Conquiste e sfide della ricerca in cardiologia
A. Maseri
Fondazione Italiana per il Tuo Cuore – HCF
Dal tempo in cui mi sono affacciato alla cardiologia i progressi
sono stati enormi. Non avevamo i mezzi per diagnosticare con
certezza se una lesione valvolare causava una predominante
stenosi o insufficienza né per verificare se la risposta ad un
test da sforzo era o non era ischemica. E’ stata la ricerca
clinica fisiopatologica a farci uscire da quel “medio evo”
identificando i guasti che dovevano essere diagnosticati. Ora si
pone la sfida della prevenzione dei guasti ma le attuali
strategie di prevenzione hanno già sfruttato le potenzialità
fornite dalle attuali conoscenze. Un salto di qualità verrà
dalla applicazione della ricerca di base in casistiche di
pazienti fenotipicamente omogenei, selezionati da accurate
osservazioni cliniche tra quelli che hanno più caratteristiche
distintive anamnestiche, cliniche, bioumorali, rispetto a quelle
tradizionalmente attese. Scoprire che cosa rende “diversi”
alcuni pazienti rivelerà meccanismi di malattia e di protezione
ancora ignoti e renderà possibile lo sviluppo di nuovi target
terapeutici.
La diagnosi e correzione dei guasti
La ricerca clinica fisiopatologica ha permesso di identificare e
quantizzare i “guasti” responsabili dei disturbi che conducono i
pazienti dal cardiologo. I mezzi diagnostici si sono poi
progressivamente affinati e le strategie terapeutiche per
ripararli o correggerli sono diventate sempre più efficaci.
Per i pazienti molto sintomatici la scomparsa o riduzione dei
disturbi fornisce la prova dell’efficacia della terapia caso per
caso, senza la necessità di trails clinici.
Il successo nella correzione dei “guasti” cardiovascolari ha
stimolato una sfida molto più ambiziosa: la loro prevenzione.
La prevenzione di eventi cardiovascolari avversi è valutata in
termini statistici, in studi controllati randomizzati in doppio
cieco: i trial clinici.
I Trials clinici ed oltre
I trials
clinici non stanno più producendo risultati eclatanti né nella
prevenzione dell’aterotrombosi né in quella dello scompenso:
alcuni risultano negativi, altri dimostrano benefici
statisticamente significativi solo in sottogruppi e, comunque,
con riduzioni modeste del numero totale di eventi.
Come uscire
da questa fase di stallo?
Per
rispondere a questa domanda è utile analizzare:
1.
la strategia
sulla quale sono basati i trials;
2.
i limiti
dell’attuale approccio statistico alla prevenzione
cardiovascolare;
3.
un approccio
patofisiologico per la prevenzione cardiovascolare sul modello
di quanto avviene per la prevenzione dell’anemia;
4.
la
rivalutazione dell’osservazione clinica.
1.
Strategia
degli attuali trials
Attualmente i
trials clinici sono disegnati per valutare la riduzione
incrementale del rischio composito di eventi avversi prodotto da
nuovi trattamenti, rispetto al placebo, in gruppi di pazienti
molto ampi, già trattati in maniera ottimale secondo le linee
guida. Tuttavia i trattamenti sono indicati dalle linee guida,
proprio perché si sono dimostrati efficaci, quindi un’ulteriore
importante riduzione del rischio appare possibile solo
identificando nuovi target terapeutici specifici, non ancora
bersaglio dell’attuale trattamento “ottimale”. Nuovi target
terapeutici possono essere individuati adottando strategie di
ricerca clinica innovativa.
2.
I limiti
dell’attuale approccio “statistico” alla prevenzione
I risultati
delle attuali strategie sono stati:
-
l’identificazione di indicatori prognostici che permettono di
stratificare gli individui in gruppi a rischio medio
progressivamente crescente e la produzione delle carte del
rischio;
-
una riduzione
del rischio medio di eventi che, con trattamenti combinati, può
raggiungere il 50%.
Questi
risultati sono successi importanti e le attuali strategie di
prevenzione debbono essere implementate al meglio nella pratica
clinica. Ma non possiamo limitarci a questo, beandoci dei nostri
successi, paghi dei risultati ottenuti, perché il bicchiere è
pieno solo a metà. Dobbiamo accingerci a riempire la metà vuota
del bicchiere, accettando umilmente di non poter spiegare tutto
con quello che abbiamo scoperto fino ad ora. Dobbiamo uscire dai
paradigmi che ci hanno condizionato fino ad ora e considerare
due limiti intrinseci di questa strategia preventiva, su base
statistica che sono sistematicamente sottaciuti:
-
una riduzione
del rischio del 50% implica automaticamente che il restante 50%
avrà un evento nonostante il trattamento “ottimale”
-
l’identificazione di un gruppo di individui con un rischio
elevato, per esempio del 30%, implica automaticamente che il 70%
di quello stesso gruppo non avrà un evento.
Al momento
attuale non abbiamo modo di identificare né il 50% che avrà un
evento nonostante il trattamento “ottimale” e che necessiterebbe
quindi di una prevenzione aggiuntiva efficace, né il 70% che non
avrà un evento e che potrebbe essere rassicurato invece di
ricevere anch’esso il trattamento “ottimale”, valido per la
media. Se fossimo in grado di identificare questi due
sottogruppi potremmo riservare il trattamento “ottimale” per
quei pazienti nei quali esso evita realmente gli eventi avversi.
3.
Un approccio
patofisiologico alla prevenzione
E’ possibile
riparare o correggere “guasti” che causano gravi disturbi anche
senza conoscere con precisione i meccanismi fisiopatologici che
li causano. La terapia diuretica è efficace nello scompenso e
l’angioplastica primaria è efficace nell’infarto acuto
indipendentemente dalle possibili cause di queste due sindromi.
Proprio come nella grave anemia una trasfusione è efficace
indipendentemente dalle sue possibili molteplici cause. Tuttavia
una prevenzione specifica dei “guasti” richiede la precisa
conoscenza e diagnosi delle loro varie componenti patogenetiche.
Un esempio classico è proprio fornito dalla prevenzione
dell’anemia che è diventata possibile grazie all’identificazione
dei suoi svariati meccanismi patogenetici: per esempio la
deficienza di ferro e di vitamina B12 sono prevenute dalla
correzione delle cause della loro rispettiva deficienza.
Gli ematologi
sono riusciti ad identificare una serie di descrittori
(nell’anamnesi, nei globuli rossi, nei parametri ematoclinici)
che caratterizza meccanismi patogenetici causali specifici, e
che permette una diagnosi, precisa con la conseguente
possibilità di trattamenti mirati.
Un approccio
patofisiologico alla prevenzione delle varie sindromi
cardiovascolari non è attualmente possibile perché, per quasi
tutte, manca ancora un insieme di descrittori sufficiente per
caratterizzare meccanismi causali diversi, all’interno della
stessa sindrome clinica, con la stessa specificità con cui si
riconoscono le varie cause dell’anemia. Inoltre la crescente
diffusione dei trials clinici e la produzione di linee guida
determinano una standardizzazione della gestione dei pazienti
secondo protocolli codificati. Sempre più spesso, al fine di
semplificare ed uniformare le scelte terapeutiche e preventive,
vengono definite linee guida e protocolli che includono uno
spettro di pazienti sempre più ampio. Così viene disincentivata
l’attenzione per i casi che deviano dai comportamenti più comuni
ed attesi sulla base dei dati medi disponibili. Tuttavia le
scoperte che permetteranno una prevenzione più mirata
personalizzata saranno frutto di nuove osservazioni cliniche.
4.
La
rivalutazione dell’osservazione clinica
Attualmente
siamo indotti a focalizzare la nostra attenzione sul valore
predittivo medio degli indicatori di rischio e sulla risposta
media alla terapia.
Tuttavia, per
scoprire nuovi meccanismi di protezione di malattia dobbiamo
studiare i pazienti che più deviano dal comportamento e dalla
risposta attesa, più comune. Scoprire la causa di questa
deviazione dal comportamento prevalente è una tappa fondamentale
per sviluppare forme di terapia e prevenzione più razionali. Due
esempi illustrano questa nuova strategia di ricerca che HCF si
accinge a promuovere.
-
Tra i
pazienti che hanno un grosso infarto miocardico sarà illuminante
scoprire perché nei mesi e anni successivi alcuni sviluppano
scompenso recidivante mentre altri con un infarto simile restano
sempre in classe NYHA 1 o 2
-
Tra i
pazienti con criteri MADIT 2 per l’impianto di un defibrillatore
negli anni successivi, alcuni non hanno alcuna scarica
appropriata altri ne hanno molteplici.
Verranno
selezionati i pazienti che all’esordio appaiono del tutto simili
e che avranno un’evoluzione estremamente opposta. Entreranno in
protocolli elaborati dai rispettivi gruppi di studio e saranno
seguiti attentamente fino all’esito.
Assieme a
questi esempi paradigmatici HCF incoraggerà la segnalazione di
tutti i casi che una curiosa osservazione clinica rileverà come
molto inusuali. La rete del Centro Studi li segnalerà per
esplorare se ne esistono altri simili sviluppando così
casistiche di comportamenti inusuali che entreranno in
protocolli ad hoc per studi di ricerca di base.