MORTE ARITMICA
IMPROVVISA:
DALLE
DIMENSIONI DEL PROBLEMA ALLA STRATIFICAZIONE DEL RISCHIO
Pietro Belli
U.O. Utic-Cardiologia
Ospedale San Giovanni Bosco ASL Napoli 1 Napoli
DEFINIZIONE
L’arresto cardiaco è
l’improvvisa cessazione della funzione di pompa del cuore
causata, nell’ordine, o da A.C. elettrico propriamente detto :
fibrillazione ventricolare, bradiaritmia, asistolia, tachicardia
ventricolare sostenuta o da A.C. meccanico: dissociazione
elettromeccanica, tamponamento cardiaco.
In assenza di un intervento
tempestivo di rianimazione cardiopolmonare l’A.C. porta
rapidamente a morte.
La morte improvvisa (M.I.), è
definita dalla Task Force della Società Europea di Cardiologia
come “morte naturale che interviene entro un’ ora
dall’esordio dei sintomi, in modo inatteso, per cause cardiache
che comportano una improvvisa perdita di conoscenza in soggetti
con o senza preesistente cardiopatia”.
Così la M.I. è dovuta anche a
malattie extracardiache: rottura dell’aorta, embolia polmonare
massiva o la rottura di un aneurisma subaracnoideo. Pertanto,
bisognerebbe tener distinto l’arresto cardiaco vero dalla M.I.
da causa cardiaca (Sudden Cardiac Death) e ancor più dalla M.I.
in senso lato. Attualmente persiste una parziale sovrapposizione
dei termini tanto in clinica quanto nei lavori scientifici da
considerarli sinonimi.
ENTITA’ DEL
PROBLEMA
Nel mondo occidentale la M.I.
resta una delle cause più frequenti di decesso e rappresenta il
90% di tutte le morti improvvise da cause naturali.
Nella popolazione generale ha
una incidenza pari a 0,4-1,3 nuovi casi x 1000 soggetti anno con
distribuzione influenzata dall’età, dalla gravità e dal tipo
della cardiopatia sottostante. Questo dato fa riferimento ad
eventi avvenuti in presenza di testimoni e pertanto è
sottostimato. Altri riportano una incidenza maggiore: 1-2 nuovi
casi anno ogni 1000 abitanti. Studi di epidemiologia tanto
Europei quanto Americani identificano 8 M.I. per 1000 abitanti
anno in maschi della sesta decade di vita affetti da
cardiopatia vascolare nota; mentre tra i 35 e i 74 anni
l’incidenza della M.I. è stata pari a 191/100000 nei maschi e
57/100000 nelle donne con il 50% dei decessi in coronaropatici
noti. Nei soggetti in età più giovanile (20-40 a) l’incidenza si
riduce a 6,2 /100000 x anno con prevalenza maggiore nel sesso
maschile (8,7M -4,1F/100000 x anno). Solo nella fascia compresa
tra 1 e 20 anni l’incidenza si riduce ma sempre ben
rappresentata da 1,3 a 8,5 casi /100000 abitanti x anno. I dati
italiani non sono certi per la scarsità dei dati raccolti. Si fa
riferimento ad indagini campione di aree circoscritte (studio
MONICA del Friuli e Brianza). I dati nazionali segnalano circa
50000 decessi anno per M.I. Mentre mancano le informazioni
epidemiologiche nelle diverse fasce di età, delle diverse
macroaree (Nord, Centro e Sud) né si hanno indicazioni delle
cardiopatie sottostanti nè si hanno dati prospettici ampi sulla
sopravvivenza tanto a breve quanto a lungo termine degli arresti
soccorsi e trattati precocemente con manovre rianimatorie .
QUALI LE CAUSE
dell’A.C.
Certamente la malattia coronaria
è la più frequente. In studi autoptici di soggetti non
selezionati deceduti per M.I. i 2/3 mostravano una coronaropatia
mentre solo il 5-10% avevano coronarie integre. Rare le anomalie
congenite delle coronarie quelle acquisite non aterosclerotiche
e le cardiomiopatie.
Altre cause di M. I. sono: I)
meccaniche II) elettriche; le prime dovute a tamponamento
cardiaco per rottura di cuore o dell’aorta ascendente o per
occlusione massiva della arteria polmonare le seconde sostenute
da: aritmie ipercinetiche: F.V. (75%) e T.V. (10%); e da
aritmie ipocinetiche (15%)
prevalentemente asistolia.
STUDI DI RIFERIMENTO
A) Studio FREMINGHAM:
Ha esaminato 5128 soggetti sani
per 30 ed ha segnalato 233 M.I. (160M – 73F).
Il rischio di M.I. era 7 volte
maggiore nei cardiopatici noti, specie nei soggetti con
precedente I.M. acuto silente o sintomatico, rispetto ai
soggetti sani.
La cardiopatia ischemica aumenta
il rischio di M.I. tanto nei giovani quanto negli anziani e il
40% cica delle M.I. è avvenuto nel 4% della popolazione con
cardiopatia nota.
Tra i 35 – 64 anni il 13% della
M.I. era causato da un evento coronario mentre dopo i 65 anni
aumentava al 20%.
Nei soggetti senza evidenza di
cardiopatia, la contemporanea presenza di più fattori di rischio
nel medesimo soggetto correlava con maggior evidenza con la M.I.
B)Studio Maastricht
Soggetti di età compresa tra i
20 e i 75 anni che avevano subito un arresto cardiaco.
Ha documentato una incidenza di
M.I. di 1/1000 x a con prevalenza del sesso maschile (21%M
versus 14.5%F).Di questi l’80% degli eventi sono avvenuti in
casa, il 15% in ambienti pubblici mentre il 40% erano accaduti
in assenza dei testimoni.
All’analisi dei sottogruppi
l’incidenza o il rischio di M.I. ha evidenziato che il rischio
assoluto per anno non si verificava nei sottogruppi piu’ gravi
(funzione ventricolare compromessa, scompenso cardiaco,
arresto cardiaco resuscitato) ma in quelli a rischio più
basso.Questo perché la predittività dell’alto rischio si
applica ad un numero basso di soggetti (diversamente dallo
studio Fremingham). Quindi secondo Myerburg bisognerebbe
impegnarsi con maggior efficacia nel ridurre il rischio della
popolazione generale se si vuole limitare la M.I. Ciò è
avvalorato dallo studio SEATTLE che ha dimostrato una riduzione
della M.I. ( da 1,2/1000 abitante a 0,85/1000 abitanti sino a
0,38/1000 abitanti anno).
DAI DATI
EPIDEMIOLOGICI E CLINICI
Si ricava che
i soggetti nella sesta decade di
vita con cardiopatia ischemica nota e gli ultra ottantenni hanno
una incidenza pari a 8 individui ogni 1000 per anno. Mentre nei
in soggetti in età lavorativa (16 – 64) asintomatici e senza
cardiopatia nota l’incidenza è di 1 caso per 10000 anno.Nel
5-10% non è documentabile nessuna cardiopatia mentre nel 20% la
M.I. è la prima ed unica manifestazione della cardiopatia.
Il 60 – 70% delle M:I. è
extraospedaliera e di queste l’80% avvengono in casa mentre il
rimanente nella strada o in luoghi pubblici. In circa il 40% in
assenza di testimoni con ovvia difficoltà di diagnosi eziologia
non corretta.
Le cardiopatie ad alto rischio
di M.I. sono:
in primis la malattia
aterosclerotica coronaria (C.I.) seguono la CMPD e la CMP
ipertensiva.
Mentre le valvulopatie
acquisite, le cardiopatie congenite, le anomalie elettriche
primitive (Sindrome del Q-T lungo congenito, la Sindrome di
Brugada, la Fibrillazione ventricolare idiomatica, la Sindrome
di W-P-W, la Tachicardia ventricolare catecolaminergica) anche
se associate ad alto rischio contribuiscono alla M.I. solo in
minima parte.
Anche le m. infiammatorie
degenerative e quelle infiltrativi (miocarditi, amiloidosi,
displasia aritmogena del ventricolo destro, sarcoidosi,
sclerodermia, sono responsabili in minima parte di M.I.
Dai dati epidemiologici si
evidenzia che la M.I. resta un grave problema di salute pubblica
nonostante le nuove ed efficaci soluzioni terapeutiche mediche
e/o elettriche. Pertanto tanto la identificazione dei soggetti a
rischio quanto la prevenzione è ancora una sfida per la
cardiologia di oggi e di domani. Infatti il 20% circa delle M.I.
avvengono in soggetti a rischio MODERATO-ALTO ( e quindi ad
identificazione più facile) e rappresentano meno del 10% della
popolazione generale. La rimanente parte (90%) è difficile da
identificare perché resta nascosta nel 90% della popolazione
generale. Lo sforzo deve concentrarsi sull’identificaziione di
quest’ultimo gruppo. Ma come procedere? Tutti i dati
epidemiologici e i meccanismi alla base della M.I. indicano che
la riduzione dell’incidenza può essere ottenuta solo con un
approccio multidisciplinare che vede coinvolti l’epidemiologo
clinico, il medico di medicina generale, il cardiologo e tutti
gli operatori dei servizi di emergenza medica.
FATTORI CLINICI DI RISCHIO:
ETA’:
La M.I. ha una
distribuzione bimodale con i due picchi il primo tra i 6-12 mesi
di vita (malattia elettrica primitiva o cardiomiopatie
primitive) e un secondo tra i 45-75 anni (causa dell’alta
incidenza della cardiopatia ischemica).
SESSO:
Colpisce più gli uomini
(3:1) probabilmente per la maggior prevalenza della C.I. Ma
nelle donne la percentuale dei soggetti che presenta un evento
ischemico prima dell’evento fatale è più bassa (30-40% contro l’
80%). Questo comporta che nelle donne è più difficile predire il
rischio di morte e quindi fare un programma di prevenzione,
anche se quelle che morranno per M. I. presentano un maggior
numero di fattori rischio.
MALATTIA CORONARICA
L’ 80% dei soggetti che muoiono
per M.I. sono affetti da malattia coronarica. L’ischemia acuta
può scatenare una T.V. o una F.V. in circa il 50% dei casi
mentre nei restanti può essere attribuita al rientro o alla
combinazione dell’ischemia e del rientro. L’esame autoptico
conferma una lesione coronarica (rottura o fissurazione della
placca o trombosi) in circa la metà dei pazienti con o senza
necrosi precedente. Anche se più raramente, l’origine anomala
delle coronarie o ponti intramiocardici sono condizioni che si
associano ad un rischio maggiore.
DISFUNZIONE VENTRICOLARE
E’ uno dei fattori che più
aumenta il rischio di M.I. sia in soggetti con cardiopatia
ischemica sia in quelli senza. Questo parametro manca però di
specificita’ perché è predittore di mortalità totale ma non di
M.I. infatti i due fattori sono correlati in maniera inversa:
M.I./ M. TOTALI = 1:3 nei
pazienti con F.E. < 20% ; 2:3 nei pazienti con F.E. > 35%.
IPERTROFIA VENTRICOLARE
Sia la primitiva che la
secondaria si associano ad un maggior rischio di M.I.
Anche l’I.V. destra secondaria a
ipertensione polmonare primitiva comporta un maggior rischio di
M.I.
ATTIVITA’ FISICA
Relazione non chiara, anche se
lo sforzo fisico sostenuto, specie nei soggetti non allenati,
può essere causa di M.I. da aumentata aggregabilità e adesività
piastrinica.
ANOMALIE ECG
Le più evidenti riguardano il
tratto ST (sottoslivellamento) e/o la T (inversione). Esse si
associano a un rischio 2 volte maggiore di malattie
cardiovascolare totale e 4 volte maggiore di M.I. L’aumento del
QT e/o la dispersione del QT corretto che identificano
l’allungamento del QT congenito ma anche negli adulti
asintomatici identificano pazienti ad alto rischio di M.
cardiovascolare. La frequenza aumentata (>90 b/m a riposo), la
preeccitazione, l’aritmia ventricolare complessa (BEV, TVNS),
presenza di potenziali evocati all’ECG signal-AVERAGED.
ALTRI FATTORI
Fumo: rischio aumentato di circa
2,5 volte nei fumatori di più di 20 sigarette al di.
Più discordanti i dati nei
diabetici, ipercolesterolemie e obesità. Probabilmente da
ricondurre ad una mediazione della cardiopatia coronaria.
Consumatori di alcool (aumento
del QT) e la dieta a basso contenuto di ac. grassi poliinsaturi
di pesce.
SISTEMA NERVOSO AUTONOMO
Certamente ha un determinismo
nelle T.V. letali. La variabilità R-R e la sensibilità
barorecettoriale riflettono l’azione del vago e del simpatico
sul cuore. Valori anomali di questi associati ad altri
indicatori di prognosi consentono di identificare paziente a più
alto rischio.
STRATIFICAZIONE PROGNOSTICA
DELLA M.I.
Attualmente mentre
l’identificazione dei soggetti ad alto rischio di M.I. non
costituisce un importante problema perché questi sono meno del
10% della popolazione globale e facilmente identificabili da
criteri codificati di selezione. Più complessa è la
stratificazione del rischio di M.I. nella popolazione a basso
rischio nascosto nella popolazione più numerosa (90%). In questo
gruppo l’incidenza di M.I.è meno di 2 nuovi casi per 10000
soggetti /anno (10 volte inferiore a quella della popolazione
generale). E’ ovvio che per identificare i 2 potenziali soggetti
a rischio di M.I. bisognerebbe valutare anche gli altri 9998
soggetti che non avranno la M.I. Pertanto si comprende come sia
necessaria una strategia che si basi su più livelli di
intervento ognuno caratterizzato da una crescente capacità di
selezione. Un programma (ideale) potrebbe essere cosi
immaginato:
LIVELLO 1
Ricerca di fattori di rischio
clinico correlati alla M.I. che comportano un aumento di
rischio: fumo, dieta, storia familiare di M.I. etc.. Presenza di
pazienti associate a maggior rischio: C.I., C.M.P. etc con
associate ricerca di variabili strumentali: es. ematochimici,
ECG: ST, R e T:
LIVELLO 2
Identificati i pazienti a
rischio nel primo livello si passa alla stratificazione
successiva mediante test invasivi e non con marcatori più
sensibili e specifici:
Aritmie ventricolari complesse
spontanee, Anomali intervallo R-R, Funzione di pompa, Ischemia
inducibile, Angiografia coronaria, Tachicardia ventricolare.
LIVELLO 3
Determinazione del grado di
rischio:
BASSO, MEDIO, ALTO
LIVELLO 4
Interventi terapeutici
proporzionale al grado di rischio identificato. Sfortunatamente,
ad oggi, non si hanno ricerche prospettiche che applicano per
intero lo schema del programma di stratificazione esposto.
In sintesi
Uno schema di comportamento da
seguire potrebbe essere:
1)
In pz
ASINTOMATICI, in
assenza di cardiopatia evidenziabile e senza storia familiare
di M.I. :
Correzione dello stile di vita e dei fattori di rischio.
2)
In pz
ASINTOMATICI con storia familiare di M.I. e minime o
assenti anomalie cardiache: Terapia medica o elettrica
in funzione del grado di rischio individuato.
3)
Pazienti con
patologia cardiaca accertata: Correzione dello
stile di vita e trattamento di fattori rischio + terapia
specifica ( medica se a rischio basso, chirurgica se
modificabile con un intervento, elettrica se a rischio elevato).
Nonostante il notevole
contributo delle conoscenze epidemiologiche sulla M.I. e sui
meccanismi che la determinano è ancora rara la possibilità della
sua prevenzione accurata. Questo perché ancora non si ha uno (o
più) marcatore specifico di rischio e perché l’esperienza di
stratificazione nei soggetti a basso rischio è ancora limitato.
Quindi al momento la M.I. non è possibile prevenirla con
provvedimenti mirati. Quindi una migliore efficienza ed efficace
di prevenzione sarà possibile solo se si afferma una totale
prevenzione delle malattie
cardiache ischemiche e
dei suoi fattori di rischio e contemporaneamente una migliore
funzionalità dei servizi di emergenza del territorio e
ospedaliero. Ciò comporta non solo di puntare all’obbiettivo
primario di ridurre l’incidenza della M.I. ma anche di
migliorare la qualità della vita dei sopravvissuti all’arresto
cardiaco.
Questo auspicio contrasta però
con la consapevolezza che nonostante lo sforzo e l’impegno
profuso la probabilità di predire accuratamente che la M.I.
resterà comunque un traguardo difficile da raggiungere poiché
tanto il fattore tempo quanto gli altri fattori di rischio
transitorio sono imprevedibili e quindi condizionano fortemente
il risultato finale.
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