillo-femorale ha una pervietà a 5
anni che oscilla nelle diverse casistiche tra il 35% e l’85%, ma
che in ogni caso è nettamente inferiore a quella dei bypass
aorto-femorali. Pertanto, attualmente è impiegato unicamente in
un contesto d'urgenza o nel caso di pazienti ad “alto rischio”,
con aspettative di vita limitate, in ischemia critica le cui
lesioni non siano suscettibili di un trattamento endoluminale. I
risultati del bypass femoro-femorale sono nettamente migliori,
con una pervietà a 5 anni che varia tra il 55% e il 70% nelle
diverse casistiche anche se il rischio evolutivo di lesioni
obliteranti sull’asse iliaco “donatore” lascia comunque
propendere, qundo possibile, per una chirurgia diretta
aorto-femorale.
Nel distretto femoro-popliteo,
ed infrapopliteo i risultati delle rivascolarizzazioni
(chirurgiche o endovascolari) sono, invece, meno soddisfacenti
che a livello aorto-iliaco suggerendo, pertanto, una restrizione
delle indicazioni chirurgiche quasi esclusivamente a pazienti in
ischemia critica. Nei casi in cui si intervenga per una
claudicatio invalidante ancora più importante è un'attenta
valutazione del contesto clinico e del quadro anatomico
commisurando i rischi procedurali con in tassi di pervietà
immediati ed a distanza della procedura proposta, evitando ad
ogni costo rivascolarizzazione iuxta o sotto-articolari.
Si pone quindi ancora una volta
la scelta tra una rivascolarizzazione chirurgica convenzionale,
o un trattamento endoluminale. La scelta come per le lesioni
obliteranti aorto-iliache deve tener conto del tipo di lesione.
Anche le lesioni obliteranti femoro-poplitee ed infrapoplitee
sono state distinte in quattro diversi tipi, A, B, C, D, in
funzione del grado delle lesioni, stenosi o occlusione, che si
tratti di lesioni isolate o multiple, dell’estensione delle
lesioni, inferiori o superiori a 3 cm o a 5 cm, della
localizzazione o meno a livello della femorale comune,
dell’origine della femorale superficiale o a livello della
biforczione poplitea, del carattere calcifico o meno delle
lesioni.
Ancora una volta, le lesioni
meno severe, il tipo A, le stenosi corte e segmentarie,
sarebbero favorevoli a un trattamento endoluminale, quelle più
estese, le D, le occlusioni femoro-poplitee, al trattamento
chirurgico convenzionale, il bypass femoro-popliteo, distale, o
disto-distale mentre anche a livello femoro-popliteo per le
lesioni di tipo B e C i dati della letteratura di cui disponiamo
non ci consentono di propendere per una piuttosto che per l’
altra opzione. Sempre più frequente è il ricorso, specie in
pazienti che presentino più livelli di patologia, ad interventi
ibridi (endovascolari + chirurgici convenzionali).
In realtà il più delle volte le
procedure endovascolari a livello dell’asse
femoro-popliteo-distale presentano dei limiti in ragione del
carattere particolarmente diffuso delle lesioni obliteranti e
dell’esistenza di calcificazioni severe che rendono talora
infruttuosi tali tentativi. Del resto l’iperplasia intimale e
gli stress meccanici a livello dell’articolazione del ginocchio,
ma anche delle masse muscolari della coscia, possono
comprometterne i risultati a distanza anche a breve termine. E’
per tali motivi che una rivascolarizzazione chirurgica
convenzionale conserva intatto il suo interesse. Nel contesto di
un'ischemia critica diverse esperienze pubblicate in letteratura
sembrerebbero però suggerire proprio in questa categoria di
pazienti ad alto rischio sempre, quando possibile, un primo
approccio endovascolare. Nel realizzare tali tentativi è però
indispensabile preservare lo spazio per eventuali altre
soluzioni chirurgiche che si rendessero necessarie in
conseguenza di un insuccesso immediato o tardivo
dell'angioplastica. Diverse sono le modalità di esecuzione di
una rivascolarizzazione chirurgica, in funzione della scelta e
della disponibilità del materiale che può essere una protesi, il
più delle volte in PTFE, ovvero la safena interna, che può
venire invertita, o lasciata “in situ”, previa soppressione dei
giochi valvolari. Come già menzionato, le indicazioni al
trattamento nelle rivascolarizzazioni distali devono essere piu’
rigorose, e nel caso di rivascolarizzazioni sotto-articolari
vengono trattati solo pazienti in ischemia critica. In
quest’ultimo caso le rivascolarizzazioni vengono eseguite
preferenzialmente utilizzando la vena safena i cui risultati,
secondo quattro casistiche della letteratura relative a un
totale di circa 3000 pazienti, danno una pervietà primaria a 5
anni del 70%, una pervietà secondaria dell’81% e un
«salvataggio» del 90% degli arti destinati altrimenti a
un’amputazione. Di cruciale importanza è la sorveglianza
eco-Doppler di tali bypass che consente di diagnosticare
eventuali stenosi evolutive a livello delle arterie native
prossimali o distali o a livello delle anastomosi, e quindi di
correggerle con procedure endoluminali di PTA ovvero con
procedure chirurgiche convenzionali, quali l’apposizione di un
patch o l’interposizione di un corto innesto in vena. In caso di
occlusione del bypass si può procedere o a una trombolisi
percutanea ovvero a una trombectomia chirurgica o a un bypass
iterativo.In conclusione gli elementi necessari per un
progressivo miglioramento dei risultati nel trattamento dei
pazienti affetti da arteriopatia cronica ostruttiva degli arti
inferiori sono:
·
una profonda
conoscenza della storia naturale della malattia e
dell’associazione con altre localizzazioni, in particolare
coronarica;
·
un'accurata
valutazione clinica;
·
la correzione dei
fattori di rischio, la terapia antiaggregante ed il trattamento
riabilitativo,
·
un corretto
impiego delle metodiche diagnostiche meno invasive, quali
l’eco-Doppler e più recentemente l’angio-TAC e l’
Angio-Risonanza Magnetica che attualmente consentono di meglio
definire le indicazioni a una rivascolarizzazione e soprattutto
di adattare al singolo paziente la soluzione tecnica più
adeguata.;
·
la valutazione del
rischio chirurgico e l’adozione di misure, in particolare di
protezione miocardica, rivolte a minimizzare tale rischio ;
·
un’attenta
selezione ed una messa a punto di tecniche chirurgiche e/o
endovascolari di rivascolarizzazione sempre più efficaci e
durature;
·
un meticoloso
follow-up dei pazienti affinché i risultati delle
rivascolarizzazioni possano mantenersi a distanza.
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