Frequenza, Farmaci e Scompenso Cardiaco

 

R. Ferrari, G. Pasanisi, G. Macrì, A. Fucili G Guardigli

Cattedra di Cardiologia, Università di Ferrara, Ferrara

e Centro di Fisiopatologia Cardiovascolare,

IRCCS, Fondazione Salvatore Maugeri, Gussago (BS)

 

Introduzione

Le tre classi farmacologiche oggetto del presente articolo hanno tutte avuto un ruolo significativo, seppur con diverso peso, nella terapia dello scompenso cardiaco.

È bene, però, ricordare che solo i beta-bloccanti hanno resistito all’imparziale e stringente giudizio dell’“Evidence-based medicine” ed accolto, pur non senza difficoltà, il consenso della classe medica cardiologica (e non necessariamente quello, più ampio, del “mercato”) e delle linee guida nazionali ed internazionali. Questo giustifica il trend prescrittivo in crescendo per i beta-bloccanti ed in calando per la digitale e l’amiodarone.

Tutto ciò, sorprende. È, infatti, lecito riconoscere che l’uso della digitale nello scompenso si basa su un antica tradizione e su un solido razionale: “La digitale è un inotropo positivo; nello scompenso, per definizione, l’inotropismo è ridotto“. Anche l’amiodarone ha un razionale di tutto rispetto: esercita un importante effetto antiaritmico, migliora la frazione di eiezione e quindi riduce la morte improvvisa e migliora la performance cardiaca del paziente scompensato. Diverso è il caso per i beta-bloccanti: sono inotropi negativi. Chi l’avrebbe mai detto, se non i nostri colleghi scandinavi, che ridurre l’inotropismo nello scompenso fa bene e migliora la qualità e la durata della vita?

Tutto ciò rientra nell’assioma che per la terapia farmacologica dello scompenso le ipotesi razionali (gli inotropi positivi e i vasodilatatori) hanno fallito ed hanno dovuto cedere il passo ad ipotesi un po’ meno razionali, spesso basate sul controllo di “sistemi diversi” da quello strettamente “cardio-vascolare”.

Nel tranello, però, non sono  cascati  gli organizzatori del Corso che hanno posto una domanda specifica riguardo l’uso di farmaci nello Scompenso: non in quanto farmaci antiaritmici o inotropi, bensì in quanto bradicardizzanti. Così facendo si è anticipato il futuro: stanno infatti per entrare in clinica bradicardizzanti puri, quali l’ivabradina, inizialmente con l’indicazione al trattamento dell’angina, ma già in “pole position” trialistica nel trattamento dello scompenso.

Vediamo dunque perché ridurre la frequenza cardiaca nello scompenso può essere una strategia vincente e analizziamo anche il ruolo delle singole classi di farmaci.

 

Frequenza cardiaca e scompenso cardiaco

Ridurre la frequenza cardiaca nello scompenso può essere utile per una serie di motivi [1]:

a)                                vi è una stretta correlazione tra frequenza cardiaca e prognosi: maggiore la prima, peggiore la seconda. Questo è vero per la cardiopatia ischemica, lo scompenso, l’ipertensione ed anche per la popolazione sana.

b)                                La curva frequenza/tensione e/o pressione/volume nello scompenso non è lineare. Solo alle basse frequenze un incremento di volume si traduce in un aumento di pressione, alle alte frequenze è vero il contrario.

c)                                Mantenere un’elevata frequenza cardiaca ha un notevole costo energetico. In un giorno il cuore si contrae mediamente 97.000 volte e per consentire ciò i mitocondri producono circa 30 Kg di ATP che viene immediatamente utilizzato per la contrazione. Ridurre la frequenza cardiaca di 10 battiti al minuto per un giorno vuol dire far risparmiare al cuore 5Kg di ATP!

d)                                Il flusso coronarico è prevalentemente diastolico. Un’elevata frequenza cardiaca riduce la durata della fase diastolica e, di conseguenza, il flusso coronarico.

e)                                Un’elevata frequenza cardiaca determina disfunzione endoteliale che, a sua volta, è implicata nella formazione e progressione dell’aterosclerosi.

f)                                 Il colletto delle placche aterosclerotiche è meccanicamente sollecitato in rapporto alla frequenza cardiaca. Di conseguenza frequenze elevate facilitano la rottura delle placche aterosclerotiche.

Non stupisce quindi che tutti i trial sul trattamento dello scompenso cardiaco con vari farmaci hanno evidenziato una stretta correlazione tra riduzione del cronotropismo e riduzione della mortalità e, viceversa, aumento della frequenza cardiaca e aumento della mortalità [2].

 

Digitale e scompenso cardiaco

Qualcuno l’ha paragonata ad una “pianta secca”, “dura a morire!”. In effetti la digitale viene utilizzata nello scompenso cardiaco da più di 200 anni, precisamente dal 1785 quando William Withering ha pubblicato la sua famosa monografia [3].

L’effetto inotropo positivo è dovuto all’inibizione della pompa Na/K che a sua volta riduce l’attività della pompa Na/Ca con incremento del calcio citoplasmatico. L’effetto cronotropo negativo è più complesso. A concentrazioni terapeutiche ha azione vagotonica mediante inibizione della corrente del calcio nel nodo atrio-ventricolare ed attivazione della corrente del potassio mediata dall’acetilcolina nell’atrio. Quindi i più rilevanti effetti elettrofisiologici della digitale sono: iperpolarizzazione, riduzione del potenziale d’azione atriale, aumento del periodo refrattario del nodo atrio-ventricolare con conseguente allungamento dell’intervallo PR. Per questo l’utilizzo più diffuso della digitale è proprio mirato al controllo della frequenza cardiaca, soprattutto in corso di fibrillazione atriale [4]. Indubbiamente la riduzione della frequenza si traduce in un miglioramento dell’emodinamica, sinergico con gli effetti diretti sull’inotropismo.

Va però sottolineato che la digitale ha molti limiti. Il più consistente, forse, è che non abbiamo evidenza di un miglioramento prognostico trattando pazienti scompensati con digitale, ma solo di una riduzione delle ospedalizzazioni [5]. Inoltre gli effetti farmacologici della digitale sono ridotti in presenza di iperattivazione del sistema simpatico come accade nello scompenso cardiaco avanzato, tireotossicosi, o broncopneumopatia cronica ostruttiva. In queste condizioni il controllo della frequenza è soddisfacente a riposo, ma non, ad esempio, in corso di esercizio fisico. Non solo, ma un accumulo di digitale aumenta il tono adrenergico e quindi la fase 4 del potenziale d’azione, incrementando l’automatismo, specie se la concentrazione del potassio extracellulare è ridotta. Questi ultimi due effetti sono alla base dell’azione pro-aritmica della digitale, una grave intossicazione può anche provocare bradiaritmie severe. Ne consegue che il range terapeutico di efficacia e sicurezza è piuttosto stretto, specialmente nello scompenso dove la clearance renale è ridotta e si accompagna ad alterazioni elettrolitiche. Nonostante tutto ciò, la digitale continua ad essere utilizzata nello scompenso cardiaco prevalentemente per il contenimento della frequenza nei pazienti fibrillanti.

 

Amiodarone e scompenso cardiaco

L’amiodarone è forse il farmaco antiaritmico più efficace e più utilizzato. Ha effetti farmacodinamici multipli, nessuno dei quali spiega con chiarezza la sua efficacia clinica. Strutturalmente è simile agli ormoni tiroidei da cui i suoi effetti collaterali. Blocca i canali del sodio, riduce le correnti del calcio e del potassio, blocca i recettori adrenergici (effetto beta-bloccante), di conseguenza prolunga il periodo refrattario, neutralizza i meccanismi di automatismo anomalo, prolunga la durata del potenziale d’azione, provoca bradicardia sinusale rallentando la fase 4 del potenziale d’azione e rallenta anche la conduzione a livello del nodo atrio-ventricolare. Tutto ciò a fronte di notevoli effetti collaterali: ipotensione, depressione della contrattilità cardiaca, fibrosi polmonare, ipo- o ipertiroidismo, disfunzione epatica, fotosensibilità cutanea, ecc. [6].

La sua utilizzazione nello scompenso ha seguito fasi alterne. Di fatto, ha due potenziali concorrenti per la stessa indicazione: i beta-bloccanti e il defribrillatore impiantabile. Uno dei primi trial clinici sull’amiodarone, il GESICA (Grupo de Estudio de la Sobrevida en la Insuficiencia Cardiaca en Argentina), evidenzia una netta riduzione della mortalità in pazienti con bassa frazione di eiezione [7]. Trial successivi tuttavia non hanno confermato l’effetto prognostico dell’amiodarone nello scompenso [8,9], anche se nel CAMIAT (Canadian Amiodarone Myocardial Infarction Trial) l’amiodarone ha determinato una riduzione di incidenza di fibrillazione ventricolare o morte aritmica nei pazienti scompensati con frequenti battiti ectopici ventricolari.

Sono stati condotti vari studi di confronto tra l’utilità dell’amiodarone e del defibrillatore impiantabile nello scompenso. Una recente meta-analisi evidenzia la superiorità del defibrillatore, ma solo nei pazienti con bassa frazione di eiezione (inferiore al 35%) [10]. Recentemente poi, i risultati dello SCD-Heft ( Sudden Cardiac Death in Heart Failure Trial) depongono ancor più pesantemente a favore del defibrillatore [11].

Non vogliamo entrare nell’accesa diatriba tra i sostenitori dell’ICD, resta però il fatto che l’amiodarone, escludendo i beta-bloccanti, è l’unico farmaco antiaritmico che nei vari trial non ha indotto incremento di mortalità nei pazienti con disfunzione ventricolare sinistra. Anzi, la riduzione di frequenza potrebbe essere utile, specialmente nei pazienti con moderata disfunzione.

 

Beta-bloccanti e scompenso cardiaco

Non vi è dubbio che i beta-bloccanti sono indicati nello scompenso cardiaco. Lo suggeriscono le meta-analisi dei trial [12], lo confermano le linee guida [13].

Il punto di discussione è quanto pesi nel loro meccanismo d’azione la riduzione della frequenza cardiaca. Il problema sta nella difficoltà a discernere l’effetto cronotropo da quello inotropo negativo, entrambi secondari al blocco recettoriale adrenergico. Le catecolamine però esercitano effetti negativi a vari livelli: inducono necrosi, apoptosi ed ipertrofia dei miociti, determinando lo switch verso il fenotipo embrionale e quindi inducono la ri-espressione di proteine contrattili di tipo fetale, favoriscono la fibrosi, inducono il rilascio di renina ed angiotensina II, incrementano direttamente il consumo miocardico di ossigeno e giocano un ruolo fondamentale nel rimodellamento cardiaco. Questa vasta, eterogenea gamma di effetti deleteri e tra loro correlati delle catecolamine rende difficile stabilire il peso dell’uno rispetto all’altro.

Non vi è però dubbio che il controllo della frequenza cardiaca che si ottiene grazie ad una riduzione della frequenza sinusale e della velocità spontanea di depolarizzazione dei pacemaker ectopici e ad un rallentamento della conduzione atriale ed aumento del periodo refrattario funzionale del nodo atrio-ventricolare [14], ha un ruolo predominante nel determinare gli effetti positivi dei beta-bloccanti nello scompenso. A questo proposito esiste una correlazione diretta sia in pazienti sopravvissuti all’IMA con disfunzione ventricolare, sia in quelli con scompenso cardiaco, tra entità della riduzione della frequenza cardiaca ed entità del guadagno prognostico [15]. Non solo, ma beta-bloccanti con caratteristiche di attività adrenergica intrinseca come, ad esempio, lo xameterolo peggiorano, invece di migliorare, la prognosi dei pazienti scompensati [16]. Anche il bucindololo e la moxonidina, che attiva i recettori beta2 e dell’imidazolina, non hanno dimostrato alcun effetto benefico nello scompenso [17,18], suggerendo l’importanza di ridurre la frequenza cardiaca.

 

Frequenza cardiaca e scompenso cardiaco

L’ivabradina appartiene ad una nuova classe di farmaci che riducono in modo selettivo la frequenza cardiaca agendo attraverso l’inibizione specifica della corrente pacemaker cardiaca If che determina la depolarizzazione diastolica spontanea del nodo del seno e quindi regola la frequenza cardiaca [19,20]. Gli effetti cardiaci sono specifici per il nodo del seno. Ne consegue che l’ivabradina non esercita effetti apprezzabili sul miocardio atriale e ventricolare, non modifica i tempi di conduzione intra-atriale, atrio-ventricolare o intra-ventricolare, né modifica la contrattilità miocardica come invece possono fare altri farmaci quali i beta-bloccanti e i calcio-antagonisti [21].

La riduzione della corrente If da parte dell’ivabradina è uso- e frequenza-dipendente, il ché significa che l’inibizione del canale f avviene dalla porzione intracellulare e quindi è necessario che il canale sia aperto e che la molecola entri nel poro per raggiungere il sito d’azione [22].

Nell’uomo, la principale proprietà farmacodinamica dell’ivabradina è una specifica riduzione dose-dipendente della frequenza cardiaca, in assenza di inotropismo negativo o di effetti sulla ripolarizzazione ventricolare. Grazie all’azione frequenza-dipendente, l’effetto bradicardizzante è maggiore alle più alte frequenze cardiache, cioè in quelle condizioni in cui l’utilità clinica è più rilevante. In particolare, studi elettrofisiologici dimostrano che l’ivabradina non modifica i tempi di conduzione atrio-ventricolare o intra-ventricolare, né l’intervallo QT [23]. Inoltre, anche in pazienti con disfunzione ventricolare sinistra, l’ivabradina non ha mostrato alcun effetto deprimente la stessa [24]. Terapeuticamente, al momento l’ivabradina è indicata per il trattamento sintomatico dell’angina pectoris cronica stabile in pazienti con normale ritmo sinusale, che abbiano una controindicazione o intolleranza ai beta-bloccanti. L’efficacia anti-anginosa dell’ivabradina è stata valutata in quattro studi randomizzati, in doppio-cieco (due in confronto con placebo e gli altri verso atenololo e amlodipina, rispettivamente) in circa 3.300 pazienti con angina pectoris cronica stabile, di cui circa 2.200 hanno ricevuto ivabradina [25-27]. L’efficacia di 5 e 7,5 mg di ivabradina due volte al giorno sui parametri del test ergometrico è risultata essere coerente in tutti gli studi (durata totale di esercizio, tempo di interruzione dello sforzo, tempo di comparsa del dolore anginoso, sotto-slivellamento >1 mm del tratto ST) ed è stata associata a una diminuzione di circa il 70% della frequenza degli attacchi anginosi. L’efficacia dell’ivabradina è sovrapponibile a quella dell’atenololo (100 mg) e dell’amlodipina (10 mg).

La corrente If, in determinate condizioni patologiche, quali ad esempio lo scompenso cardiaco, si trova anche a livello ventricolare e quindi al di fuori delle cellule pacemaker [28,29]. Una corrente If ventricolare è propria dei miociti embrionali ed è noto che nello scompenso cardiaco in risposta all’attivazione neuroendocrina e neuroumorale si realizza uno switch verso il fenotipo embrionale che contribuisce alla progressione della sindrome.

È dunque verosimile che la ri- e sovra-espressione della corrente If a livello ventricolare sia parte integrante delle complesse alterazioni molecolari che si realizzano nello scompenso cardiaco e che sono, in ultima analisi, responsabili dell’apoptosi e dell’ipertrofia dei miociti nonché delle alterazioni del ritmo tipiche dei ventricoli che vanno incontro al processo di rimodellamento. Di conseguenza, è possibile che l’ivabradina possa esercitare effetti benefici in quelle condizioni in cui la corrente è sovra-espressa a livello ventricolare come nella disfunzione ventricolare sinistra. A questo proposito è stato disegnato uno studio multicentrico che ha come scopo di testare gli effetti dell’ivabradina sugli eventi cardiovascolari in pazienti con malattia coronarica stabile e disfunzione ventricolare sinistra. L’acronimo dello studio è BEAUTIFUL (morBidity-mortality EvAlUaTion of the If inhibitor ivabradine in patients with stable coronary artery disease and left ventricULar systolic dysfunction).


 

Bibiografia

 

1.                                            Ferrari R. Editorial: heart rate. Eur Heart J Suppl 2003;5:G1-G7.

2.                                            Ferrari R, Censi S, Mastrorilli F, Boraso A. Prognostic benefit of heart rate reduction in cardiovascular disease. Eur Heart J Suppl 2003;5:G1-G7.

3.                                            Whitering W. An account of the foxglove, and some of its medical uses: with practical remarks on dropsy, and other diseases. London: J and J Robinson, 1785.

4.                                            Ferrari R (a cura di). Come è cambiata la percezione dei farmaci cardiovascolari. Collana Monografica in Cardiologia. Pacini ed. 2004,78-79.

5.                                            The Digitalis Investigation Group. The effect of digoxin on mortality and morbidity in patient with heart failure. N Engl J Med 1997;336:525-533.

6.                                            Ferrari R (a cura di). Come è cambiata la percezione dei farmaci cardiovascolari. Collana Monografica in Cardiologia. Pacini ed. 2004,75-77.

7.                                            Doval HC, Nul DR, Grancelli Ho, et al. Randomised trial of low-dose amiodarone in severe congestive heart failure. Grupo de Estudio de la Sobrevida en la Insuficiencia Cardiaca en Argentina (GESICA). Lancet 1994;344:493-490.

8.                                            Julian D, Camm AJ, Frangin G, et al. Randomised trial of effect of amiodarone on mortalità in patients with left-ventricular dysfunction after recent myocardial infarction: EMIAT. European Myocardial Infarction Arrhythmia Trial Investigators. Lancet 1997;349:675-682.  

9.                                            Singh S, Fletcher RD, Fisher S, et al. Congestive heart failure: survival trial of antiarrhythmic therapy (CHF STAT). The CHF STAT Investigators. Control Clin Trias. 1992;13:339-350. 

10.                                         A comparison of antiarrhythmic-drug therapy with implantable defibrillators in patients resuscitated from near-fatal ventricular arrhythmias. The Antiarrhythmics versus Implantable Defibrillator (AVID) Investigators. N Engl J Med 1997;337:1576-1583.

11.                                         Amiodarone or an Implantable Cardioverter-Defibrillator for Congestive Heart Failure. GH. Bardy, DB Mark, JE Poole et al  N Engl J Med 2005;352:225-237.

12.                                         Foody JM, Farrell MH, Krumholz HM. beta-Blocker therapy in heart failure: scientific review. JAMA 2002;287:883-889.

13.                                         Svedberg K, Cleland J, Dargie H, et al. Task Force for the Diagnosis and Treatment of Chronic Heart Failure of the European Society of Cardiology. Guidelines for the diagnosis and treatment of chronic heart failure: Executive summary (update 2005): The Task Force for the Diagnosis and Treatment of Chronic Heart Failure of the European Society of Cardiology. Eur Heart J 2005;26:1115-1140.

14.                                         Ferrari R (a cura di). Come è cambiata la percezione dei farmaci cardiovascolari. Collana Monografica in Cardiologia. Pacini ed. 2004, 37-48.

15.                                         Bohm M, Maack C. Treatment of heart failure with beta-blockers. Mechanisms and results. Basic Res Cardiol 2000; 95:I15-I24.

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