L’ANGIOPLASTICA DI SALVATAGGIO
GianniIgnazio Carbone
U.O. Utic-Cardiologia Ospedale San Giovanni Bosco Napoli
L’angioplastica di salvataggio (rescue PCI) è attualmente la
migliore terapia per l’infarto miocardico acuto (IMA) che non ha
risposto alla terapia trombolitica come indicato dalle linee
guida (1). La fibrinolisi rimane a tutt’oggi la terapia più
utilizzata per la riperfusione coronarica per la sua efficacia
(nelle prime due ore sovrapponibile all’angioplastica primaria)
e la facile esecuzione sul territorio, ma quest’ultima deve
essere attuata nelle prime ore dall’insorgenza del dolore
toracico continuo associato a sopraslivellamento del tratto ST (STEMI).
Infatti, la percentuale di pazienti che rispondono al
trombolitico è alta nelle prime tre ore, ma si riduce
percentualmente fino a diventare bassa dopo che sono trascorse
sei ore dall’inizio del sintomo.
Valutazione della riperfusione
La valutazione anamnestica e clinica deve far emergere le
variabili che più frequentemente si associano al fallimento
della trombolisi. Tali fattori sono l’età avanzata, il sesso
femminile, pregresso BPAC, il diabete, bassa F.E., infarto
anteriore, classe Killip > 1 e dolore continuo insorto da più di
sei ore.
Dopo l’esecuzione della trombolisi bisogna valutare lo stato
clinico del paziente, l’elettrocardiogramma ed i marcatori di
necrosi, in particolare la mioglobina (2-3). Attraverso la
valutazione di tali parametri, dopo 60 minuti, bisogna stabilire
se vi è stata riperfusione del territorio miocardico interessato
dall’infarto; dopo tale valutazione, se è presente ancora dolore
anginoso e c’è il sospetto di mancata riperfusione, o se vi è
instabilità emodinamica o shock cardiogeno c’è l’indicazione
allo studio coronarografico d’urgenza, seguito eventualmente
dall’angioplastica di salvataggio (rescue PCI) dell’arteria
responsabile dell’IMA.
Rescue PCI
L’angioplastica di salvataggio può consentire di ripristinare il
flusso ematico nel territorio ischemico-infartuale, riducendone
l’area ed evitando così le possibili complicanze meccaniche ed
in molti casi il rimodellamento sfavorevole. L’esecuzione della
rescue PCI, tuttavia, comporta un rischio emorragico aggiuntivo,
dal momento che, di solito, la coronarografia viene eseguita per
via femorale, mentre sono in circolo farmaci antiaggreganti,
anticoagulanti ed il trombolitico. Tale particolare rischio, in
aggiunta a problemi logistici ed organizzativi, da sempre ha
scoraggiato i cardiologi clinici ed interventisti all’esecuzione
di tale procedura.
Infatti, mentre diversi studi hanno sottolineato il maggiore
rischio emorragico e tromboembolico del paziente sottoposto ad
angioplastica di salvataggio (4), altri evidenziano il miglior
outcome (minori episodi di scompenso e di mortalità) del
paziente sottoposto a rescue PCI rispetto al gruppo di
controllo, cioè pazienti con infarto miocardio acuto (STEMI) non
responders alla trombolisi che non sono stati arruolati per
l’angioplastica di salvataggio (5-6). Infatti, da una metanalisi
di Patel et al. emerge che il paziente sottoposto ad
angioplastica di salvataggio presenta un rischio di mortalità
inferiore del 36% ed un rischio di scompenso cardiaco inferiore
al 28% rispetto ai pazienti trattati con terapia conservativa,
mentre la stessa metanalisi evidenzia come vi sia un rischio
emorragico maggiore (7).
Un recente trial, Assent 4, ha arruolato pazienti con STEMI
divisi in due bracci. Ad un gruppo di soggetti è stata
somministrata la terapia trombolitica a cui è seguita
l’angioplastica coronarica, a prescindere dalla presenza dei
criteri di riperfusione. Ad un altro gruppo è stata eseguita
l’angioplastica primaria senza che fosse stato somministrato il
fibrinolitico. Tale trial è stato poi sospeso, per eccesso di
sanguinamenti nel gruppo trombolisi più angioplastica.
Questi risultati hanno evidenziato l’opportunità di non
ricorrere indistintamente alla terapia percutanea nelle prime
ore dopo l’esecuzione della trombolisi (8). D’altronde, vi sono
evidenze scientifiche che in pazienti con STEMI l’angioplastica
coronarica (eseguita tra le 3 e le 24 h) migliora la funzione
ventricolare a distanza rispetto ai pazienti in cui non è stata
eseguita subito dopo l’IMA (9). Un altro studio pubblicato su
NEJM ha evidenziato che nei pazienti con STEMI che non hanno
risposto alla trombolisi è meglio eseguire la PCI rescue che
ripetere il fibrinolitico, sia per il miglior outcome (riduzione
della mortalità, reinfarto), che per il minor numero di
complicanze emorragiche (10). Una recente metanalisi di
confronto tra la Rescue PCI e la ripetizione della trombolisi ha
evidenziato come l’angioplastica di salvataggio riduce i casi di
scompenso cardiaco e di reinfarto rispetto alla terapia
conservativa, ma aumenta gli episodi di stroke e di
sanguinamento minore rispetto alla terapia conservativa, mentre
la ripetizione della trombolisi non riduce gli episodi di
scompenso o di reinfarto, mentre aumenta i sanguinamenti minori
rispetto alla terapia conservativa (11).
L’esecuzione dell’angioplastica rescue, così come per
l’angioplastica primaria, presuppone da parte dell’operatore una
conoscenza approfondita dei concetti di fisiopatologia della
coagulazione e dell’emostasi per poter dosare anticoagulanti ed
inibitori delle glicoproteine in un paziente già scoagulato;
degli algoritmi per l’Advanced Cardiac Life Support (ACLS) ed
una buona conoscenza della parte tecnica (cateteri, guide,
palloni, stents, filtri di aspirazioni di trombo,
contropulsatore e sistemi di emostasi vascolare) (12).
In effetti, la problematica emorragica è nella maggior parte dei
casi legata all’accesso vascolare, per cui in tale contesto
dovrebbe essere preferibile l’approccio radiale. Tale approccio,
certamente più confortevole per il paziente e meno complicato da
ematoma, può richiedere talvolta più tempo per l’esecuzione
dell’esame e può essere limitante per i casi in cui vi sia
bisogno del contropulsatore aortico o di cateteri di calibro
superiore al 6F (13). Il rischio emorragico legato
all’angioplastica rescue oltre che dall’accesso radiale è stato
ridotto anche dall’utilizzo di sistemi di chiusura dell’accesso
femorale come l’Angioseal ed il Perclose (14).
Discussione
La valutazione clinica è fondamentale nel caso in cui si decide
di sottoporre il paziente all’angioplastica di salvataggio. E’
infatti necessario considerare l’età del paziente, la sua storia
ischemico-infartuale, le eventuali fonti di sanguinamento dopo
la trombolisi, l’entità del territorio a valle della coronaria
coinvolta dal processo trombotico acuto, il coinvolgimento
aritmico ed emodinamico, la funzionalità respiratoria e renale.
L’angioplastica rescue certamente deve essere eseguita da
operatori esperti, in centri in cui tutto il personale (medico,
infermieristico e tecnico) sia dotato di buona esperienza, con
notevole padronanza degli accessi vascolari e con l’abitudine ad
eseguire le angioplastiche primarie.
L’altro aspetto da considerare è la rete tra gli ospedali con
servizio di emodinamica (centri hub) ed ospedali senza
l’emodinamica (centri spoke). Molto spesso, i P.O. con la
possibilità di tale servizio, dedicato a questo tipo di urgenze,
non possono offrire un posto letto in unità coronarica, per cui
si è costretti a ricorrere ad altri centri hub sempre più
distanti.
Caso Clinico
Si illustra il caso clinico di un uomo (P.V.) di 50 anni
fumatore, sovrappeso e dislipidemico con dolore precordiale
tipico da circa 4 ore. L’esame clinico evidenzia: paziente con
forte dolore precordiale, sudato, pallido. L’elettrrocardiogramma
all’arrivo evidenzia ritmo sinusale a f.c. di 80 bpm con
evidenza di sopraslivellamento dl tratto ST in D2, D3, aVF e V6
di circa 3 mm. Si somministrano Flectadol 250 mg e.v., Eparina
bolo (5000 U.I.) ed infusione 25.0000 U.I. a 21 ml/h, Metalyse
8000 U.I, Seloken 1 fiala e.v. e Venitrin in infusione. Ad 1 ora
dalla trombolisi il paziente è ancora fortemente sintomatico,
persiste la sudorazione ed il pallore, P.A. 100/60 , f.c. 60 bpm,
non segni di stasi al torace, non segni di sanguinamento in
atto; l’elettrocardiogramma evidenzia persistenza del
sopraslivellamento nelle sedi interessate dall’onda di lesione.
Si decide di eseguire la coronarografia d’urgenza. Dalla
coronarografia si rileva un’ostruzione trombotica del ramo
circonflesso nel tratto prossimale del vaso ed una stenosi
severa al tratto medio della coronaria destra. Si somministra
Aggrastat bolo 40 ml in 30 min seguiti da infusione a 10 ml x 24
h; si esegue angioplastica di salvataggio con impianto di due
bare metal stent: uno nel ramo circonflesso con successiva
post-dilatazione intrastent ed un altro nella coronaria destra
al tratto medio. Ottimo risultato angiografico su ambo i vasi.
Il paziente ha avuto un decorso clinico regolare con dimissione
in settima giornata con terapia ipocolesterolemizzante,
antiaggragazione doppia (per un mese), b-bloccante ed
ace-inibitore.
Il follow-up clinico a 3 ed a 6 mesi è stato negativo. La prova
da sforzo a 6 mesi è stata negativa per segni e sintomi. A
distanza di 12 mesi è stato eseguito ecostress alla dobutamina,
durante il quale non vi sono stati sintomi, segni
elettrocardiografci di ischemia, nè sono stati evidenziati
deficit della contrattilità ai massimi dosaggi di dobutamina (40
gamma + atropina).
Il caso clinico è un caso con ottimo risultato a breve ed a
lungo termine in un paziente giovane con coronaroptia bivasle
risolta durante la fase acuta. L’importanza della diagnosi della
mancata riperfusione con la successiva terapia di angioplastica
di salvataggio ha permesso un ottimo recupero del miocardio
compromesso evitando al paziente complicanze acute e
croniche.
Conclusioni
L’esecuzione dell’angioplastica coronarica di salvataggio, dopo
il fallimento della fibrinolisi, è l’unico presidio terapeutico
efficace per ristabilire un flusso coronarico in un territorio
ischemico-infartuale. L’esecuzione di tale procedura è,
evidentemente, più rischiosa dell’angioplastica elettiva e
dell’angioplastica primaria. La scelta del paziente da inviare a
tale procedura deve essere molto oculata, consapevole del
rapporto rischio/beneficio nell’immediato ed in prospettiva. La
consapevolezza del rischio non ci deve dissuadere dal proporla o
dall’eseguirla nel caso in cui il territorio miocardio
compromesso sia ancora vitale, esteso e non ancora riperfuso.
Tale tipo di procedura presuppone un’organizzazione già
collaudata da personale dedicato, con riferimenti ben precisi
tra gli ospedali che devono verificare il funzionamento della
rete, anche in condizioni di elezione. L’organizzazione dei
centri hub e spoke deve consentire un agevole trasferimento dei
pazienti in base alla gravità ed alle esigenze cliniche, per non
sovraffollare i centri hub e garantire sempre in quest’ultimi la
disponibilità di posti letto nelle unità di terapia intensiva
coronarica.
Bibliografia Essenziale
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