LA
CONSULENZA
CARDIOLOGICA:
UN’OCCASIONE DI PREVENZIONE CARDIOVASCOLARE
Carmine Riccio
Divisione di Cardiologia Riabilitativa A.O. San Sebastiano
Caserta
La
consulenza cardiologica per il paziente candidato ad interventi
di chirurgia non cardiaca rappresenta una delle attività in cui
più frequentemente è coinvolto il cardiologo. Si calcola che
negli Stati Uniti vengano effettuati oltre 25 milioni di
interventi chirurgici non cardiaci all’anno, in molti dei quali
viene richiesta una valutazione cardiologica preoperatoria .
La
richiesta della consulenza cardiologia è giustificata dall’alta
prevalenza di soggetti a rischio di cardiopatia ischemica e
della frequenza di complicanze cardiache, tra cui la più
frequente è sicuramente l’infarto perioperatorio, al cui
sviluppo concorrerebbero meccanismi di:
·
Attivazione neuroormonale
·
Incremento delle catecolamine circolanti
·
Riduzione dei livelli di attivatore tissutale del plasminogento
·
Aumento dello shear stress con attivazione piastrinica
I
50000 casi registrati ogni anno negli Stati Uniti sono
responsabili di oltre il 50% dei decessi postoperatori con
drammatiche conseguenze in termini di danno per il paziente,
costi sanitari e conseguenze medico-legali.
D’altra parte è cambiato il profilo del paziente operato, oggi
sempre più anziano e spesso cardiopatico con comorbilità
rilevanti, quali diabete, insufficienza renale e deficit
neurologici. Si prevede che Il numero di procedure chirurgiche
noncardiache negli over 65 passi dai 6 milioni attuali ai 12
milioni, di cui un quarto ad alto rischio (addominali,
toraciche, vascolari)9).

Cosa viene richiesto al cardiologo quando viene chiamato per una
consulenza cardiologica preoperatoria? Fondamentalmente di:
1.
Di valutare lo stato cardiovascolare del paziente,
evidenziando eventuali cardiopatie sconosciute
2.
Di ottimizzare la terapia nel periodo peri e
post-operatorio
3.
Di collaborare con il chirurgo e l’anestesista alla
pianificazione della strategia chirurgica, in termini di
tipologia, durata e timing dell’intervento
Per quanto riguarda il primo punto, risulta ovvio che il
cardiologo debba effettuare:
•
Un’accurata anamnesi, un esame clinico, l’ecg , al fine di
valutare importanti predittori di rischio, quali l’età, una
precedente cardiopatia, un eventuale stato di scompenso o
presenza di ischemia in atto
•
Eventualmente ricorrendo ad esami strumentali. Le informazioni
più utili potrebbero essere fornite da un ecocardiogramma o uno
stress test. Questi esami non devono essere effettuati di
routine a tutti i pazienti ma solo in casi selezionati.
L’ecocardiogramma va eseguito quando l’inquadramento
clinico-anamnestico e la documentazione clinica non siano
esaurienti ed in particolare quando l’esame clinico evidenzia
segni di precario compenso, per valutare adeguatamente la
funzione ventricolare, o quando vi è il sospetto di una
patologia valvolare importante. E’ chiaro che il cardiologo
richiederà un ecocardiogramma anche nei casi di ecg anormale.
Per quanto riguarda gli stress test, le linee guida suggeriscono
di richiederli nei soggetti che presentano una scarsa capacità
funzionale (<4 Mets), soprattutto quando è previsto un
intervento di chirurgia maggiore. In questi paziente infatti vi
è una prevalenza di complicanze perioperatorie
significativamente più elevata ( 20.4% vs 0.4%). Nei pazienti
che non raggiungono l’ 85% della FC max teorica
al
test ergometrico le complicanze periop. raggiungono il 24%.
Va
sempre valutata, però, la definizione del rapporto
rischio-beneficio, la differibilità dell’intervento chirurgico
e lo stato clinico del paziente, allettato, febbrile,
disidratato, ecc.
Tra gli stress test, laddove eseguibile può essere effettuato un
test ergometrico. Negli altri casi un eco-stress, preferibile
nei casi dei pazienti in terapia con betabloccanti, o una
scintigrafia miocardica possono essere eseguiti con simili
aspettative in termini di sensibilità e specificità, lasciandosi
preferire anche sulla base dell’esperienza del singolo centro.
Tra i punti chiave della consulenza cardiologica, sottolineato
anche dalle Linee Guida, vi è quello di non porre indicazioni
per un esame coronarografico se non indicato a prescindere
dall’intervento chirurgico. Al di là dei rischi connessi alla
procedura, va considerato che attualmente l’esecuzione di una
coronarografia conduce sempre più spesso ad una procedura di
rivascolarizzazione mediante angioplastica, ormai quasi sempre
perfezionata dall’ausilio di stent medicati.



Poldermans D et al: N EnglJ Med 1999;341;1789-1794
Tale procedura implica la necessità di proseguire assolutamente
per almeno sei mesi una terapia specifica (doppia
antiaggregazione), che obbliga a differire qualsiasi procedura
chirurgica.
Tra l’altro nessun trial clinico randomizzato ha dimostrato una
ridotta incidenza di complicanze perioperatorie nei pazienti che
hanno effettuato una procedura di rivascolarizzazione mediante
angioplastica o bypass. Viene pertanto esclusa l’ipotesi di
avviare il paziente ad una tale procedura esclusivamente per
portarlo aldilà dell’intervento di chirurgia non cardiaca.
Un
aspetto fondamentale che deve caratterizzare la consulenza del
cardiologo è la ottimizzazione della terapia. Vi sono dati
eclatanti in letteratura sul ruolo della terapia con
betabloccante nel migliorare la prognosi dei pazienti sottoposti
a chirurgia non cardiaca. Dagli studi di Polderman e di Mangano
si calcola che il beneficio di tale terapia va dal 55% al 91% di
riduzione di mortalità 
Addirittura gli AA concludono che il vantaggio della terapia con
betabloccanti è talmente evidente da rendere inutile il ricorso
ad altri accertamenti diagnostici
Per quanto riguarda altri farmaci vi sono segnalazioni dei
vantaggi della terapia con acido acetil salicilico e con statine
Quale potrebbe essere quindi il percorso da seguire. Si deve
entrare nell’ottica di una decisione condivisa con il chirurgo e
con l’anestesista, in cui dopo aver valutato il rischio
operatorio, in base a criteri legati all’intervento, alle
caratteristiche del paziente ed al
Per quanto riguarda l’intervento bisogna considerare a basso
rischio gli interventi per via endoscopica, le procedure
superficiali, la cataratta e gli interventi sulla mammella. A
medio rischio la Endoarterectomia carotidea, gli interventi
sulla Testa e collo e sulla Prostata, la chirurgia
Intraperitoneale, intratoracica, ortopedica. Ad alto rischio
vanno classificati gli
interventi maggiori, in emergenza, la Chirurgia aortica
e vascolare maggiore la chirurgia vascolare periferica, gli
interventi complessi con previsione di importanti perdite
ematiche.
Per quanto concerne le caratteristiche cliniche del paziente
saranno considerati predittori di alto rischio la sindrome
coronarica acuta, lo scompenso cardiaco, la presenza di aritmie
significative (BAV II-III, FA con FC alta, aritmie ventricolari
complicate con cardiopatia) o di valvulopatia severa (specie se
stenotica). Predittori intermedi sono l’angina pectoris, un IM
pregresso, la disfunzione ventricolare sinistra compensata, Il
diabete mellito o un’insufficienza renale. A rischio minore sono
l’età avanzata, la presenza di un ECG alterato (IVSn, BBS,
sovraccarico), la fibrillazione atriale, una storia di stroke o
un’ipertensione non controllata.
In
base alla caratterizzazione del rischio, secondo le Linee Guida,
è necessario rinviare o annullare l’intervento chirurgico in
caso di rischio elevato. Nei pazienti a rischio intermedio viene
suggerito di differire l’intervento, ottimizzare la terapia,
eseguendo poi un attento monitoraggio perioperatorio. Nessun
problema invece nei casi di rischio basso.
Per quanto concerne gli aspetti medico-legali, che stanno
diventando un problema rilevante e quotidiano, va sottolineato,
come riferito tra l’altro da un documento della SIARTI, che « ….
La scelta e la condotta dell’atto anestesiologico sono di
esclusiva competenza del medico anestesista (Legge 9 agosto
1954, n. 653), che decide la tecnica di anestesia e la
preparazione alla procedura, in funzione della propria
valutazione e della procedura programmata, prendendo in
considerazione le richieste formulate dal paziente (o dai
genitori ove questo sia un minore, ovvero dal tutore se si
tratta di soggetto sottoposto a tutela) e le indicazioni fornite
dal medico richiedente… ».
Con la dizione “valutazione anestesiologica” si intende il
processo di approfondimento clinico e di previsione
organizzativa che precede l’atto anestesiologico per procedure
diagnostiche e/o terapeutiche. … nella valutazione
anestesiologica è di conseguenza importante definire lo stato
basale del paziente (valutazione clinica basale), anche
attraverso indagini (di laboratorio e/o strumentali) che il
medico anestesista reputi necessarie caso per caso, al fine di
differenziare alterazioni preesistenti da quelle eventualmente
indotte. Diversa è la valutazione del rischio, per la quale
va bilanciato lo stato basale del paziente con l’entità della
procedura programmata e il tipo di anestesia necessaria…».
«
…. La valutazione anestesiologica coordina e conclude un
più articolato processo di “valutazione multidisciplinare”, teso
a definire le condizioni cliniche di base del paziente, le
indicazioni alla procedura e i relativi iter diagnostici,
anche mediante coinvolgimento di consulenti specialisti di
diverse discipline… ».
Per cui si potrebbe concludere che il cardiologo abbia i
seguenti compiti:
•
definizione della natura, della gravità e delle ripercussioni
della cardiopatia su vari apparati e funzioni dell’organismo;
•
stratificazione del rischio operatorio, in base alla gravità
della cardiopatia e alla natura dell’intervento chirurgico;
•
pianificazione di una strategia operativa in funzione del
rischio.
In
defintiva lo scopo della valutazione del consulente cardiologo
non è quella di fornire una “liberatoria” per l’intervento
chirurgico, ma piuttosto di fornire un profilo di rischio
cardiologico che possa essere utilizzato da anestesista,
chirurgo e paziente per decidere le scelte successive.