IL TRATTAMENTO INTERVENTISTICO DELLE STENOSI DELLA CAROTIDE
E DELLE ARTRIOPATIE PERIFERICHE
AntonGiulio Maione, Giovanni Gregorio
U.O. Utic-Cardiologia Ospedale San Luca
Dipartimento Cardiovascolare ASL SA 3 Vallo della Lucania
La presenza di lesioni
aterosclerotiche a livello delle arterie carotidee extracraniche
è responsabile di circa il 20-40% degli strokes cerebrali di
natura ischemica. In passato due trials (NASCET e ECST),
pubblicati entrambi nel 1991, rispettivamente su NEJM e LANCET,
hanno dimostrato che in pazienti clinicamente sintomatici e con
stenosi carotidea > 70% la rimozione chirurgica della placca
aterosclerotica (CEA) è superiore alla terapia medica nel
ridurre il rischio assoluto e relativo di eventi cerebrali
acuti. Al contrario in pz. sintomatici ma con stenosi carotidea
< 50% era evidente l’assenza di beneficio della terapia
chirurgica rispetto alla terapia medica.
Rimane ancora oggi molto
controverso il trattamento delle stenosi carotidee in pazienti
asintomatici, in quanto i trials pubblicati, tra cui l’ACAS
è il più noto, non chiariscono se sia più vantaggiosa una
strategia interventista oppure il monitoraggio clinico del
paziente sottoposto ad un’adeguata terapia medica.
Negli ultimi dieci anni si è
affermato, in alternativa alla terapia chirurgica, il
trattamento delle stenosi carotidee mediante angioplastica
percutanea con impianto di stent. Inizialmente l’impianto di
stent era riservato a pazienti con stenosi carotidee critiche e
con gravi patologie associate che ne aumentavano eccessivamente
il rischio operatorio (malattia coronarica, insufficienza
respiratoria, occlusione della arteria carotide interna
controlaterale, anomalie anatomiche particolarmente complesse);
in seguito, a partire dalla prima metà degli anni novanta si è
via via assistito ad un radicale cambiamento delle indicazioni
allo stenting carotideo, per cui oggi tale procedura è indicata
in quasi tutte le categorie di pazienti ad eccezione di rare
controindicazioni. Ciò è dovuto soprattutto ad una riduzione
significativa delle complicanze neurologiche peri-procedurali
conseguente a sua volta ad una progressiva evoluzione della
tecnica di stenting carotideo ed all’uso routinario di sistemi
di protezione cerebrale.
I risultati clinici relativi
all’impiego di tale strategia terapeutica si basano sull’analisi
dell’incidenza di complicanze peri-procedurali e dell’efficacia
a lungo termine in assenza di eventi cerebrali acuti. La
sicurezza procedurale si valuta invece attraverso l’esame dell’end-point
combinato incidenza stroke/morte nei primi 30 giorni. Soltanto
in questo modo è possibile valutare con attenzione l’uguaglianza
o la superiorità di una tecnica alternativa come lo stenting
carotideo rispetto al trattamento chirurgico, che ha, invece,
dalla sua parte circa 50 anni di impiego in tutto il mondo ed è
riconosciuto come uno dei pochi interventi chirurgici a bassa
incidenza di complicanze.
Tuttavia a mio avviso è
importante evitare di cadere nell’equivoco concettuale e pratico
di considerare lo stenting carotideo come una procedura
antagonista all’intervento chirurgico: si tratta invece di
un’ulteriore strumento a nostra disposizione capace di garantire
la scelta terapeutica migliore e più adatta a ciascun paziente.
Ciò richiede ovviamente che vengano rispettate nella pratica
quotidiana le indicazioni ed i suggerimenti forniteci dagli
studi scientificamente qualificati e che al momento confrontano
una tecnica chirurgica validata da circa mezzo secolo di
utilizzo ed una tecnica percutanea che invece si è affermata
solo negli ultimi 15 anni e che quindi ha riguardato di sicuro
un numero inferiore di pazienti. Sarà necessario attendere
ancora prima di valutare lo stenting carotideo come tecnica
terapeutica pari o addirittura alla terapia chirurgica, ma nel
frattempo i risultati dei trials pubblicati sono molto
incoraggianti. E comunque la terapia chirurgica rimane il “gold
standard” terapeutico.
Bisogna sottolineare altri due
punti significativi: 1) la terapia farmacologica ha
subito anch’essa un’evoluzione “drammatica” e ciò ha sicuramente
contribuito a migliorare sensibilmente la prognosi clinica dei
pz. con stenosi carotidea, sia che vengano sottoposti a stenting
o CEA, sia che non subiscano alcun tipo di intervento, basti
pensare all’impiego frequente di potenti farmaci anti-aggreganti
( ticlopidina – clopidogrel) e delle statine nella prevenzione
di eventi cerebrali acuti maggiori o minori. 2) il
trattamento delle stenosi carotidee è un esempio perfetto di
area d’intervento medico in cui è auspicabile ma non sempre
facile la collaborazione collegiale tra differenti figure
professionali (chirurgo vascolare, neuroradiologo, cardiologo
interventista) che hanno il compito della discussione delle
indicazioni e della strategia terapeutica da impiegare caso per
caso. E’ innegabile infatti che a tal proposito esista in certo
qual modo un chiaro conflitto d’interesse che determina una
volontà di prevaricazione dell’una figura professionale
sull’altra. Tuttavia esistono anche dei principi fondamentali
dai quali non è possibile prescindere e che prevedono che la
procedura sia essa chirurgica o percutanea debba essere sempre
eseguita dallo specialista capace di assicurare la più bassa
incidenza di complicanze.
Arteriopatia obliterante
periferica (AOP)
La malattia ostruttiva
periferica degli arti inferiori comprende quelle entità
patologiche caratterizzate dalla presenza di ostruzioni al
flusso ematico nelle arterie ad eccezione del circolo coronarico
e delle arterie intracraniche. La definizione tecnicamente,
quindi, include anche la circolazione cerebrale extracranica,
già trattata nel paragrafo precedente, le arterie degli arti
superiori e la circolazione arteriosa mesenterica e renale.
Tuttavia in questo paragrafo verrà analizzata in dettaglio la
malattia obliterante degli arti inferiori.
L’occlusione aterosclerotica
delle arterie periferiche di coscia, gamba e piede è una
manifestazione importante di aterosclerosi sistemica. La
prevalenza di tale patologia nella popolazione in rapporto
all’età è all’incirca del 12% e colpisce in egual misura uomini
e donne. Questi pazienti, anche in assenza di una storia clinica
positiva per infarto miocardico acuto o di stroke ischemico,
hanno approssimativamente lo stesso rischio di morte dei pz. con
una anamnesi patologica positiva per malattia coronarica o
cerebrovascolare. Infatti più severa è la malattia obliterante
periferica più alto è il rischio di infarto miocardico acuto, di
accidente cerebrovascolare o di morte per cause vascolari. I
principali fattori di rischio sono l’età avanzata, il fumo, il
diabete mellito, l’iperlipidemia, l’iperomocisteinemia e
l’ipertensione. Per questi motivi tali pazienti dovrebbero
essere considerati candidati ideali per strategie di prevenzione
secondaria che includono correzione dei fattori di rischio e
terapia farmacologica con anti-aggreganti. Tuttavia ciò fino ad
oggi non è avvenuto in misura pari al gruppo di pz. affetti
malattia aterosclerotica coronarica.
Circa 1/3 dei pz. con AOP hanno
una claudicatio intermittente, definita come un dolore muscolare
durante la deambulazione, localizzato ad uno o entrambi i
polpacci, che non scompare proseguendo nel cammino ma soltanto
col riposo. Con la progressione della severità della patologia
il dolore può comparire a riposo ed essere più intenso durante
le ore notturne con le gambe distese a letto. In genere questo
tipo di sintomatologia a differenza della precedente si
localizza al piede. Negli stadi tardivi dell’evoluzione clinica
l’ipoperfusione tessutale progredisce al punto da provocare la
comparsa di ulcere ischemiche e gangrene, e in più di 1/3 di
questi pazienti si rende necessaria un’amputazione maggiore. Da
sottolineare che anche la mortalità è strettamente correlata
alla presenza di dolore a riposo o di perdita tessutale ( circa
il 20% ad 1 anno).
La diagnosi di AOP inizia
ovviamente con una accurata raccolta di dati anamnestici che
permette di differenziare la claudicatio intermittens di natura
vascolare da altre forme. La misurazione dell’ABI (ankle-brachial
index) con metodica doppler è più ampiamente utilizzata negli
USA che in Europa. Normalmente l’ABI è maggiore di 1. L’esame
ecografico color-doppler consente nella maggior parte dei casi
di evidenziare la severità, la localizzazione e l’estensione
della malattia aterosclerotica, ma la valutazione dell’intero
albero arterioso di coscia e di gamba rimane imprecisa per cui
il suo impiego come unica tecnica diagnostica per programmare
una strategia chirurgica rimane piuttosto controverso.
L’arteriografia con mezzo di contrasto è oggi la tecnica
diagnostica “gold standard” con cui le altre devono
confrontarsi. Tuttavia essendo una metodica semi-invasiva
dovrebbe essere confinata a quei pazienti per i quali è prevista
una successiva procedura chirurgica o endovascolare. La RMN con
gadolinio ha raggiunto una sensibilità e specificità superiore
all’esame ecografico ed avvicina l’attendibilità
dell’arteriografia.
Il trattamento dei pazienti
affetti da AOP è diretto verso due principali campi d’azione:
l’uno rivolto al controllo dei fattori di rischio evitando in
tal modo la progressione dell’aterosclerosi sistemica, l’altro
rappresentato da interventi (farmaci, terapia endovascolare,
terapia chirurgica) che hanno lo scopo di risolvere la
sintomatologia del paziente. Astensione assoluta dal fumo di
tabacco, dare inizio ad un programma di attività fisica
regolare, controllare periodicamente i livelli serici di
glucosio, colesterolo e trigliceridi, assumere un farmaco
antiaggregante (ASA) sono alcune delle principali
raccomandazioni utili a questo gruppo di pazienti. Pazienti
asintomatici ma con esami diagnostici positivi per AOP oppure
pazienti moderatamente sintomatici sono meglio trattati con
misure terapeutiche conservative come ad esempio lo svolgimento
di un programma di attività fisica regolare. La terapia
farmacologica può essere associata per migliorare la qualità di
vita, tuttavia nessun agente farmacologico ha dimostrato ad oggi
sufficiente efficacia per poter essere impiegato routinariamente.
La rivascolarizzazione
chirurgica è senza dubbio la terapia appropriata per i pazienti
con ischemia critica degli arti inferiori ed è diretta a
prevenire un successiva maggiore amputazione. Al contrario
l’intervento chirurgico è raramente indicato in pazienti affetti
soltanto da claudicatio intermittens, dal momento che il rischio
di amputazione è significativamente basso. Esistono due
principali tipi di intervento in caso di malattia cronica
ostruttiva degli arti inferiori: l’endoarteriectomia ed il
by-pass. L’intervento di by-pass è solitamente caratterizzato da
un tasso di apertura dei vasi trattati maggiore rispetto all’endoarteriectomia.
I risultati di questo tipo di intervento chirurgico sono
correlati con la sede della patologia ostruttiva e difatti le
ricostruzioni aorto-femorali hanno un tasso di apertura a lungo
termine più alto rispetto ad interventi infra-inguinali.
Le tecniche di
rivascolarizzazione endovascolare percutanea , descritte per la
prima volta da Dotter e Judkins nel 1964 rappresentano
un’alternativa attraente alle procedure chirurgiche
tradizionali. Le indicazioni sono più ampie a causa della minore
invasività ,ma nonostante un’incessante progresso tecnologico
abbia consentito di sviluppare strumenti sempre più sofisticati,
la pervietà a lungo termine dei vasi trattati con tali tecniche
rimane inferiore a quella ottenuta con tecnica chirurgica
standard. Inoltre l’uso del “primary stenting” non ha mai
dimostrato essere superiore e vantaggioso rispetto all’uso solo
dopo un’inadeguata dilatazione con catetere a palloncino.
Coloro che sostengono l’impiego
della terapia endovascolare affermano che il decremento
nell’efficacia a lungo termine è compensato dalla minore
invasività della procedura che a sua volta determina una minore
morbidità; ed inoltre che per il paziente è improbabile subire
un peggioramento clinico o angiografico al termine della
procedura endovascolare che nel caso fallisse può essere
ripetuta più volte senza particolari controindicazioni. Infatti
i dati ad oggi disponibili suggeriscono che la efficacia a lungo
termine è maggiore per l’intervento chirurgico tradizionale, ma
le complicanze intra- e peri-procedurali sono minori nel caso di
procedure endovascolari.
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