La terapia DELLA  Sindrome Metabolica

tra vecchi e nuovi farmaci

 

 Mario Infante

 

U. O. di Medicina - Ospedale G. Da Procida di Salerno

 

La Sindrome Metabolica(SM), conosciuta anche come sindrome X o sindrome da insulinoresistenza per sottolinearne il momento patogenetico più importante, è una entità clinica che comprende una costellazione

(cluster) di vecchi e nuovi fattori di rischio cardiovascolare(CV), una sorta di crogiuolo nel quale, con un meccanismo perverso, obesità viscerale, ipertensione, dislipidemia, diabete si mescolano con PCR, PAI-1, IL-6, TFN-alfa, citochine ed altre molecole per aumentare il rischio CV dei pazienti che ne sono affetti.

Questo spiega perché il dibattito scientifico sulla SM è attualmente molto acceso e coinvolge tutti i medici(generalisti, cardiologi, metabolisti) interessati alla prevenzione e al trattamento delle malattie CV che, purtroppo, sono ancora la prima causa di morte nel mondo sviluppato. La necessità di fare chiarezza sulla diagnosi e sul trattamento della SM nasce dall’esigenza di fornire uno strumento che possa essere di ausilio nell’interpretazione critica della notevole mole di dati riguardanti questo argomento, anche alla luce delle recenti indicazioni fornite dall’American Diabetes Association(ADA)  e dall’European Association for the Study of Diabetes(EASD)(1) da una parte e dall’American Hearth Association dall’altra(2). Queste importanti società scientifiche hanno posto una serie di interrogativi sulla patogenesi della sindrome, sull’importanza clinica dei vari fattori di rischio e sul loro trattamento. Dal dibattito emerge che sono ancora numerosi gli aspetti da chiarire e che sono necessari ulteriori studi per rispondere ai numerosi interrogativi sollevati. Su una cosa però sono tutti d’accordo: siccome oggi è possibile, sulla base di semplici criteri clinici (ATP III o IDF), individuare  i pazienti affetti dalla sindrome, per evitare le sue temibili complicanze CV è necessario adottare tutte le misure terapeutiche possibili. E’ per questo motivo che l’obesità, il diabete mellito, l’ipertensione e la dislipidemia vanno trattati più aggressivamente, perchè sono dei pericolosi compagni di merenda che potrebbero mettere in pericolo la vita stessa dei pazienti. Questo il più delle volte significa prescrivere più farmaci (aceinibitori, sartani, antiaggreganti, antidiabetici orali, statine, omega-3 etc.) e si sa che più se ne prescrivono più si riduce la compliance del paziente. Tuttavia, di fronte a manifestazioni conclamate della sindrome metabolica, la politerapia è l’unico strumento idoneo a ridurre il rischio CV. Piaccia o no. Il problema, allora, va affrontato in termini diversi curando le cause della SM e non i suoi effetti deleteri. In un’ottica di medicina preventiva, o se volete di medicina anticipativa degli eventi CV, l’imperativo categorico per tutti i medici, ma anche per tutti coloro che a vario titolo si interessano della salute pubblica, dovrà essere quello di adottare misure idonee a prevenire e curare l’obesità, in particolare l’obesità addominale.  

Ma perché dobbiamo preoccuparci proprio dell’obesità addominale ?

Perché il grasso sottocutaneo addominale correla bene con la quantità di grasso  viscerale, nell’ambito del quale si sviluppano tutti quei meccanismi (insulinoresistenza-iperinsulinemia, mediatori della flogosi, sostanze che favoriscono i fenomeni trombotici, etc.) da più parti sospettati di essere i responsabili della SM. Ne deriva che se un paziente ha molto grasso addominale avrà sicuramente molto grasso viscerale e, dunque, più rischio CV. Ma c’è un’altra cosa sorprendente.Il tessuto adiposo, un tempo ritenuto inerte grasso di deposito, è oggi universalmente considerato un organo di grande importanza, perchè produce sia sostanze chiamate in causa nella patogenesi delle malattie cardiovascolari (PCR, TFN-alfa, Interleuchine, PAI-1, etc.) che virtuose citochine (adiponectina) con funzioni protettive sul sistema CV e, addirittura, capacità di prevenire l’insorgenza del diabete mellito di tipo 2, che della sindrome metabolica è l’espressione clinica più importante.Il tessuto adiposo è dunque un vero organo endocrino, forse il più importante di tutti. Chi lo avrebbe mai detto! 

Ecco allora che, come suggerito dalla IDF e da altre importanti Società Scientifiche, misurare correttamente la circonferenza addominale dei pazienti è la prima cosa da fare per capire chi è a rischio e trattarlo. D’altra parte è noto, da almeno un decennio(3), che l’obesità addominale aumenta il rischio cardiovascolare indipendentemente dal BMI. Di recente anche lo studio Interheart(4) ha dimostrato che il rischio di infarto del miocardio(IMA) correla più con il rapporto vita-fianchi che con il BMI.Ridurre il peso corporeo diventa, quindi, una misura terapeutica fondamentale in questi pazienti. Ma di quanto bisogna ridurlo? La cosa migliore sarebbe raggiungere il peso ideale, ma per la maggior parte dei pazienti questo è un obiettivo irraggiungibile. 

Fortunatamente, però, basta ridurre il peso corporeo di almeno il 10% per ridurre del 30% il grasso viscerale con benefici enormi in termini di riduzione del rischio cardiovascolare e di mortalità in generale..

Infatti un calo ponderale del 10-15% nei soggetti obesi riduce la mortalità per tutte le cause del 20%, la mortalità per il diabete e le sue complicanze del 30-40% e la mortalità associata al cancro addirittura del 40-50%.

Come intervenire?  Innanzitutto con radicali modifiche dello stile di vita , inducendo i pazienti ad incrementare l’esercizio fisico(passeggiare per almeno un’ora al giorno) e ad osservare una dieta ipocalorica con alimenti a basso indice glicemico, grassi polinsaturi e ricca di fibre. La sola dieta, però, il più delle volte si rivela poco efficace ed espone il paziente a perdite cicliche del peso (Weight Loss Cycling Syndrome) che sono, addirittura, più rischiose. Quando le modifiche dello stile di vita non sono sufficienti a ridurre il peso bisognerà, necessariamente, prescrivere i farmaci.  

A chi bisogna dare i farmaci? A tutti coloro che hanno un BMI > 30 o superiore a 27 se, oltre all’eccesso ponderale, sono presenti co-morbidità (diabete, ipertensione, dislipidemia etc.).

Quali farmaci prescrivere? I farmaci attualmente disponibili in Italia sono la sibutramina, l’orlistat e gli insulinosensibilizzanti (metformina, glitazoni), ma presto saranno disponibili nuove molecole che hanno destato grande interesse nella comunità scientifica internazionale

(exenatide, liraglutide, rimonabant).

Sibutramina

La sibutramina, una molecola che inibisce la ricaptazione (reuptake) della serotonina e della noradrenalina, esplica la sua attività attraverso due metaboliti attivi che sono in grado di influire sia sull’assunzione di cibo, potenziando il processo fisiologico della sazietà, che il consumo di energia. Oltre che ridurre il peso corporeo la sibutramina abbassa i trigliceridi e, nel diabetico obeso, migliora il controllo glicometabolico.  

E’ controindicata negli ipertesi mal controllati perché aumenta la frequenza cardiaca.

Orlistat

L’orlistat, inibendo selettivamente la lipasi pancreatica, riduce del 30% l’assorbimento dei trigliceridi , con una sensibile diminuizione dei livelli plasmatici degli acidi grassi liberi(FFA) che, nel complesso scenario della sindrome metabolica, hanno un ruolo di primi attori. L’orlistat, oltre a ridurre il peso corporeo, riduce anche la colesterolemia totale e le LDL. Effetti collaterali sono la steatorrea e, per terapie a lungo termine, uno scarso assorbimento delle vitamine liposolubili. Del tutto recentemente è stata segnalata una maggiore incidenza di neoplasie intestinali.

Metformina

La metformina viene utilizzata nella pratica clinica da oltre 30 anni come farmaco ipoglicemizzante ma possiede caratteristiche che possono renderla molto utile nella sindrome metabolica. La metformina migliora la sensibilità dei tessuti periferici all’insulina aumentando il numero dei trasportatori di glucosio(GLUT-4) ed aumentando l’ossidazione degli acidi grassi liberi(FFA). La sua azione più importante è, però, la netta riduzione della produzione epatica (outpout) di glucosio ed è questo un effetto molto utile del farmaco perchè, in condizioni di insulinoresistenza o di franco diabete, il fegato diventa una fabbrica di zuccheri. Gli effetti collaterali più importanti(10% dei casi) sono quelli a livello GI (epigastralgia, dolori addominali, diarrea) che, in genere, recedono nel corso della terapia.

La metformina è controindicata nelle gravi malattie cardiopolmonari, epatiche e renali e in tutte le condizioni che determinano ipossiemia, perché potrebbe favorire l’insorgenza di acidosi lattica, una complicanza quasi sempre fatale.

Tiazolindinedioni

Questi farmaci, anche noti come glitazoni, sono in assoluto gli insulinosensibilizzanti più efficaci perchè, agendo su particolari recettori nucleari (PPAR-gamma), aumentano notevolmente il numero dei trasportatori del glucosio (GLUT-4). Questo, in soldoni, significa abbassamento dei valori glicemici e miglioramento di altri parametri alterati nella sindrome metabolica. Tuttavia il loro uso è, per ora, limitato alla terapia del diabete mellito. Sono farmaci controindicati nei cardiopatici perché provocano edema ed aumento di peso. Di recente l’FDA ha messo sotto osservazione il rosiglitazone perché sospettato di aumentare l’incidenza di infarto del miocardio.

Incretine

Queste molecole (exenatide e liraglutide) sono nuovi farmaci per la cura del diabete mellito. L’exenatide, in particolare, si è rivelata molto utile nel migliorare la funzione delle beta cellule pancreatiche oltre che a ridurre il peso corporeo. L’exenatide, scoperta studiando il metabolismo della lucertola Gila Monster, è la prima molecola di una nuova classe di farmaci detti incretino-mimetici perché hanno un’azione simile al GLP-1, un peptide secreto dall’intestino tenue dopo carico orale di glucosio ma non dopo carico e.v. Il GLP-1 è in grado di stimolare la secrezione di insulina e di bloccare l’azione iperglicemizzante del glucagone. Questi effetti, associati ad un rallentato assorbimento intestinale di glucosio, potrebbero rendere molto interessante questa molecola nella pratica clinica. La somministrazione per via iniettiva e la breve durata di azione delle incretine ne precludono, almeno per ora, l’uso come farmaci antiobesità.

Rimonabant

Il rimonabant, un bloccante dei recettori CB1 degli endocannabinoidi, è il capostipite di una nuova classe di farmaci che promette di essere molto efficace nel ridurre il peso corporeo. Gli endocannabinoidi endogeni sono derivati fosfolipidici delle membrane cellulari, dalle quali vengono prodotti a domanda. E siccome le membrane cellulari sono ubiquitarie, gli endocannabinoidi possono essere prodotti da tutte le cellule umane. I loro recettori (CB1) sono, però, diversamente rappresentati nei vari organi ed apparati. Se ne trovano molti  nel SNC (dove sono coinvolti nella regolazione dell’appetito) e in quantità inferiori a livello periferico(tessuto adiposo, fegato, muscolo e tratto GI). Dal momento che, stimolando i recettori degli endocannabinoidi (THC, principio attivo della marijuana), aumenta il senso di fame il rimonabant, antagonizzandoli, lo riduce. . Questo è perfettamente vero, ma la grande aspettativa del farmaco deriva dalla sua capacità di migliorare le manifestazioni cliniche della sindrome metabolica e dunque di ridurre il rischio CV di questi pazienti. Basti pensare che il blocco dei recettori CB1 a livello del tessuto adiposo fa aumentare in maniera significativa i livelli di adiponectina (5), la citochina prodotta dall’adipocita sulla quale si punta molto come arma di prevenzione delle malattie CV. Si spera, dunque, che quando il rimonabant sarà in commercio anche in Italia non venga utilizzato come un semplice dimagrante. E’ controindicato nei pazienti psichiatrici anche latenti perché aumenterebbe la spinta al suicidio.

 

BIBLIOGRAFIA

 

1)Kahn R, Buse J, Ferranini E,Stern M. The metabolic sindrome: time for

   a critical appraisa. Joint statement from the ADA and EASD. Diabetes

   care, 2005; 28: 2289-2304.

2)Grundy S, Cleeman Jl, Daniel SR et al. An American Heart

    Association/National Heart, Lung and Blood Institute Scientific

    Statement.Circulation 2005; 112:2735-52.

3)Rexrode Km et al. JAMA 1998; 280: 1843-48.

4)Lancet 2005; 366:1440-45.

5)Bensaid M et al. 2003.

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