Dopo l’infarto : quali
farmaci, a chi, quando, perché e per quanto tempo?
Enrico Passamonti, Salvatore
Pirelli
U.O. di Cardiologia Istituti
Ospitalieri Cremona
Premessa
La terapia dell’infarto miocardico acuto
rappresenta uno dei maggiori successi medici degli ultimi anni;
il trattamento precoce con farmaci fibrinolitici e/o con
angioplastica coronarica garantisce una riduzione significativa
della mortalità ospedaliera e una minore morbilità a distanza.
Il razionale per un approccio “attivo”
alla prevenzione secondaria dopo un evento coronarico acuto è
basato su una serie di evidenze consolidate (1) .
Gli interventi di prevenzione
sono tanto più efficaci quanto più sono diretti a soggetti a
più alto rischio; una attenzione particolare meritano i soggetti
con diabete mellito per i quali è stato documentato un rischio
di recidiva di infarto miocardico raddoppiato rispetto ai
soggetti senza diabete (2). Risultati analoghi relativamente a
popolazioni di pazienti con SCA non sopraST sono stati
riscontrati nello studio OASIS (3)
in cui la mortalità a 24 mesi risultava pressochè doppia
nei pazienti diabetici rispetto ai non diabetici e nel PRAIS-UK(4)
per quanto riguarda l’incidenza di eventi a 6 mesi.
I soggetti ad alto rischio richiedono
dunque interventi mirati ad un cambiamento reale dello stile di
vita e una terapia farmacologica che consenta di controllare in
modo accurato i fattori di rischio modificabili.
Al momento attuale i farmaci accreditati
per una prevenzione secondaria efficace sono gli Aceinibitori,
le Statine, i Beta bloccanti, gli Antiaggreganti piastrinici,
gli n-3 Pufa. Il loro impiego si è dimostrato in grado di
ridurre il rischio di eventi vascolari successivi di circa il
25% ciascuno. Secondo Yusuf (5) essendo il beneficio di ogni
intervento largamente indipendente, se questi farmaci fossero
impiegati insieme potrebbe essere ragionevole aspettarsi che si
possa realizzare una riduzione di eventi dei 2/3 o ¾.
Aggiungendo a ciò il beneficio che si può ottenere con una
riduzione della pressione arteriosa nei soggetti ipertesi, una
riduzione della PA di 10 mm di Hg riduce gli eventi vascolari di
1 quarto, sarebbe ipotizzabile una riduzione del rischio per gli
eventi vascolari futuri fino a 4/5.
Aceinibitori
La prima fase degli studi condotti con
gli Ace-inibitori era concentrata sul trattamento della
insufficienza cardiaca grave; una successiva serie di trial ha
studiato questi farmaci in pazienti sempre meno compromessi e
sempre più vicini ad un evento ischemico acuto; attualmente sono
impiegati in ambito di prevenzione che interessa un ben più
largo numero di pazienti .
In ambito di prevenzione sono certamente
di grande impatto i risultati di due studi: l’HOPE (6) e
l’EUROPA (7) che consentono di allargare l’impiego di questi
farmaci all’universo di pazienti che afferiscono quotidianamente
alle nostre strutture cardiologiche al di là di quelli con
disfunzione ventricolare sinistra per i quali la utilizzazione
degli Ace-inibitori era già stata definita. Lo studio HOPE ha
arruolato una popolazione di soggetti ad alto rischio
cardiovascolare : 40% vasculopatia periferica, 40% diabete
mellito associato ad almeno 1 fattore di rischio, il 10% con
pregresso evento cerebrovascolare. Lo studio EUROPA ha arruolato
pazienti con coronaropatia documentata : pregresso infarto
miocardico, esiti di angioplastica coronarica o bypass, angina
cronica e stress test positivo per ischemia inducibile.
Entrambi gli studi hanno documentato una riduzione altamente
significativa degli eventi cardiaci successivi, intorno al 20%,
indipendentemente da età, sesso, ipertensione arteriosa o
diabete. Nello studio Europa il beneficio ottenuto è aggiuntivo
rispetto alle principali classi di farmaci utilizzati nella
terapia standard (asa, betabloccante, statina).I risultati
ottenuti in questi studi sono stati raggiunti impiegando dosi
“alte” di farmaco attivo,10 mg di Ramipril e 8 mg di
Perindopril, che sono state ben tollerate ed hanno indotto la
sospensione del trattamento solo in una minima percentuale di
casi. Per quanto riguarda la durata del trattamento nuove ed
importanti osservazioni vengono dallo studio HOPE-TOO (8). I
benefici dimostrati ad un follow up di 4,5 anni con il ramipril
nello studio HOPE si sono mantenuti invariati durante un
ulteriore follow up passivo di 2.6 anni per quanto riguarda la
mortalità mentre si è osservata una ulteriore riduzione del
rischio di infarto (RR=19%), di rivascolarizzazione (RR =16%),
di diabete di nuova insorgenza (RR =34%) a parità di utilizzo di
ACE inibitore e di livelli pressori raggiunti nei due gruppi di
pazienti. Tali risultati indicano che l’utilizzo di ramipril
iniziato precocemente e continuato per un periodo di 4,5 anni
assicura un effetto protettivo di maggiore durata rispetto a
quello iniziato piu’ tardivamente. Gli Autori imputano questi
effetti al ruolo benefico del ramipril a livello endoteliale e
vascolare ed auspicano che la terapia con ACEinibitore in
prevenzione secondaria venga utilizzata dai pazienti per tutta
la vita. Una seconda osservazione che viene dall’HOPE TOO è che
i benefici ottenuti in termini di riduzioni di eventi sono
evidenti sia nei pazienti ad alto rischio che in quelli a basso
e medio rischio.
Betabloccanti
Dopo infarto miocardio i betabloccanti
determinano una riduzione significativa della mortalità da tutte
le cause, della mortalità cardiovascolare, della morte
improvvisa e del reinfarto non fatale (9). I benefici sono
maggiori nei soggetti a più alto rischio di reinfarto o morte:
anziani, disfunzione ventricolare sinistra , aritmie. Nello
studio Capricorn (10) che ha arruolato 1900 pazienti con esiti
recenti di infarto miocardio, frazione d’eiezione inferiore a
40% , in trattamento con aceinibitore, si sono registrati,
durante un periodo di 15 mesi, una riduzione di mortalità del
25% , di necessità di ospedalizzazione per scompenso del 14 % e
di reinfarto del 41%. I dati di questo studio eseguito in epoca
in cui trombolitici, aceinibitori e aspirina sono diventati gold
standard della terapia, ampliano e confermano i dati precedenti
sulla efficacia dei betabloccanti nel postinfarto e orientano
senz’altro verso un atteggiamento di forte raccomandazione
verso un loro più estensivo utilizzo . Da sottolineare il fatto
che le curve di sopravvivenza dei gruppi trattati con placebo o
betabloccante dopo l’evento acuto continuano a divergere anche
dopo il sesto mese quando il rischio di mortalita’ si riduce e
pertanto il loro impiego, soprattutto in pazienti ad alto
rischio, in assenza di controindicazioni, deve essere protratto.
Alcune controversie esistono su quanto a
lungo debbano essere impiegati questi farmaci. I dati globali di
cinque studi sul follow up a lungo termine dei beta bloccanti
dopo l’infarto suggeriscono che il trattamento deve proseguire
per almeno 2-3 anni (11). Al momento attuale si puo’ ritenere
che se il betabloccante viene ben tollerato, probabilmente la
terapia deve essere nella maggior parte dei pazienti. E’ da
rilevare peraltroche nei pazienti con prognosi estremamente
favorevole, funzione ventricolare sinistra conservata, assenza
di angina, test da sforzo negativo, nei quali si puo’ stimare
una mortalità dell’1% per anno i betabloccanti hanno
necessariamente un effetto modesto sulla sopravvivenza.
Statine
Le statine esercitano il loro effetto
ipocolesterolemizzante attraverso la inibizione competitiva
dell’enzima beta idrossimetilglutaril coenzima A; la ridotta
concentazione di colesterolo negli epatociti determina un
aumento dell’esposizione dei recettori per le LDL che cosi’
comporta una riduzione dei livelli circolanti di LDL e dei loro
precursori.
I dati provenienti dal 4S hanno
radicalmente modificato le prospettive di vita dei soggetti con
cardiopatia ischemica. Il trattamento con sinvastatina di
soggetti con cardiopatia ischemica documentata, inclusi i
pazienti con angina cronica e colesterolemia totale compresa tra
212 e 308 ha determinato una riduzione del 30% della mortalita’
e degli eventi coronarici maggiori (12). Gli studi successivi
con molecole diverse della stessa classe sono del tutto coerenti
con questi risultati e confermano un chiaro effetto di queste
sostanze nella riduzione del rischio coronarico in soggetti con
pregresso infarto .
Tra questi va sottolineata l’importanza dell’ Heart Protection
Study (13) che ha dimostrato i benefici - in termini di
riduzione di mortalità ed eventi coronarici - di un trattamento
in prevenzione secondaria con sinvastatina anche in pazienti con
livelli di colesterolo basale nei limiti della norma. L’HPS ha
arruolato 20.536 adulti (40-80 anni d’età) con CHD, altre
patologie arteriose occlusive o diabete che sono stati
randomizzati a 40mg/die di simvastatina vs placebo. La mortalità
da tutte le cause è risultata ridotta in modo significativo
(12,9% con simvastatina vs. 14,7% col placebo; p=0,0003) a
seguito di una riduzione altamente significativa del 18%
dell’incidenza di decessi per cause cardiovascolari (5,7% vs.
6,9%; p=0,0005),
La discussione attuale degli studi piu’
recenti relativi all’utilizzo delle statine è centrata
sull’importanza di una terapia aggressiva (alti dosaggi) con
assunzione precoce in fase acuta .
Lo
studio Pravastatin or Atorvastatin Evaluation and Infection
Therapy (PROVE-IT TIMI 22) (14) ha indagato se una riduzione
standard del C-LDL ottenuta con pravastatina 40 mg si associ a
un beneficio clinico simile a quello di una riduzione più
aggressiva derivante dalla somministrazione
di atorvastatina 80 mg in
4162 pazienti con SCA non sopraST in cui la statina veniva
somministrata in fase acuta. Lo studio ha dimostrato una
superiorita’ degli alti dosaggi di atorvastatina rispetto al
dosaggio standard di pravastatina nella riduzione dei livelli
di C-LDL e nella riduzione del rischio degli endpoint primari
(del 16%). Nella pratica clinica tuttavia dosaggi cosi’ alti di
atorvastatina non vengono ancora utilizzati per il rischio degli
effetti collaterali legati alla miopatia
E’ sempre oggetto di discussione la
relazione tra la riduzione della colesterolemia totale ed LDL
indotta dal trattamento e la riduzione del rischio. Le analisi
post-hoc degli studi CARE (15) e WOSCOPS (16) avevano suggerito
che la riduzione dei livelli di colesterolo al di sotto di 3
mmol/l (115 mg/dl) non determinava nessun beneficio ulteriore,
mentre analisi simili dei trial 4S (12) e LIPID (17) indicavano
che non vi era nessun livello di LDL colesterolo al di sotto
del quale non si aveva alcun beneficio. I risultati dello studio
HPS hanno dimostrato lo stesso livello di beneficio, in termini
relativi per riduzione di colesterolo LDL da 3 a 2 mmol come
da 4 a 3 mmol suggerendo anche che possa non esserci un livello
soglia al di sotto del quale non possa essere dimostrato un
beneficio. Lo studio PROVE – IT ha documentato che un regime
aggressivo con alte dosi di atorvastatina (80 mg) in grado di
ridurre i valori di colesterolo LDL a livelli di 62 mg/dl
determinava una riduzione significativamente maggiore del
rischio di morte , infarto miocardico, angina instabile,
necessità di rivascolarizzazione e stroke rispetto ad un
trattamento standard , pravastatina 40 mg , che induceva un
livello di colesterolo LDL pari a 95 mg/dl. (14)
Sulla
base degli ultimi recenti studi che suggerivano un beneficio in
termini di riduzione di eventi cardiovascolari abbassando i
livelli di colesterolo LDL al di sotto dei correnti valori
target (13-14-18-19), il recente aggiornamento delle Linee Guida
delle associazioni Americane (20) indica che il valore target
del Colesterolo LDL dovrebbe essere inferiore a 100 mg/dL
(Classe I;livello di evidenza A) e che una ulteriore riduzione
al di sotto di 70 mg/dL è da considerarsi ragionevole (Classe
IIa; livello di evidenza A).
Tuttavia
nonostante i benefici dimostrati permane il rilevante problema
della scarsa aderenza alla terapia con statine nel tempo
soprattutto negli anziani come sottolineato in una recente
review : il 60% dei pazienti anziani non assumevano statine a
due anni dall’evento acuto (21)
Antiaggreganti piastrinici
La più recente metanalisi dei trial sugli
antiaggreganti piastrinici ha dimostrato una significativa
riduzione della mortalità per tutte le cause, della mortalità
vascolare, del reinfarto non fatale e dello stroke non fatale in
pazienti con angina instabile, infarto miocardio acuto, stroke,
o altre malattie vascolari. Nei trial in cui è stata usata
l’aspirina non sono state evidenziate differenze di efficacia
nel range tra i 75 e i 325 mg ; gli effetti collaterali sono
risultati minori per i dosaggi più bassi. Nei pazienti con
sindrome coronarica acuta non ST sopra, il Clopidogrel, in
associazione ad ASA, ha determinato una riduzione significativa
(RRR 20%) dell’end point composito di morte, infarto o stroke
nei 12 mesi di trattamento dopo l’evento acuto con un adeguato
profilo di sicurezza (22). La combinazione di Clopidogrel e
Aspirina fornisce un beneficio additivo per il trattamento dei
pazienti sottoposti a procedure di rivascolarizzazione miocardia
con l’impiego di stent e per il trattamento a lungo termine dei
pazienti con sindrome coronarica acuta, indipendentemente dalla
strategia terapeutica, invasiva o conservativa, adottata nel
corso della ospedalizzazione. Un solo studio, CAPRIE (23), ha
confrontato Aspirina 325 mg verso Clopidogrel 75 mg in un largo
numero di pazienti,circa 20.000 con pregresso infarto, ischemia
cerebrale o arteriopatia periferica sintomatica: non sono emerse
differenze significative nei pazienti con infarto miocardico o
ictus ischemico, e una differenza importante a favore di
Clopidogrel nei soggetti con arteriopatia periferica. Il
Clopidogrel ha un profilo di tollerabilità maggiore e pertanto
andrebbe considerato in alternativa ad Aspirina laddove questa
non possa essere impiegata. In considerazionedella efficacia e
dei buoni profili di sicurezza dei farmaci antipiastrinici,
questi sono indicati in tutti i pazienti a rischio elevato, in
assenza di specifiche controindicazioni.
n-3 PUFA
Gli acidi grassi polinsaturi della serie
n-3 hanno trovato, di recente, indicazione nella prevenzione
della morte improvvisa dopo infarto miocardico: raccomandazione
di classe IIa con livello di evidenza B. La disponibilità di un
supplemento dietetico privo di effetti collaterali ed efficace
nella prevenzione della morte improvvisa è particolarmente
importante per la rilevanza epidemiologica del problema e per i
risultati deludenti ottenuti dai farmaci antiaritmici. Il primo
studio controllato sulla efficacia della dieta ricca di pesce in
soggetti con esiti di infarto miocardio è stato il DART (Diet
and Reinfarction Trial) (24) che aveva documentato che la
prescrizione di una dieta ricca di pesce 2 volte alla settimana
era in grado di ridurre significativamente la mortalità totale,
e la mortalità coronarica, senza nessun impatto sugli eventi
cardiovascolari non fatali. Lo studio GISSI Prevenzione (25) ha
arruolato 11.324 pazienti con esiti recenti di infarto
miocardico che sono stati distribuiti in modo casuale in quattro
gruppi di trattamento, ricevendo per un periodo di 3.5 anni un
supplemento giornaliero di acidi grassi omega 3, di vitamine E,
di entrambi o nessun supplemento. Gli acidi grassi omega 3 hanno
ridotto significativamente gli end point primari combinati di
morte per qualsiasi causa, infarto non fatale e ictus non fatale
e quello di morte cardiovascolare, infarto non fatale e ictus
non fatale. Il trattamento ha anche ridotto il rischio di morte
considerata isolatamente: diminuzione del 20% delle morti
totali, del 30% delle morti cardiovascolari e del 45% delle
morti improvvise. Di particolare interesse il fatto che lo
studio ha arruolato pazienti senza disfunzione ventricolare
sinistra e trattati al meglio della terapia del post infarto,
antiaggreganti piastrinici, betabloccanti , aceinibitori e
statine. La significativa riduzione di mortalità osservata dal
GISSI Prevenzione in una popolazione a rischio relativamente
basso e trattata in modo adeguato indica che gli omega 3
agiscono ad un livello diverso dalle altre terapie correntemente
in uso, rispetto alle quali apportano un ulteriore beneficio.
Allo stato attuale delle conoscenze gli
n-3 PUFA sono indicati alla dose di 1g/die nei pazienti con
esiti di infarto miocardico e nei soggetti ad elevato rischio
cardiovascolare globale. Un recente studio dei ricercatori del
GISSI – prevenzione ha valutato l’impatto sulla morte improvvisa
di questi farmaci nel gruppo dei pazienti con disfunzione
sistolica del ventricolo sinistro (EF<50%). L’incremento della
disfunzione sistolica era associato ad un aumentato rischio di
morte improvvisa; l’effetto del farmaco sulla riduzione della
morte improvvisa è risultato piu’ marcato nei pazienti con
disfunzione sistolica (RRR=58%) che in quelli con funzione
conservata (RRR=11%) (26)
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