L’INFERMIERE IN CARDIOLOGIA:

DAL RUOLO ALLA COMPETENZA

 

Claudio Coletta

 

UOC Cardiologia, PO Santo Spirito, ASL RME – ROMA

 

      L’evoluzione della professione infermieristica è stata talmente rapida negli anni che stiamo vivendo da rendere difficile capire a pieno quali potranno esserne gli sviluppi, non solo a lungo, ma anche a medio e breve termine. Ciò è particolarmente vero in cardiologia, per  il profondo cambiamento che tale disciplina sta vivendo sotto i nostri occhi. Ciò si determina in relazione a tre fattori fondamentali:

a)      L’evoluzione dell’approccio farmacologico, sempre più complesso, mirato ed efficace;

b)      L’evoluzione tecnologica, iniziata alla fine degli anni ’70 con l’avvento dell’ecocardiografia e della cardiologia nucleare, sviluppata in molteplici settori grazie anche alla nuova tecnologia digitale;

c)      L’avvento dell’approccio interventistico in tutti i suoi molteplici aspetti, dall’angioplastica coronarica con l’applicazione degli stents, alle procedure di ablazione in aritmologia e di correzione di difetti congeniti con devices sempre più sofisticati.

E’ chiaro come tale evoluzione, la cui velocità attualmente sembra seguire più un andamento esponenziale che lineare, metta in crisi numerose regole precostituite e, soprattutto, coinvolga direttamente la professione medica ed infermieristica richiedendo una capacità di adattamento e un’apertura mentale non comuni allo stato attuale. Soprattutto agli infermieri, a mio modo di vedere, è richiesto di saper modificare le regole precostituite della propria professione, mettendo a volte in discussione anche ciò che viene tradizionalmente insegnato loro nei nuovi corsi universitari triennali. E’ sul campo, dunque, che il nuovo infermiere di cardiologia dovrà necessariamente formarsi, sia che operi in un reparto di terapia intensiva, sia che venga destinato ad un laboratorio di emodinamica o di diagnostica ad ultrasuoni, sia che venga dedicato alla valutazione funzionale o alla riabilitazione del cardiopatico cronico. Più spesso sarà in tutte queste situazioni, e in altre ancora, come la gestione dello scompenso in ambito ospedaliero e territoriale, che dovrà mettere alla prova le proprie capacità professionali, essendo richiesta per motivi di efficienza ed efficacia organizzativa la possibilità di essere dedicato all’una o all’altra linea di attività in base alle esigenze della struttura di appartenenza.

 Ecco dunque che sarà richiesta al nuovo infermiere di cardiologia una competenza  ampia e completa in molteplici settori applicativi, probabilmente con aspetti di ancora maggiore schizofrenia professionale di quelli, paradossalmente, richiesti  agli stessi sanitari specialisti in cardiologia, generalmente dedicati a due linee di attività, una tradizionalmente clinica (con espletamento di guardie e attività in corsia o ambulatoriale) e l’altra strumentale/procedurale, ma generalmente unica nel periodo medio-breve.

Mancano tuttavia strutture formative accademiche (penso alle università) che possano rispondere a questa domanda di formazione multiforme ed in costante trasformazione. Se ciò è vero a livello medico, diventa drammaticamente reale per quanto riguarda la formazione infermieristica, attualmente basata esclusivamente su master annuali formativi o su iniziative didattiche delle società di settore, mediche o infermieristiche.  A questo proposito l’ANMCO organizza, nell’ambito del programma formativo annuale e durante il congresso nazionale, corsi di formazione di durata medio-breve che tuttavia non possono ( e non devono, a mio avviso) sostituire i processi didattici istituzionali demandati alle strutture universitarie e alle istituzioni pubbliche ad esse collegate (ospedali, centri di ricerca e cura, strutture territoriali).                      Allo stato attuale, i pochi corsi di laurea specialistica biennale a numero chiuso esistenti sono dedicati alla formazione del management infermieristico, e non possono coprire il vuoto formativo che si sta determinando in maniera sempre più evidente. D’altra parte , lo sparuto numero di Tecnici di Cardiologia che vengono diplomati ogni anno presso i relativi corsi, esistenti peraltro in ben poche università italiane, non potranno certo soddisfare la domanda di professionalità specifica esistente presso le nostre strutture di diagnostica e di assistenza clinica. Ecco allora che sempre più spesso viene richiesto ai nostri infermieri di assumere un ruolo tecnico, oltre che clinico, in assenza peraltro di formazione specifica e istituzionalmente riconosciuta, spendibile dunque sia in termini di carriera che di incentivi economici, del tutto volontaristico e privo, a monte,  di un processo formativo comune e condiviso fra le strutture.                                                Ma non è solo questo l’aspetto critico da considerare, nella situazione attuale.  Altrettanto rapidamente sta cambiando la richiesta di competenza clinico-infermieristica  in senso tradizionale, coinvolgente l’assistenza vera e propria al paziente, la cura del corpo, l’approccio terapeutico e assistenziale in tutti i suoi aspetti. L’adozione di protocolli di terapia farmacologica condivisi, particolarmente in ambito di unità intensiva, comporta da parte dell’infermiere la conoscenza approfondita delle proprietà farmacocinetiche e farmacodinamiche di ciascuna classe di farmaci, delle eventuali controindicazioni e dei  possibili effetti collaterali indesiderati. La terapia insulinica ed eparinica in UTIC, la titolazione del beta-bloccante in ambito scompenso, la terapia anticoagulante orale, la gestione della dobutamina e del dipiridamolo in ecocardiografia da stress e in cardiologia nucleare, sono solo alcuni degli esempi di gestione dei farmaci sotto la diretta responsabilità infermieristica, sia pure alla presenza attiva del sanitario responsabile. Anche in quest’ambito mancano, a mio avviso, strutture formative adeguate e riconosciute, che consentano una crescita condivisa a livello nazionale della qualità assistenziale e, soprattutto, garantiscano il singolo operatore infermieristico nella sua attività quotidiana, mettendolo al riparo dalle insidie medico-legali sempre più rilevanti e sempre meno occasionali.

Ecco dunque come, a mio avviso, si stia determinando con sempre maggiore forza la necessità di un percorso formativo universitario più articolato e differenziato che, senza nulla togliere alla professionalità dell’infermiere uscito dal corso di laurea breve triennale e pronto alla professione in tutti i suoi aspetti, aggiunga opzioni formative ulteriori nell’ambito di corsi di laurea specialistica biennale oltre che di master annuali finalizzati ad aspetti più specifici. Penso ad una laurea specialistica biennale differenziata, non solo limitata al management,  ma estesa all’assistenza in terapia intensiva, alla ricerca infermieristica, alla formazione dell’infermiere-tecnico  di cardiologia, eventualmente utilizzando, in quest’ultimo caso, parte del percorso formativo già esistente per la laurea breve di Tecnico di fisiopatologia cardiovascolare.             In quest’ambito credo che l’ANMCO, per la sua struttura societaria e per i suoi rapporti privilegiati con il decisore pubblico debba farsi carico di una proposta definitiva e praticamente realizzabile, atta a modificare il percorso formativo dell’infermiere di cardiologia, differenziandolo, e rendendolo idoneo a rispondere alle esigenze assistenziali sempre più complesse, articolate e specializzate della moderna cardiologia clinica.