SINDROME METABOLICA E RISCHIO CARDIOVASCOLARE
Carmine Riccio Marco Malvezzi Caracciolo
U.O. Cardiologia Riabilitativa A.O. San Sebastiano Caserta
Negli ultimi decenni nei paesi industrializzati, tra cui
l’Italia, si è osservata una progressiva modificazione dello
stile di vita che ha determinato una esposizione maggiore ad
alcuni fattori di rischio cardiovascolare. In particolar modo si
sta verificando un costante incremento della percentuale dei
soggetti in soprappeso o francamente obesi, e questo dato è
presente sia nei maschi che nelle femmine. Si sta assistendo ad
una vera e propria epidemia con dati che sfiorano il 40% di
soggetti affetti da obesità della popolazione adulta negli Stati
Uniti. La situazione italiana per quanto meno drammatica è
comunque preoccupante: dai dati dell’Osservatorio Epidemiologico
Cardiovascolare (OEC) condotto dall’Istituto Superiore di Sanità
e dall’Associazione Nazionale Medici Cardiologi Ospedalieri (ANMCO)
nell’ambito del progetto CUORE si calcola che il 18% dei maschi
ed il 22% delle donne sia obeso.Questi dati confermano l’elevata
prevalenza dell’obesità nella popolazione generale, ma
l’elemento più preoccupante, come emerso dallo studio INTERHEART,
è la correlazione dell’obesità con l’incidenza di eventi
coronarici maggiori. Al di là di questo studio, negli ultimi
anni si erano succedute numerose evidenza sulla correlazione tra
obesità ed altri fattori di rischio cardiovascolare, come
diabete mellito, ipertensione arteriosa. La frequente
coesistenza di questi fattori nello stesso paziente ha indotto
il mondo scientifico ad ipotizzare l’esistenza di una vera e
propria sindrome, la cosiddetta sindrome metabolica, a cui l’OMS
e soprattutto l’ATP III hanno conferito dignità nosografia,
definendola come una costellazione di fattori tra cui l’obesità
rappresenta un perno centrale. Come si evince dalla tabella, ai
fini della diagnosi di SM, è stata preferita l’obesità di tipo
addominale, che meglio si correla alle alterazioni lipidiche e
glucidiche alla base dell’aumentato rischio cardiovascolare. Per
quanto concerne il successivo sviluppo di diabete nei soggetti
obesi, come si evince da alcuni studi, tra cui uno studio
cinese condotto su 2893 soggetti e dall’Health Professional
Follow up Study su 27270 soggetti, il semplice calcolo
dell’indice di massa corporea non ha mostrato correlazione o,
comunque, è risultato inferiore al valore predittivo
dell’obesità addominale, valutata con il semplice strumento
della misura della circonferenza vita.
Sono stati condotti quindi nuovi studi ad hoc, i cui risultati
sono ancora in corso, e rivalutati i dati di grandi trails degli
anni scorsi, per valutare l’impatto della sindrome matabolica
sul rischio cardiovascolare (fig.1)
Alla luce di questi dati si è sviluppato, in questi ultimi anni,
un acceso dibattito sul ruolo della SM come fattore di rischio
indipendente per la genesi delle malattie cardiovascolari. Per
quanto le premesse fossero suggestive, sta prevalendo una
posizione piuttosto critica che nasce dalla considerazione che
un’eventuale riduzione del rischio sia dovuta all’intervento sui
singoli fattori piuttosto che sull’intervento sulla SM. Ma altri
punti sono oggetto di discussione e in particolare
Tabella I
Criteri dell’ATP III per la diagnosi di Sindrome Metabolica
Fattori di rischio |
Livelli soglia |
Obesità addominale*
(Circonferenza vita†) |
Uomini >102 cm
Donne > 88 cm |
Trigliceridi |
³150
mg/Dl |
Colesterolo HDL |
Uomini <40 mg/dL
Donne <50 mg/dL |
PA |
³130/³85
mm Hg |
Glicemia a digiuno |
³110
mg/dL |

Figura 1
:
•
Non vi è
consenso generale sulla definizione, con visioni diverse tra il
mondo dei diabetologi e quello dei cardiologi
•
I criteri
individuati e i cut-off sono opinioni di esperti autorevoli ma
non sono al momento basati su evidenze certe
•
Il fattore
etnico incide in modo importante
•
Il livello di
rischio cardiovascolare associato alla “sindrome” non sembra
essere maggiore della somma dei livelli di rischio associati ai
singoli fattori
•
Ha senso
tenere il Diabete nella diagnosi di SM? L’aggiunta della SM
aggiunge qualcosa in termini di predizione del rischio
cardiovascolare ad un paziente affetto da diabete?
•
L’approccio
terapeutico alla sindrome non appare diverso da quello relativo
a ciascuno dei singoli fattori e questo, da un punto di vista
clinico, sembra essere il limite maggiore.
•
La scarsa
sensibilità dei criteri diagnostici di SM conferirebbe questa
sindrome a circa un quarto della popolazione adulta

In
considerazione di questi e di altri punti di discussione, lo
stesso Mike Mitka, considerato il papà della SM, pubblicò nel
2005 su JAMA una riflessione critica in cui poneva in dubbio il
ruolo della SM come fattore di rischio cardiovascolare
indipendente ed additivo.
Ma
sicuramente la SM ha avuto il grande merito di stimolare
l’attenzione del mondo cardiologico verso un quadro metabolico
di elevato rischio cardiovascolare dove, come detto in
precedenza, l’obesità riveste un ruolo centrale.
L’obesità
rappresenta il classico esempio di una condizione clinica
sfavorevole a cui concorrono fattori genetici e stili di vita
incongrui, quali un errato regime alimentare ed una eccessiva
sedentarietà. Studi recenti hanno dimostrato come nei soggetti
obesi presentino alcune alterazioni biochimiche e metaboliche,
come alti valori di Colesterolo LDL, bassi valori di HDL,
elevati valori di fibrinogenemia, elevati valori di proteina C
reattiva e di citochine proinfiammatorie. Tutte queste
condizioni favoriscono lo sviluppo di disfunzione endoteliale e
di insulinoresistenza, , a sua volta capace di generare molte
delle alterazioni metaboliche caratteristiche dell’obesità.
Quale che sia il primum movens nella genesi del quadro
metabolico che contraddistingue i pazienti obesi, il dato di
fatto è l’elevato profilo di rischio cardiovascolare che li
contraddistingue.
La gestione
clinica dell’obesità è stata finora finalizzata al controllo
dei fattori di rischio ad essa associati. Vi sono evidenze che
una riduzione del peso del 5-10% si associ ad una riduzione dei
valori pressori, glicemici, ad un miglioramento del quadro
lipidico con una riduzione del colesterolo totale ed in
particolare del C-LDL e dei trigliceridi, una riduzione dello
stato pro-infiammatorio e pro-emocoagulativo cronico. Inoltre
una riduzione progressiva e costante del peso corporeo si
associa d una riduzione della progressione del diabete mellito
già conclamato e ad una riduzione dei casi di nuova insorgenza.
Ancora oggetto di discussione è se la riduzione degli eventi
cardiovascolari che si associa con una riduzione del peso
corporeo sia dovuta in primis all’effetto sul peso corporeo, ma
su questa ipotesi mancano al momento evidenze, o piuttosto sia
dovuto in maniera indiretta agli effetti metabolici dapprima
citati.
Sta di fatto
che è ormai tempo affinché anche i cardiologi si muniscano del
classico metro da sarto per valutare la circonferenza vita dei
loro pazienti al pari di altri fattori di rischio, quali la
pressione arteriosa, i valori lipidici e glicemici e l’abitudine
al fumo. L’intervento dovrà essere rivolto in due direzioni:
-
un
approccio dietetico che indirizzi il paziente verso uno
stile di vita alimentare in cui siano privilegiati cibi a
basso contenuto di grassi saturi, colesterolo e zuccheri,
aumentando il consumo di verdure, pesce e cibi ricchi di
fibre
-
un
incremento dell’attività fisica aerobica, svolta in maniera
regolare e sistematica.
Ma per
ottenere successo e soprattutto per rendere questi interventi
sullo stile di vita duraturi e non episodici è indispensabile
sviluppare un alleanza terapeutica con il paziente utilizzando
le tecniche di counceling motivazionale che portino il paziente
a raggiungere l’aderenza ai suggerimenti del medico. Ad esempio,
quando si parlerà di alimentazione conviene partire dalla
conoscenza delle abitudini e dei gusti alimentari del paziente,
invitandolo come primo approccio a ridurre le porzioni dei
piatti. Per l’attività fisica i suggerimenti dovranno tenere
conto dell’età del paziente, della sua attività lavorativa, del
posto dove vive, per poterlo indirizzare verso un’attività a lui
gradita, ma soprattutto compatibile con la sua vita di tutti i
giorni.
Tra qualche
mese, dopo aver superato la fase di sperimentazione clinica,
saranno disponibili farmaci per l’obesità, appartenenti alla
famiglia degli inibitori degli enocannabinoidi, di cui il
rimonabant rappresenta il prototipo. Se mantengono le promesse
sperimentali e soprattutto se dimostreranno una buona
tollerabilità clinica, potranno costituire un valido supporto
per l’intervento sul paziente obeso, i cui caposaldi, comunque
dovranno essere sempre rappresentati dagli interventi sullo
stile di vita. Ma è ovvio che l’intervento farmacologico nel
paziente obeso è generalmente più complesso ed indirizzato alla
correzione dei fattori di rischio che ne caratterizzano il
quadro cardiometabolico, utilizzando statine, farmaci per il
controllo dei valori pressori ed ipoglicemizzanti
Conclusioni
Il dibattito
scientifico sulla SM ha stimolato il mondo cardiologico a
prendere coscienza del problema obesità, la cui dimensione ha
raggiunto dimensioni impressionati in tutto il mondo occidentale
ed anche in Italia.
L’intervento
sul singolo paziente è destinato a naufragare se non supportato
da una adeguata campagna di informazione che evidenzi i rischi
che l’obesità comporta in termini di mortalità e morbilità
cardiovascolare capace di sensibilizzare la popolazione ad
assumere stili di vita idonei a mantenere un adeguato peso
corporeo.
