Equità ed
appropriatezza dell’approccio al trattamento delle SCA tra
competenza clinica, farmaci ed interventistica
Antonio Mafrici
UTIC Dipartimento De Gasperis Ospedale Niguarda Milano
In un periodo caratterizzato dal
problema delle risorse destinate alla cura della salute, in
relazione all’aumentato grado di tecnologia (farmaci, protesi,
addestramento del personale), all’aumentata durata della vita
(anche in relazione alle nuove tecnologie in tutte le branche
della medicina), all’aspettativa di salute che permea la società
occidentale e quella italiana, il problema dell’equità e
dell’appropriatezza nelle cure dovrebbe diventare la cornice
entro la quale facciamo scorrere la nostra attività clinica
quotidiana.
In realtà così non è, e non solo
nel nostro Paese, dal momento che l’organizzazione della nostra
sanità, se da un lato non limita l’accesso alle cure primarie (e
non solo a quelle), dall’altra non sempre favorisce il corretto
utilizzo delle risorse disponibili. Senza entrare nel merito dei
problemi strutturali e organizzativi, vediamo di chiarire quello
che ognuno di noi può fare per lavorare, all’interno del proprio
ambiente di lavoro, per migliorare la prassi quotidiana alla
luce dei due concetti (equità e appropriatezza) che introducono
il discorso sul trattamento delle sindromi coronariche acute.
Innanzi tutto dobbiamo chiarire
cosa intendiamo per equità: nel nostro campo, non vuol dire che,
automaticamente, tutti i pazienti devono avere tutto il massimo
possibile in tutte le situazioni cliniche. Equità vuol dire
garantire a chi ne ha bisogno le cure appropriate evitando di
andare al di là dei reali bisogni che, implicando un uso
scorretto di risorse aggiuntive, sottraggono queste ultime dalla
disponibilità verso altri pazienti. Un esempio può essere,
semplicemente, il ricovero in terapia intensiva di un paziente
che non ne abbia indicazione, o l’accanimento terapeutico.
Appropriatezza indica invece
l’utilizzo di risorse di qualità e quantità adeguate al
raggiungimento del miglior risultato del paziente, valutato
nell’arco temporale del suo percorso di cura e inteso anche come
qualità di vita, e non limitato al successo immediato di una
terapia o intervento. Appropriatezza sottintende anche la
valutazione degli effetti indesiderati e delle complicazioni cui
può andare incontro il paziente per raggiungere il risultato
terapeutico prefissato. Nella valutazione del risultato da
raggiungere devono essere prese in considerazioni le variabili
generali e quelle strettamente individuali del paziente in
oggetto, dal momento che le comorbidità, la storia pregressa, la
capacità di una vita di relazione adeguata devono entrare nella
valutazione globale
Risulta evidente, quindi, che
equità e appropriatezza devono, in eguale misura, orientare
sempre i nostri criteri decisionali quando ci troviamo di fronte
ad un paziente, soprattutto se critico.
La gestione dei pazienti con
sindrome coronarica acuta è un classico esempio, per quanto
riguarda la cardiologia, di condizione clinica nella quale i due
concetti non sempre guidano le scelte dei medici.
Ad esempio, è a tutti ben noto
come alcune fasce di popolazione vengano escluse dai trattamenti
raccomandati, indipendentemente da considerazioni relative a
comorbidità, stato psichico, qualità della vita pregressa. Ed è
altresì noto come anche pazienti trattati con dispendio di
tecnologia non siano sottoposti ad un adeguato regime
terapeutico durante o dopo la fase acuta. Ed ancora, l’uso di
devices intracoronarici spesso non segue le indicazioni
previste, ma viene esteso al di là delle indicazioni, non solo
del costruttore, ma anche della letteratura disponibile.
Quali accorgimenti dobbiamo
perciò porre in essere per svolgere nel miglior modo possibile
il nostro ruolo di operatori della salute?
Ricordando sempre che alla radice
del nostro compito ci sono le cure e il prendersi cura del
paziente a noi affidato, e che noi gestiamo per conto della
società le risorse umane e strumentali a disposizione (anche se,
come è a tutti noto, l’attuale organizzazione e il modello
culturale portano a gestire le risorse in un’ottica molto più
ristretta, personale oppure aziendale), la base di una corretta
prassi medica sta nel continuo aggiornamento delle conoscenze,
nella continua ricerca della sicurezza del percorso di cura e
nell’applicare la medicina basata sulle evidenze che, nel nostro
caso, vuol dire ispirarsi alle linee guida suggerite dalle
società scientifiche.
Anche a questo proposito ci
sarebbero alcune precisazioni da fare sulle modalità di
compilazione delle linee guida. Senza entrare nel merito
specifico, dobbiamo ricordare come spesso nei trial
randomizzati, che costituiscono il punto di partenza per la
stesura delle raccomandazioni, alcuni sottogruppi di pazienti
sono poco rappresentati o del tutto esclusi, e che spesso
estendiamo alla totalità dei pazienti considerazioni e risultati
ottenuti in gruppi più selezionati e ristretti.
Esiste, inoltre, il problema del
continuo superamento delle linee guida stesse a seguito della
pubblicazione successiva di un nuovo studio che spinge i
professionisti ad adeguarsi alle nuove indicazioni senza,
spesso, analizzare in profondità il valore dei risultati
pubblicati e, quindi, la possibilità/necessità/ di trasferirli
nella pratica clinica con vantaggio e sicurezza per il paziente.
Ultima, ma non per importanza, la
considerazione sulla competenza clinica.
Il sentimento comune tra gli
specialisti, anche cardiologi, è che l’unica competenza da
acquisire sia quella relativa alle metodiche strumentali,
invasive e non, (intesa come abilità e pratica nell’eseguire
determinati esami e procedure) mentre la competenza clinica
media sia una dote comune a tutti e non vada, quindi,
eccessivamente coltivata.
Esistono così specifiche
raccomandazioni di quante coronarografia, angioplastiche
elettive, angioplastiche primarie debba eseguire annualmente un
operatore, quali volumi di attività debba avere un centro, ma
non esistono simili direttive per definire la competenza clinica
per la gestione delle diverse patologie al di fuori della
diagnostica e dell’interventistica. La società europea di
cardiologia attraverso un position paper del working grop on
acute cardiac care ha tracciato una via, e sulla stessa
lunghezza d’onda sono i corsi di clinical competence promossi
dall’ANMCO. Manca però una normativa ad hoc che ufficializzi
l’indispensabilità di una certificazione di competenza per la
gestione dell’acuzie cardiovascolare.
Il rischio di questa situazione è
di creare un percorso di cura sbilanciato, con specialisti di
settore supercompetenti e clinici meno agguerriti, capaci di
gestire il sempre più semplice ordinario, ma in difficoltà di
fronte a problematiche impegnative non risolvibili con un esame
o una procedura. Bisogna sottolineare che la competenza clinica
deve essere bagaglio culturale anche di chi esegue procedure
diagnostiche o terapeutiche invasive, in quanto l’uso
appropriato delle metodiche e dei devices contribuisce a
costruire un corretto, sicuro e d appropriato percorso di cure.
La competenza clinica è un
elemento indispensabile per un corretto approccio alle
condizioni di emergenza, come nel caso delle sindromi
coronariche acute, proprio per garantire equità ed
appropriatezza nella gestione di questi pazienti.
Un corretto percorso di cura,
infatti, inizia proprio dalla valutazione clinica del paziente:
la stratificazione del rischio, ottenuta attraverso elementi
semplici, clinici e strumentali, meglio se integrati in score di
rischio validati, consentono di identificare i soggetti a
rischio più elevato di complicanze o di prognosi sfavorevole.
Sulla base del grado di rischio va deciso il reparto più idoneo
per il ricovero e il tipo e l’intensità delle cure, scegliendo,
tra differenti opzioni terapeutiche (una strategia
conservativa, immediatamente invasiva o selettivamente invasiva)
e, sulla base della strategia, il regime terapeutico più
appropriato (doppia antiaggregazione, inibitori della
glicoproteina piastrinica 2b/3a, antitrombinici, fibrinolisi).
Un classico esempio è la
stratificazione prognostica delle SCA senza sopraslivellamento
del tratto ST: l’utilizzo delle raccomandazioni delle linee
guida assieme all’utilizzo di uno score di rischio consentono di
graduare l’intensità delle cure (intesa come strategia e come
uso di farmaci) per ottenere il miglior risultato. Questo modo
di agire coniuga, perciò, l’equità e l’appropriatezza sin dal
primo approccio al paziente, permettendo di allocare le risorse
più costose per i pazienti più gravi, e risparmiando, a quelli
meno critici, il rischio di trattamenti in eccesso (riduzione
delle complicanze e delle reazioni avverse).
La competenza clinica continua a
rendersi utile nel prosieguo del percorso di cura: la
stratificazione prognostica deve, infatti, proseguire
parallelamente all’avvio delle cure, per valutarne la risposta e
adeguarla agli obiettivi terapeutici, e continua anche dopo
l’esecuzione di una procedura invasiva, complicata o meno. La
conoscenza delle problematiche legate all’uso dei farmaci, al
tipo di procedura, alla sua conduzione e alle sue complicanze,
consente di prevedere una serie di verifiche e controlli che
ottimizzino il risultato, riducendo gli eventi e gli effetti
indesiderati. Un aspetto non sempre ben considerato è quello
dell’interazione tra chi gestisce il paziente e chi esegue
procedure: la rigida suddivisione dei ruoli porta ad un
“disinteresse” reciproco delle altrui problematiche decisionali,
ognuno degli attori ritagliandosi la propria parte di scena. In
realtà, la collaborazione stretta tra le due figure, quando
queste non coincidono nella stessa persona, è da perseguire in
tutti i casi: quando andare avanti, quando fermarsi, che tipo di
protesi endocoronarica utilizzare, come integrare la terapia
medica alla luce del quadro strumentale o delle complicanze
procedurali, sono alcuni esempi di interazione positiva per il
destino del paziente.
Un altro aspetto che dovrebbe
essere legato alla competenza clinica per garantire equità ed
appropriatezza, è quello che riguarda la volontà del paziente ed
il suo concetto di salute e di qualità della vita.
Nell’emergenza pura è certamente difficile poter valutare anche
questo aspetto, ma nelle condizioni non d’emergenza un piccolo
spazio dedicato ad approfondire il sentimento del paziente verso
la malattia costituisce un aiuto ulteriore al processo
decisionale.
Proseguendo nella disamina
dell’approccio terapeutico alle sindromi coronariche acute, è
esperienza comune a registri nazionali ed internazionali di
incomprensibile minor ricorso a strategie più efficaci nelle
categorie a maggior rischio. In particolare, gli anziani sono i
pazienti che più soffrono di questa incongruenza gestionale: in
tutte le osservazioni risulta infatti un minor ricorso nell’uso
di farmaci attivi, di procedure di ricanalizzazione meccanica o
farmacologica, di avvio a strategie invasive, pur costituendo
l’età avanzata un potente fattore prognostico avverso.
Una parziale spiegazione risiede
nel fatto che spesso i pazienti anziani si presentano in ritardo
e con sintomi atipici (qui la competenza clinica esportata nei
dipartimenti d’emergenza sarebbe obbligatoria), che hanno più
difficoltà ad accettare soluzioni che presentano un certo grado
di rischio (molti, di fronte ad un consenso da firmare hanno una
reazione di rifiuto, chiedono di poter consultare un congiunto,
chiedono di non essere sottoposti ad ulteriori rischi), anche
per difficoltosa comprensione di quello che sta loro accadendo.
La gestione degli anziani pone
due quesiti non chiariti dalla letteratura: la presenza di
comorbidità, che alterano l’usuale rapporto di rischio/beneficio
nell’uso di farmaci e/o di procedure diagnostico-terapeutiche e
l’intensità delle cure alla luce dell’aspettativa di vita e alla
qualità (soggettiva) della vita futura. La stratificazione
prognostica al di là dell’età e la valutazione dello stato
complessivo di salute possono condurre a decisioni corrette e
sicure per il paziente: una buona esperienza e il buon senso
devono sempre guidare le decisioni in presenza di situazioni
critiche negli anziani. Rimane da ribadire il concetto che l’età
non deve essere, come in realtà è, un fattore limitante
l’accesso alle cure avanzate, ma si deve considerare la
complessiva fragilità dell’anziano nel programmare gli
interventi più invasivi con un corretto calcolo del rapporto
rischio/beneficio.
Sempre a proposito delle
procedure diagnostico-terapeutiche invasive, un aspetto che
mette a dura prova il criterio di equità è il rilievo, anch’esso
internazionale, che il ricorso a questo tipo di approccio è
guidato dalla disponibilità dei mezzi più che dalla
stratificazione del rischio. Questo innesca un chiaro conflitto
nei confronti dell’equità di accesso alle cure avanzate, dal
momento che il soggetto che giunga in un ospedale non dotato di
laboratorio di emodinamica invasiva corre il serio rischio di
essere sottotrattato per mancanza di mezzi adeguati e,
viceversa, un soggetto a basso rischio può venire esposto ai
rischi iatrogeni di procedure invasive, eccessive rispetto al
suo profilo di rischio.
La diffusione del sistema 118 su
scala nazionale e l’azione delle società scientifiche, ANMCO in
prima fila, nel diffondere la cultura dell’organizzazione in
rete delle strutture cardiologiche, come proposto nei documenti
Struttura ed organizzazione funzionale della cardiologia e nel
documento di consenso per la gestione dell’infarto miocardico
acuto, costituiscono una risposta al problema. Sarà necessario
valutare con un’apposita survey, tipo BLITZ, l’efficacia di
queste strategie organizzative e degli sforzi di implementazione
e diffusione sul territorio nazionale. C’è da dire che in alcune
realtà geografiche si assiste al proliferare di strutture
diagnostico-terapeutiche invasive, anche qui generando uno
spreco di risorse, col rischio di in equità ed inappropriatezza
per eccesso.
Conclusioni
Il percorso di cura delle
sindromi coronariche acute è ormai ben delineato, sia per quanto
riguarda i casi con che quelli senza sopraslivellamento del
tratto ST. Le linee guida hanno consolidato i cardini del
trattamento farmacologico e meccanico, indicando i percorsi
migliori per ridurre il rischio del paziente e i capisaldi degli
obiettivi terapeutici. Mantenendosi all’interno di queste
indicazioni e utilizzando in maniera estensiva la
stratificazione continua del rischio e la valutazione del
rapporto rischio/beneficio nei sottogruppi di soggetti che
passano dalla nostra osservazione, possiamo operare nel miglior
interesse del paziente. In linea di massima, le indicazioni
della letteratura, se applicate in maniera estensiva e
correttamente interpretate, ci consentono di osservare e
rispettare i concetti di equità ed appropriatezza, garantendo il
miglior percorso di cure ai pazienti con sindromi coronariche
acute. Contemporaneamente, un’attenzione esagerata al problema
delle risorse e spinte individuali (che possono trovare
spiegazione in curiosità di tipo scientifico ma anche in
pregiudizi o in scarsa preparazione) possono farci facilmente
deviare dal giusto percorso. L’uso di device in maniera
impropria (pensiamo agli stent a rilascio di farmaco usati
nell’infarto acuto o in pazienti con potenziali problemi
emorragici o con scarsa compliance a terapie complesse per lungo
tempo), l’uso di farmaci antiaggreganti e anticoagulanti anche
in condizioni in cui il beneficio è dubbio, o in cui le
copatologie impongono una cautela nel determinare il dosaggio e
la somministrazione, la mancata somministrazione dei trattamenti
raccomandati possono inficiare il risultato globale ricadendo
nell’inappropriatezza, con consumo di risorse incongruo.
In epoca di isorisorse o risorse
limitate e definite, il ricorso all’appropriatezza clinica,
indipendentemente dalla disponibilità di mezzi, deve costituire
il metodo di lavoro obbligatorio per i cardiologi impegnati
nell’attività assistenziale. Anche la responsabilizzazione del
medico nella gestione delle risorse deve essere fatta alla luce
dei concetti di appropriatezza ed equità, quest’ultima ancora
oggi troppo poco considerata: anche le società scientifiche
dovranno contribuire a promuovere questa nuova cultura.
