LA TERAPIA DELL’IPERTENSIONE ARTERIOSA

NEL PAZIENTE ANZIANO

 

Michele Adolfo Tedesco

 

Scuola di Specializzazione in Cardiologia, Seconda Università di Napoli, A.O.R.N. Monaldi.

 

L’ipertensione arteriosa (IA) è uno dei principali fattori di rischio per lo sviluppo di patologia cardio e cerebrovascolari ed è associata ad elevati tassi di mortalità, morbilità e disabilità. La prevalenza e l’incidenza di IA aumentano progressivamente al crescere dell’età, tanto che nel nostro paese la prevalenza di IA è di oltre il 55% nella popolazione di età superiore a 65 anni e raggiunge il 70% negli ultraottantacinquenni. Particolarmente frequente negli anziani ed anzi caratteristica di questa classe di età, è l’ipertensione sistolica isolata. È ormai definitivamente accertato che anche l’ipertensione sistolica isolata, non meno di quella sisto-diastolica, aumenta il rischio cardiovascolare (CV) e non è quindi un innocuo corollario dell’invecchiamento. In età avanzata, in particolare, è il valore di pressione sistolica, più che quello diastolico, ad essere il miglior fattore predittivo di eventi cardiovascolari. Gli studi Hypertension Detection and Follow-up Program e il MRFIT hanno mostrato che un aumento di 1 mmHg nel valore di pressione sistolica si associa ad un incremento nella mortalità dell’1%. Più recentemente, è stato dimostrato che la pressione differenziale, il cui aumento indica una ridotta compliance delle grandi arterie, è un indicatore ancora migliore di aumento del rischio di tali eventi, rispetto alla sola pressione diastolica o sistolica. Inoltre, una recente meta-analisi di Staessen et al., eseguita analizzando i dati di tutti gli studi di intervento nella ipertensione sistolica isolata dell’anziano, ha dimostrato una correlazione inversa tra mortalità e pressione arteriosa diastolica. A parità di valori di pressione sistolica infatti, la mortalità totale aumenta al ridursi della pressione diastolica. Questo risultato, apparentemente sorprendente, può essere correlato con i bassi valori di pressione arteriosa diastolica tipici dei pazienti con ridotta «compliance» vascolare.

La relazione tra rischio e valori pressori è di tipo esponenziale, così che il rischio cresce molto rapidamente anche per piccoli incrementi pressori. Questo andamento rende difficile definire i limiti di variabilità normale della pressione arteriosa e individuare la soglia diagnostica di IA. Le linee-guida internazionali si sono perciò modificate nel tempo con la dimostrazione, grazie ai grandi trial clinici, di effetti benefici del trattamento antipertensivo in soggetti con valori pressori via via inferiori, sia nei giovani che negli anziani. La diagnosi di IA nell’anziano deve essere posta utilizzando la stessa metodica di misurazione del giovane, in rilevazioni pressorie multiple eseguite in diverse occasioni. Nell’anziano devono essere tenute presenti alcune peculiarità:

1) Gap ascoltatorio. Il «gap ascoltatorio» è caratterizzato, durante la deflazione del bracciale dello sfigmomanometro, dalla normale comparsa dei toni di Korotkoff, che però poi scompaiono prima del raggiungimento della pressione diastolica, per ripresentarsi a valori inferiori. Pertanto, se non si ha l’avvertenza di insufflare il bracciale a valori pressori piuttosto alti, la presenza di gap ascoltatorio può causare la sottostima dei valori di sistolica o, viceversa, la sovrastima di quelli di diastolica. Questo segno è un indice diretto di aumentata rigidità della parete arteriosa nei pazienti ipertesi e, come tale, è relativamente frequente nella popolazione anziana, spesso in associazione con vasculopatia carotidea e costituisce un possibile segno prognostico negativo.

2) Pseudoipertensione. Con questo termine si indica la marcata sovrastima dei valori di pressione arteriosa alla tradizionale misura indiretta (sfigmomanometrica), rispetto ai valori di pressione intravascolare misurati con metodo cruento. Essa è dovuta al fatto che, in presenza di sclerosi della tonaca arteriosa media, tipica dell’anziano e del diabetico, la pressione di insufflazione del manicotto necessaria a far collabire il vaso arterioso deve essere aumentata, poiché la resistenza che vi si oppone dipende più dalla rigidità della parete del vaso che dalla pressione che vige al suo interno. La possibilità di una pseudoipertensione deve essere considerata tutte le volte che si verifica una delle seguenti condizioni:

– presenza, in modo persistente, di valori pressori sistolici abnormemente elevati;

– scarso controllo pressorio in seguito a trattamento farmacologico massimale;

– dimostrazione radiologica di estese calcificazioni delle grandi arterie.

Le metodiche diagnostiche specifiche per riconoscere questa condizione sono: confronto tra misure pressorie ottenute con metodo cruento e sfigmomanometrico; rappresenta l’unica procedura disponibile per una diagnosi di certezza, che tuttavia, per la sua stessa natura invasiva, non può essere proposta come tecnica di routine; rilievo del segno di Osler: positivo quando, gonfiando il manicotto del bracciale dello sfigmomanometro al di sopra del valore di pressione arteriosa sistolica, l’arteria radiale risulta ancora palpabile come un cordoncino, anche se non pulsante. misurazione automatica ad ultrasuoni: tecnica non invasiva, utile, se non per una diagnosi di certezza, almeno per uno screening iniziale, poiché è in grado di approssimare in maniera accurata i valori pressori intraarteriosi nei casi di pseudoipertensione. Le indicazioni all’impiego dell’ABPM sono le stesse nel giovane e nell’anziano: ipertensione arteriosa; ipertensione arteriosa «da camice bianco» (white coat hypertension); tuttora i dati sull’incidenza di questo fenomeno nell’età avanzata sono molto discordanti; analisi del ritmo circadiano, tanto più importante nell’iperteso anziano rispetto al giovane, in quanto sembra aumentare con l’età la variabilità pressoria nelle 24 ore e la percentuale di pazienti con alterato ritmo circadiano della pressione arteriosa, che non presentano il fisiologico calo pressorio notturno; controllo dell’efficacia della terapia antipertensiva nelle 24 ore, soprattutto nei casi con elevata variabilità pressoria o cattivo controllo farmacologico, sia in termini di mancata riduzione dei valori pressori che di effetti collaterali del trattamento; ricerca di episodi di ipotensione, soprattutto ortostatica, post-prandiale e notturna, nell’anziano gli episodi ipotensivi prolungati, o meno protratti ma ripetuti nel tempo, possono provocare importanti danni a livello cerebrale (lacune cerebrali, soprattutto a livello dell’area periventricolare); ricerca di crisi ipertensive;  studio della variabilità pressoria, nettamente aumentata nel paziente anziano. Relativamente alle ultime quattro indicazioni, l’ABPM rappresenta una metodica indubbiamente utile proprio in questa fascia d’età. Inoltre, nonostante l’esiguità degli studi sull’ABPM in età avanzata, alcuni Autori hanno riportato, proprio negli anziani, una maggiore correlazione tra prognosi a lungo termine e valori pressori rilevabili al monitoraggio delle 24 ore, rispetto a quelli della singola rilevazione clinica.

TERAPIA NON FARMACOLOGICA

Il trattamento non farmacologico dell’IA si basa sull’adozione di misure comportamentali, quali la dieta, l’esercizio fisico moderato, l’eventuale cessazione dell’abitudine al fumo e la riduzione del consumo di alcolici. Deve essere istituito in tutti i pazienti, poiché efficace nel ridurre il rischio cardiovascolare sia direttamente, attraverso la riduzione di altri fattori di rischio, sia indirettamente attraverso la riduzione dei valori pressori. Anche nei casi in cui sia di per sé insufficiente alla normalizzazione dei valori pressori, il cambiamento dello stile di vita permette spesso di ridurre il numero ed il dosaggio dei farmaci antipertensivi necessari a questo scopo. L’applicazione di un trattamento non farmacologico richiede spesso un intervento multidisciplinare, con consulenza e monitoraggio da parte di figure professionali diverse (medico, infermiere, terapista della riabilitazione, dietista, ecc).

TERAPIA FARMACOLOGICA

La scelta di intraprendere un trattamento antipertensivo dipende, sia nel giovane che nell’anziano, da più variabili, che nell’insieme riflettono il profilo di rischio CV di ciascun soggetto. Esse sono: i valori di pressione arteriosa; la presenza di altri fattori di rischio; è importante sottolineare che l’età è considerata, secondo le più recenti linee-guida, uno dei maggiori fattori di rischio per malattie cardiovascolari, escludendo perciò gli anziani automaticamente dai gruppi a più basso rischio. Inoltre gli ultrasessantacinquenni tendono a distribuirsi nei gruppi a più elevato rischio CV anche per la presenza di comorbilità (diabete mellito, dislipidemia, ecc.); la presenza di danno d’organo, di eventi cardio- e cerebrovascolari, la cui incidenza aumenta con l’età. Già per questi motivi, pertanto, gli anziani sarebbero più frequentemente candidati alla terapia farmacologica, rispetto ai giovani ed agli adulti. A questo si aggiunga che i dati forniti da studi clinici controllati e randomizzati indicano concordemente un netto beneficio del trattamento antipertensivo, che per certi versi sopravanza anche quello osservato in età più giovanile. Tuttavia, i benefici del trattamento antipertensivo nell’anziano risultano ancor più chiaramente apprezzabili confrontando tra giovani e vecchi il numero di soggetti da trattare per prevenire un evento, in un dato periodo di tempo. Invariabilmente, per tutti gli outcome considerati, il numero di soggetti da trattare per evitare un evento cardiovascolare si riduce al crescere dell’età. Va inoltre sottolineato che il vantaggio della terapia è dimostrato sia per l’ipertensione sisto-diastolica che per la sistolica isolata. Solo per gli ultraottantenni il vantaggio del trattamento non è stato ancora definitivamente provato, poiché anche negli studi che hanno arruolato pazienti ultrasettantenni il numero dei soggetti al di sopra di 80 anni è comunque troppo esiguo per portare a conclusioni definitive. Anche l’obiettivo della terapia antipertensiva, negli anziani, si è andato modificando nel tempo, grazie alla pubblicazione di trial clinici che hanno dimostrato un maggior beneficio, senza la comparsa di effetti collaterali in eccesso rispetto ai giovani, con il raggiungimento di valori pressori via via inferiori. Inoltre, sebbene alcuni studi abbiano dimostrato, negli anziani, un aumento della mortalità per ictus, scompenso cardiaco, infarto miocardico per bassi valori pressori, è stato in seguito dimostrato che ciò è la conseguenza di uno stato di fragilità e della presenza di patologie associate a questa condizione clinica, per cui in realtà la correlazione tra valori pressori e mortalità CV è lineare. L’obiettivo della terapia antipertensiva nei pazienti anziani deve quindi essere il raggiungimento di valori di pressione arteriosa almeno inferiori a 140/90 mmHg e cioè una pressione «normale-alta», non differenziato perciò rispetto alla popolazione degli adulti. Negli anziani, la maggiore variabilità pressoria nelle 24 ore e la maggiore suscettibilità allo sviluppo di effetti collaterali da farmaci,dipendente anche dalla frequente presenza di politerapia che comporta spesso importanti interazioni farmacologiche, presuppone l’impiego di particolari attenzioni nella conduzione della terapia. Il tipo di trattamento deve essere deciso sulla base delle caratteristiche tipiche di ogni singolo soggetto, soprattutto negli anziani nei quali, per l’elevata comorbilità (diabete mellito, BPCO, cardiopatia ischemica, scompenso cardiaco, demenza, incontinenza urinaria etc.) la scelta del farmaco antipertensivo riveste un’importanza ancora superiore rispetto al giovane.

 

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