DIABETE MELLITO E INFARTO MIOCARDICO ACUTO

Marino Scherillo, Antonello D'Andrea, Francesco Vigorito, Fortunato Scotto di Uccio, Francesco Moscato, Teresa Ionico, Maria Di Donato, Ettore De Fortuna.
Cardiologia Interventistica ed UTIC Azienda Ospedaliera Rummo, Benevento

Il contesto epidemiologico
il diabete come malattia sociale
Il diabete mellito ha una prevalenza di circa l'8% nella popolazione adulta degli Stati Uniti e di gran parte dell'Europa, con più di 150 milioni di casi nella popolazione mondiale (1-4). La forma clinica predominante di diabete è quella di tipo II, che include il 95% dei casi. Il diabete di tipo I è prevalente nella popolazione giovanile, ma dati recenti indicano un netto incremento di casi di diabete tipo II anche nel gruppo di pazienti più giovani.Negli USA il diabete ha una prevalenza oscillante tra l'1% - nella fascia di età tra i 20 e i 39 anni - e il 13% nei soggetti con età maggiore di 60 anni. Circa 6 milioni di pazienti non riceve una diagnosi definitiva, quando si utilizza il criterio diagnostico della glicemia a digiuno, e pertanto non riceve terapia farmacologica. La percentuale dei pazienti con diabete non correttamente diagnosticato passa infatti dallo 0.6 % nei soggetti tra i 29 e i 39 anni al 6% nei pazienti con più di 60 anni.La prevalenza del diabete tipo II nel mondo occidentale è in costante ed impressionante ascesa. Questo fenomeno è stato attribuito ad una serie di fattori quali:
- l'incremento dell'età media della popolazione;
- la crescente diffusione dell'obesità;
- l'alimentazione occidentale ricca di grassi e povera di fibre;
- la progressiva riduzione dell'attività fisica quotidiana.
Ulteriore contributo all'incremento della prevalenza del diabete è stata la revisione dei criteri diagnostici da parte sia della American Diabetes Association (ADA) che della Word Health Organization (WHO). In particolare, i criteri della ADA si basano sulla sola rilevazione della glicemia a digiuno (> 7 mmol/l - 126 mg/dl), e sono quindi più facilmente applicabili dei parametri della WHO, basati sulla curva da carico orale di glucosio. Negli anni Sessanta solo il 2.6% della popolazione > 45 anni aveva una diagnosi definita di diabete. Negli anni '90 questa percentuale è salita al 7%. E' interessante notare come questo andamento sia parallelo a quello dell'obesità. Nel 1960, infatti, il 13% dei cittadini americani era obeso (Body Mass Index > 30 kg/m2); nel 1999 si è passati ad una percentuale del 27%. Il confronto tra i dati del National Health and Nutrition Examination Survey II e III, del 1973 e 1994 rispettivamente, hanno evidenziato in soli 20 anni un incremento del numero di pazienti diabetici da 8 milioni a circa 17 milioni di casi nei soli USA (4). Il diabete colpisce in maniera analoga uomini e donne, e presenta una particolare frequenza in particolari gruppi etnici come gli Indiani americani, gli Africani, i popoli dell'Estremo Oriente e delle Isole Nauru e Mauritius. In generale, il maggiore contributo alla crescita della prevalenza del diabete negli ultimi anni è stato fornito dai paesi in via di sviluppo, in seguito a cambiamenti nello stile di vita con minore attività fisica e alimentazione di tipo occidentale. Ad esempio, la prevalenza del diabete in Cina dal 1986 al 1996 si è addirittura triplicata, con un incremento di casi previsto nel 2025 fino a 38 milioni di casi, mentre nella popolazione indiana il numero previsto di casi sale fino a 57 milioni di pazienti! Sulla base di tale trend in crescita continua, la WHO ha previsto che la prevalenza del diabete si raddoppierà nei prossimi 22 anni, fino a raggiungere i 300 milioni di casi nel 2025! (2)

la malattia cardiovascolare nel diabete
La prevalenza, l'incidenza e la mortalità per tutte le forme di malattie cardiovascolari (infarto miocardico acuto, stroke, vasculopatie periferiche, scompenso cardiaco congestizio) è nettamente maggiore nel soggetto affetto da diabete mellito rispetto a quello non diabetico (5-8). L'aumento di rischio è comune al diabete di tipo I e II, ma anche a forme più blande di disordini del metabolismo glucidico come l'intolleranza ai glicidi o l'insulino-resistenza. Negli Stati Uniti, dove il diabete è la quarta più comune causa di morte, le malattie cardiovascolari sono responsabili dell' 80% della mortalità totale dei soggetti con diabete tipo II. In particolare, il rischio relativo di morte per malattia cardiovascolare nel paziente con diabete è tra 1.5 e 2.5 nell'uomo, e tra 1.7 e 4 nella donna. Il tasso annuale di mortalità nei diabetici adulti è del 5.4%, il doppio che nei soggetti non diabetici, e l'aspettativa di vita è di 5-10 anni inferiore. Nella popolazione inglese, l'United Kingdom Prospective Diabetes Study ha evidenziato nella popolazione diabetica un rischio a 10 anni di eventi cardiovascolari 4 volte maggiore alla popolazione sana (5). Riguardo alla prevalenza di cardiopatia ischemica fatale e non fatale nel diabetico, il National US Survey data indica una percentuale di eventi legati a tali patologie oscillante tra il 4% nei soggetti tra i 18 ed i 44 anni e il 20% della popolazione con più di 60 anni. Questi dati di prevalenza sono circa 20 volte superiori ai pazienti non diabetici. I dati del National US Survey sono basati su informazioni ricavate direttamente dal malato. Ulteriori studi di comunità, in cui la presenza di diabete è stata testimoniata con curva da carico orale di glucosio, evidenziano prevalenze di eventi cardiovascolari ancora maggiori, in alcuni casi selezionati tra il 40 ed il 50%! (4)Il semplice dato di un'aumentata prevalenza di cardiopatia ischemica non testimonia però fino in fondo quanto gravi siano le implicazioni cardiovascolari nel soggetto diabetico. I pazienti con diabete sono particolarmente a rischio di eventi cardiovascolari perché: sviluppano cardiopatia ischemica in età più giovane;
· presentano una malattia vascolare pluridistrettuale, con ridotta riserva vasodilatatoria coronarica e maggiore rischio di scompenso cardiaco acuto;
· hanno un tasso di mortalità intraospedaliera da 2 a 4 volte maggiore (sia in epoca pre- che post-trombolisi);
· in seguito ad un primo episodio di una sindrome coronarica acuta (sia con ST sopraslivellato che con ST sottoslivellato), hanno una prognosi peggiore ed un maggiore rischio di reinfarto;
· lo scompenso/shock cardiogeno associati all'infarto sono più comuni e più gravi di quanto ci si aspetterebbe sulla base dell'estensione dell'area di necrosi.
Esistono diverse motivazioni alla base di questi dati. Numerosi trials sul trattamento trombolitico dell'infarto miocardio acuto (IMA) hanno dimostrato la maggiore efficacia e i migliori risultati a lungo termine della terapia riducendo il tempo tra l'insorgenza dei sintomi e l'accesso in ospedale (9-12). I pazienti diabetici, in particolar modo in presenza di neuropatia autonomica, hanno un diminuita percezione del dolore, e possono non riconoscere come equivalenti ischemici alcune manifestazioni atipiche dell'ischemia (dispnea, nausea, vomito, disturbi dell'equilibrio glucidico). Nel GUSTO I, i pazienti diabetici si presentavano infatti in pronto Soccorso in media 15 minuti più tardi dei non diabetici. Molto spesso inoltre l'IMA è la prima espressione clinica della cardiopatia ischemica del diabetico (9). L'interpretazione dell'ECG del paziente diabetico in pronto soccorso con sospetta sindrome coronarica acuta dovrebbe essere inoltre effettuato con attenzione. L'uso infatti di alcuni antidiabetici orali può produrre modifiche dell'ECG in grado di mascherare tipici segni elettrocardiografici di ischemia. In particolare, in modelli animali l'uso della solfonilurea è stato associato ad una ridotta ampiezza del sopraslivellamento del tratto ST e dell'onda T durante la fase acuta dell'ischemia (4). La sola presenza di diabete determina un rischio di eventi cardiovascolari analogo a quello di soggetti non diabetici dopo IMA. Alcuni fattori intrinseci al diabete possono non solo aumentare il rischi di IMA ma anche peggiorarne la prognosi. Fino al 50% degli individui con diabete tipo II e durata della malattia superiore ai 10 anni presentano una disfunzione del sistema autonomico in grado di alterare l'Heart Rate Variability. Tale disfunzione del sistema nervoso autonomico può determinare uno squilibrio simpato-vagale in grado di ridurre la soglia di aritmie maligne ed aumentare il rischi di instabilità emodinamica. L'elevato numero di decessi intraospedalieri è dovuto però in prima istanza ad un aumento del rischio di scompenso cardiaco e shock cardiogeno. Il ventricolo sinistro del diabetico è infatti maggiormente predisposto ad un "remodeling" negativo, con sviluppo di insufficienza ventricolare sinistra indipendentemente dalle dimensioni dell'area infartuale valutata con rilevazioni enzimatiche, ventricolografia radioisotopica o ecocardiogramma (13). Diversi studi autoptici hanno confermato come alla base di tale fenomeno sia l'aumentata estensione della coronaropatia arteriosclerotica presente nei diabetici. Gli stessi studi angiografici sui grossi trials clinici che coinvolgono soggetti con IMA rilevano, nel sottogruppo dei diabetici, una malattia coronarica significativamente più estesa, e, a parità del numero di vasi colpiti, solitamente più grave, con localizzazione delle lesioni in sede prossimale e distale e minor sviluppo di circoli collaterali. Inoltre il "remodeling" della parete vasale in prossimità della placca aterosclerotica osservato in prelievi autoptici Hanno dimostrato già quindici anni fa su prelievi autoptici di pazienti Nei pazienti diabetici, inoltre, alla malattia ateromasica dei vasi epicardici si associa la disfunzione endoteliale che coinvolge il microcircolo, con ridotta capacità di vasodilatazione compensatoria in condizioni di ischemia critica e con aumento della sofferenza tissutale (15-16). Nei pazienti diabetici sopravvissuti ad un primo IMA, anche la prognosi a lungo termine risulta peggiore di quella del soggetto non diabetico. I fattori che condizionano l'evoluzione sfavorevole post-IMA sono rappresentati dall'estensione della disfunzione contrattile del ventricolo sinistro, dalla quantità di miocardio a rischio di un nuovo episodio ischemico, dalla diatesi trombofilica e dall'alta prevalenza di comorbilità come la dislipidemia, l'insufficienza renale, la vasculopatia cerebrale e periferica (17). Al momento attuale il 20% dei pazienti con malattia cardiovascolare è diabetico, e questo numero è destinato a crescere ancora così come è in crescita la prevalenza del diabete. Nonostante questi impressionanti dati, in un'indagine condotta dall'ADA in un campione di 2008 pazienti diabetici, circa il 70% dei soggetti interrogati non credeva ad una associazione così stretta tra diabete e malattia cardiovascolare.

Sindromi coronariche acute e diabete: modelli fisiopatologici
Lo sviluppo del diabete e quindi delle complicanze micro- e macrovascolari che conducono a manifestazione cliniche quali le sindromi coronariche acute (SCA) rappresenta verosimilmente un contiunuum di eventi fisiopatologici soltanto in parte conosciuti. L'incidenza di eventi cardiovascolari nella popolazione dei diabetici è notoriamente superiore rispetto alla popolazione dei non diabetici con prognosi peggiore sia a breve che a lungo termine. In una recente meta-analisi comprendente sei studi randomizzati in paziente con SCA l'odds ratio era vicino a 2 per la mortalità a 30 giorni nel sottogruppo dei pazienti diabetici. Evidenze cliniche e sperimentali hanno sottolineato come il diabete rappresenti il fattore di rischio conosciuto più potente nello sviluppo della patologia aterosclerotica. La patogenesi della malattia aterosclerotica nei diabetici è complessa e multifattoriale. Un tentativo di classificazione dei diversi meccanismi coinvolti è stato recentemente proposto, individuando cinque possibili differenti fattori: l'alterato metabolismo, la disfunzione endoteliale, l'eccessiva ossidazione/glicosilazione, lo stato protrombotico e il processo infiammatorio (18). La stretta interazione tra questi meccanismi contribuisce alla precoce comparsa e alla rapida progressione della malattia aterosclerotica coronarica, nonché allo sviluppo di una placca aterosclerotica con maggiori caratteristiche di vulnerabilità e quindi piu' frequentemente causa di SCA.

Fattori metabolici

Il primo evento nella formazione della placca aterosclerotica è l'accumulo di LDL-colesterolo nella matrice sotto-endoteliale. Nei pazienti con diabete di tipo II, i livelli di LDL-colesterolo non sono generalmente più alti rispetto ai pazienti non diabetici (19) in compenso la diminuita attività della lipoprotein-lipasi favorisce la formazione di particelle di LDL-colesterolo piu' piccole, dense con maggiore tendenza all'ossidazione e alla captazione da parte dei monociti circolanti e delle cellule muscolari lisce della parete vasale (20). L'insulino resistenza, l'iperglicemia e la conseguente formazione di advanced glycation end product (AGEs) riducono la produzione di NO, favoriscono l'espressione di molecole di adesione sulle cellule endoteliali e rappresentano un potente stimolo infiammatorio favorendo la migrazione e la proliferazione delle cellule muscolari (18). Diversi studi epidemiologici hanno mostrato una correlazione tra i valori di iperglicemia e gli eventi cardiovascolari (1). L'iperglicemia come fattore di rischio indipendente nella patogenesi dell'aterosclerosi e nell'incidenza di eventi acuti è ancora oggetto di discussioni.

Ossidazione/Glicossidazione
La glicosilazione spontanea che interessa molecole differenti quali lipidi, proteine e acidi nucleici con formazione di AGEs è tipicamente associata nei diabetici a reazioni ossidative in un processo che prende nome di glico-ossidazione (21). Gli AGEs così formati agiscono su vari tessuti e compartimenti cellulari con diversi meccanismi tra i quali la formazione di cross-bridges tra macromolecole e conseguente irrigidimento della parete vascolare, l'accumulo nella matrice sotto-endoteliale di sostanze quali le LDL ossidate con formazione di foam-cell e l'attivazione di mediatori dell'infiammazione quali citochine e fattori di crescita (22).
Infiammazione
L'importanza dell'infiammazione nelle SCA è stata largamente studiata ma il suo ruolo nel paziente diabetico non è ancora del tutto chiarito (23). Tra i numerosi markers infiammatori isolati nella placca aterosclerotica le citochine giocano un ruolo chiave nel processo aterosclerotico influenzando la sintesi dei fattori di attivazione piastrinica, l'espressione sulla superfice cellulare di molecole di adesione e di fattori procoagulanti. L'ossidazione e la glicosilazione di lipidi e proteine, frequentemente osservata nel diabete, stimola l'attivazione di macrofagi e linfociti T con conseguente rilascio di grandi quantità di citochine. Inoltre grande importanza viene attribuita alla formazione di immunocomplessi che possono favorire l'inizio e la progressione della lesione aterosclerotica nonché contribuire alla rottura della placca con conseguente innesco della SCA (18).

Disfunzione endoteliale
Numerosi dati hanno evidenziato come la disfunzione endoteliale, valutata come risposta a stimoli vasodilatatori ossido-nitrico (NO) dipendenti quali l'acetilcolina, rappresenti un marker precoce nello sviluppo della patologia aterosclerotica. Nei pazienti con ridotta sensibilità all'insulina è stata documentata una riduzione della vasodilatazione endotelio-dipendente determinata da una ridotta produzione di NO. Inoltre la compromissione della funzione endoteliale si accompagna ad un'alterata espressione di molecole di adesione con un incremento dell'adesitività monocitaria e della permeabilità della barriera endoteliale (preludio alla migrazione delle cellule nel sub-endotelio). L'iperglicemia e l'iperinsulinemia stimolano la produzione di endotelina I, uno tra i più potenti agenti conosciuti ad azione vasocostrittrice, con importanti conseguenze sulla genesi delle SCA (24).

Trombosi.
Il diabete si associa ad uno stato protrombotico conseguenza di alterati equilibri tra fenomeni pro- e antitrombotici nonché ad alterazioni della risposta fibirinolitica. Nei diabetici di tipo II è stata documentata un'iperattività piastrinica con piastrine di maggiori dimensioni, iper-espressione di recettori come quelli per la glicoproteina IIb-IIIa, aumentata sintesi di sostanze ad azione pro-aggerante quali ADP e trombossano A2. Inoltre l'aumento dei valori del fibrinogeno, del Fattore VII e VIII, del Fattore di Von-Willenbrand e i bassi valori di antitrombina e proteina C contribuiscono allo stato di ipercoagulabilità (25). L'incremento della concentrazione plasmatica di PAI 1 (inibitore naturale dell'attivatore del plasminogeno) spiega l'alterata risposta fibrinolitica che si accompagna al diabete (26).

Caratteristiche della placca aterosclerotica
Le placche aterosclerotiche nel diabete sono caratteristicamente ricche di macrofagi attivati con produzione di grandi quantità di proteinasi e conseguente ridotta produzione di fibre collagene. Viene così favorita la formazione di un cappuccio fibroso sottile più vulnerabile e maggiormente esposto a complicanze quali la rottura. Inoltre la presenza di un core lipidico ricco in lipidi e povero di cellule muscolari rappresenta se esposto al torrente circolatorio un potentissimo stimolo trombogeno. In studi clinici condotti utilizzando l'angioscopia coronarica in pazienti con SCA, il diabete si associava alla presenza di placche di maggiori dimensioni e con frequenti segni di ulcerazione e di trombi intracoronarici (27).
Recentemente, l'analisi su prelievi ottenuti mediante aterectomie coronariche in pazienti con SCA, mostrava nei pazienti diabetici placche a maggior contenuto di lipidi, con maggiore infiltrazione macrofagica e con maggiore incidenza di trombi (28).

Sindromi coronariche acute e diabete: modelli clinici.

Sindromi Coronariche Acute con sopraslivellamento persistente del tratto ST (STEMI)
Il ruolo fondamentale della presenza di diabete mellito nella stratificazione del rischio del paziente con sindrome coronarica acuta e sopraslivellamento persistente del tratto ST (STEMI) è stato ampiamente dimostrato. I risultati dei grandi trials sulla trombolisi sistemica hanno infatti evidenziato la notevole influenza negativa del diabete sull'outcome del paziente e la relativa efficacia del fibrinolitico in tali casi.
Nel trial GUSTO-I (9), il sottogruppo di 5944 pazienti diabetici è risultato mediamente più anziano, con maggiore incidenza di sesso femminile, IMA anteriore e malattia coronarica trivasale. In tali pazienti la mortalità a 30 giorni era del 10.5% (12.5% negli insulino-dipendenti; 9.7% in quelli con altre terapie), rispetto al 6.2 % dei non diabetici. Anche la mortalità ad un anno dall'evento acuto è risultata maggiore (14.5% vs. 8.9%), confermando un trend in continua ascesa nel tempo.
Nel sottostudio angiografico del GUSTO I è stata valutata la pervietà a 90 minuti dell'arteria responsabile della necrosi dopo somministrazione del trombolitico in 2.431 pazienti, il 18% dei quali (310) era diabetico. Una successiva valutazione angiografica a 5-7 giorni ha consentito una stima della percentuale di riocclusione spontanea del vaso. Il rilievo di un flusso TIMI 2-3 nel vaso di necrosi a 90 minuti, indice di successo della terapia fibrinolitica, è risultato distribuito in maniera sovrapponibile nei soggetti diabetici e non (66.6% vs 70.1%). La ri-occlusione di un'arteria inizialmente pervia si è verificata invece nel 9.2% dei diabetici e nel 5:3% dei non diabetici. Inoltre, i pazienti diabetici successivamente sottoposti a PCI elettiva a 7 giorni dall'IMA o a PCI "rescue" post-trombolisi, hanno manifestato una mortalità 3 volte superiore ai non diabetici al follow-up (12,14).
Oltre ad una peggiore prognosi, la presenza di diabete all'anamnesi è stata associata ad un ridotto uso del trombolitico in corso di IMA. Nel SAVE study, tra i pazienti con IMA non sottoposti a fibrinolisi (67% del totale), il diabete era un predittore indipendente del non-uso del trombolitico (5). Alla luce dei grandi trials, tale prudente atteggiamento terapeutico non appare giustificato. I pazienti diabetici mostrano infatti solo un minimo incremento (13% vs 11%) dei sanguinamenti minori post-trombolisi, senza nessuna variazione significativa dei sanguinamenti maggiori, delle emorragie intracraniche o intraoculari (29).
Nella recente Task Force dell'European Society of Cardiology sul trattamento dell'IMA con STEMI, viene chiaramente sottolineato come il diabete mellito non sia una controindicazione alla trombolisi, anche in presenza di retinopatia diabetica (30). La terapia con beta-bloccanti ed Ace-inibitori sembra essere in questi pazienti ancora più efficace che in altri, con un rischio trascurabile di complicanze. Dai dati infatti dei pazienti diabetici arruolati in alcuni studi degli anni '80 sull'uso del betabloccante nell'IMA, la riduzione della mortalità e del reinfarto ottenuta col farmaco risulta di due volte maggiore rispetto a quella dei non diabetici (31-32).
Risulta inoltre essenziale ottenere un adeguato controllo dei valori di glicemia normalmente alterati nelle fasi acute dell'IMA. Lo studio DIGAMI ha arruolato 620 pazienti con diabete ed IMA randomizzati al trattamento con infusione di glucosata ed insulina nelle prime 24 ore, seguita dalla somministrazione dell'insulina sottocute, vs.un trattamento convenzionale non aggressivo dell'iperglicemia. Al follow-up di 3.4 anni di media, la mortalità del gruppo trattato in modo intensivo è stata del 33% vs. il 44% del gruppo di controllo. I vantaggi maggiori si sono verificati nel gruppo di diabetici (272 pazienti) che non avevano mai assunto insulina prima dell'arruolamento, e che all'ingresso avevano un basso profilo di rischio cardiovascolare (33).
Riguardo all'utilizzo PCI primaria nell'IMA, non esistono al momento attuale studi rivolti specificamente ai pazienti diabetici. La maggior parte dei dati in letteratura deriva da sottoanalisi di trials di grosse dimensioni.
Il GUSTO-IIb primary angioplasty substudy ha confrontato in 1138 pazienti con IMA la validità della PCI primaria al confronto con la trombolisi nel ridurre l'incidenza di eventi cardiovascolari a 30 giorni. Nel braccio dei pazienti trattati con PCI, la frequenza di eventi era maggiore nei pazienti diabetici (16% del totale) rispetto ai non diabetici (11.1% vs. 9.3%). Tuttavia, dopo PCI la prognosi a 30 giorni era nettamente migliore sia nel gruppo dei diabetici (OR: 0.70; 95% CI: 0.29-1.72) che dei non diabetici (OR: 0.62; 95% CI 0.41-0.96) (14).
In un'analisi combinata di due grandi trials sull'utilizzo della PCI primaria (GUSTO-IIb e RAPPORT), la presenza del diabete non era una variabile predittiva di aumentato rischio di morte o reinfarto a 30 giorni. Una recente analisi derivante dalla coorte dei pazienti del GUSTO I ha fornito utili informazioni sull'importanza di un ampio gruppo di caratteristiche cliniche registrabili all'ingresso nel predire la mortalità a 30 giorni nei pazienti con STEMI entro 6 ore dall'insorgenza dei sintomi. Fra i più importanti fattori di rischio di morte vi sono: l'età (2.4% nei giovani vs. 20.5% negli ultrasettantacinquenni); la pressione arteriosa sistolica (7-9% se > 100 vs. 30% se < 100 mmHg); la frequenza cardiaca (7-9% se < 100 vs. 17 % se > 100 bpm); la classe Killip (5% per la I vs. 58% se la IV); la localizzazione anteriore dell'IMA (9.9% vs. 5% per le altre localizzazioni); il diabete mellito (11 % vs. 6 % nei non diabetici) (9).
Anche nel TIMI risk score (Tab 1) il diabete è stato inserito come una delle variabili indipendenti che insieme raccolgono il 97% del peso prognostico di tutte le variabili correlate al rischio di morte.
Nel recente Documento di Consenso ANMCO-SIC sul trattamento dello STEMI IMA viene chiaramente specificato che i pazienti con IMA sono considerati ad alto rischio di eventi in caso di TIMI risk score = 4. Tale importante parametro, associato ad altre caratteristiche quali la presenza di edema polmonare o shock cardiogeno, ad un sopraslivellamento del tratto ST in > 4 derivazioni, e alla presenza di un re-IMA eterosede, indirizzano verso una strategia terapeutica più aggressiva che includa l'invio alla PCI primaria piuttosto che a trombolisi entro 6 ore dall'insorgenza dei sintomi (34).
Riguardo all'uso degli inibitori del recettore GpIIb/IIIa e degli stents durante PCI, i trials sull'argomento hanno incluso un numero significativo di pazienti diabetici. Nel CADILLAC trial, dove venivano confrontate quattro strategie riperfusive in pazienti con STEMI, l'approccio combinato con abciximab e stenting era quello con i migliori benefici nella popolazione diabetica (16.6% del totale di 2082 pazienti) come in tutti gli altri sottogruppi esaminati. In modo ancora più eclatante, nel trial ADMIRAL, dove venivano confrontati pazienti con STEMI e PCI primaria sottoposti o meno a terapia con inibitori recettoriali, l'uso dell'abciximab ha garantito nel paziente diabetico vantaggi ancora maggiori rispetto alla popolazione totale dello studio in termini di riduzione di rischio di morte o reinfarto a 30 giorni (13.9% vs 8.0%) (9,35,36).
Nonostante questi dati incoraggianti, la presenza di diabete sembra essere associata ad un rischio maggiore di complicanze dopo PCI primaria. In una coorte di 104 pazienti consecutivi sottoposti a stenting primario, gli unici predittori indipendenti di trombosi dello stent sono stati il fumo di sigaretta ed il diabete mellito (36). Questi dati preliminari suggeriscono quindi un possibile ruolo del diabete nel determinare trombosi acuta dello stent in corso di PCI primaria, oltre al già ben definito rischio di restenosi dello stent nel follow-up post-PCI elettiva.

Infarto miocardico acuto senza ST elevato persistente
I pazienti ospedalizzati per infarto miocardio acuto non ST elevato persistente (NSTEMI) possono essere gestiti dal punto di vista terapeutico con una strategia di tipo conservativo o "early conservative", con stabilizzazione clinica, stratificazione e coronarografia solo se instabili, o di tipo interventistico o "early invasive", con coronarografia di routine e PCI entro 48 ore dall'ammissione nella maggior parte di casi (37,28). Questi due differenti approcci sono stati largamente studiati in diversi trials ma non specificamente nei diabetici.
Un maggiore beneficio sulla riduzione della mortalità del paziente diabetico con NSTEMI ottenuto della strategia interventistica rispetto a quella conservativa è stato dimostrato sia nel FRISC-II (riduzione del rischio nel diabetico: 6.2% vs 2.3% del non diabetico) che nel TACTICS-TIMI 18 trial (7.6% vs 3.5 %) (5).
Di notevole interesse ed impatto clinico-terapeutico sono invece i dati sull'utilizzo nel paziente diabetico con NSETMI degli inibitori recettoriali anti-IIb-IIIa.
Nel PRISM-PLUS trial (1570 pazienti), Theroux et al, valutando l'utilizzo del tirofiban in aggiunta alla terapia anti-trombotica standard nel sottogruppo di 362 pazienti con diabete, ha dimostrato come tale farmaco sia in grado di ridurre la mortalità a 6 mesi dal 19.2% vs 11.2%, e come l'effetto terapeutico sia stato più efficace nel paziente diabetico rispetto al non diabetico (39).
Roffi et al., in una metanalisi di 6 trials randomizzati sull'utilizzo dei GpIIb/IIIa -i nel NSTEMI, hanno evidenziato come in 6458 pazienti diabetici tale trattamento è stato associato con una significativa riduzione della mortalità a 30 giorni (dal 6.2% al 4.6% - rischio relativo 0.59-0.92; p=0.007). In 1279 pazienti diabetici sottoposti a PCI durante il ricovero, l'uso dei GP IIb/IIIa-i è stato associato ad una riduzione della mortalità a 30 giorni dal 4% all'1.2% (RR: 0.14-0.69; p = 0.002) (40). Analogamente, Boersma et al, analizzando i dati individuali dei pazienti partecipanti agli stessi 6 trials, hanno evidenziato come i pazienti diabetici sottoposti all'uso di GpIIb/IIIa-i (22% della popolazione), pur mantenendo un rischio più elevato di eventi rispetto al non diabetico (13.7% vs 10.6%), ricevono da tale terapia un maggiore beneficio terapeutico, suggerendone un uso estensivo, specialmente in caso di coronarografia precoce per eventuale rivascolarizzzione (41).
Anche l'utilizzo della terapia anti-aggregante piastrinica orale ha dimostrato notevole importanza nel paziente diabetico. Nell'Anti-Platelet Trialists Collaboration Group Study, l'uso di aspirina ha ridotto il rischio combinato di morte, infarto e stroke del 19% nei pazienti diabetici (5). Nel CURE trial (12.562 pazienti con NSTEMI randomizzati a trattamento con aspirina vs aspirina + clopidrogel), i pazienti con diabete presentavano come sempre un rischio più elevato di eventi dei non diabetici (14.2 vs 7.9 %). Tuttavia, la riduzione assoluta e relativa del rischio con utilizzo della terapia combinata era analoga tra diabetici e non diabetici (2.5% vs 2.0%) (42).
Nelle recenti Linee Guida dell'European Society of Cardiology, i pazienti con NSTEMI considerati ad alto rischio di progressione verso infarto o morte sono quelli con:
- ischemia ricorrente (modifiche transitorie del tratto ST: sopra o sottoslivellamento)
- angina precoce post-infartuale;
- diabete mellito;
- instabilità emodinamica o elettrica;
- livelli elevati di troponina
- pattern elettrocardiografico che preclude la valutazione del tratto ST.
Di conseguenza, la sola presenza del diabete mellito tra i fattori di rischio autorizza un trattamento maggiormente aggressivo della SCA (38). In particolare, il trattamento standard dovrebbe includere sempre l'impiego di:
- betabloccanti;
- nitroderivati;
- eparina a basso peso molecolare;
- acido acetilsalicilico (75-100 mg/die)
- clopidogrel (dose di carico 300 mg ; dose mantenimento 75 mg/die).
Inoltre in tali pazienti ad alto rischio le seguenti accortezze dovrebbero essere pianificate nella strategia terapeutica:
- l'esame coronarografico dovrebbe essere pianificato il più presto possibile. Solo nel caso di ischemia severa, instabilità elettrica o emodinamica, l'esame dovrebbe essere eseguito nella prima ora dall'insorgenza dei sintomi. Nella maggior parte dei casi la procedura può essere pianificata nelle successive 48 ore o almeno nel corso della durata del ricovero.
- nell'attesa dell'esame coronarografico, le eparine a basso peso molecolare andrebbero continuate, e andrebbe iniziata una terapia infusiva con GpIIb/IIIa-i. In caso di PCI, la somministrazione di GpIIb/IIIa-i andrebbe continuata per 12 ore (abciximab) o 24 ore (tirofiban - eptifibatide).
- il clopidrogel andrebbe prescritto per almeno 9 mesi, possibilmente 12 mesi dall'evento.

Conclusioni
Alla luce dei dati in letteratura è possibile concludere che:
1) i soggetti diabetici nel mondo sono circa 150 milioni, sono in costante crescita, e nel 75% dei casi muoiono per cardiopatia ischemica;
2) il paziente diabetico con IMA presenta una maggiore prevalenza di malattia coronarica travasale, un maggiore rischio di reinfarto e di scompenso cardiaco congestizio, una mortalità intraospedaliera e a lungo termine 2-4 volte maggiore rispetto al non diabetico;
3) nelle sindromi coronariche acute con STEMI (tab. 2), il paziente diabetico dovrebbe essere sempre sottoposto in tempi brevi a terapia farmacologia massimale che includa fibrinolisi, antiaggreganti piastrinici, antitrombotici, betabloccanti, ace-inibitori e, nei casi ad alto rischio, ad una PCI primaria o "rescue" con impianto di stent;
4) il paziente diabetico con sindrome coronarica acuta NSTEMI (tab. 2) viene considerato sempre ad elevato rischio, e andrebbe sottoposto a terapia standard massimale (betabloccanti, eparina a basso peso molecolare, ASA, clopidogrel), seguita da infusione di Gp IIb/IIIa-i e ad esame coronarografico precoce per eventuale PCI.

BIBLIOGRAFIA
1. Howard BV at al. Prevention Conference VI. Diabetes and cardiovascular disease. Writing Group I: Epidemiology. Circulation 2002;105:e132-e137.
2. Fisher M. Diabetes: can we stop the time bomb?
Heart. 2003;89:28-30
3. Wahab, NN, Cowden, EA, Pearce, NJ, et al. Is blood glucose an independent predictor of mortality in acute myocardial infarction in the thrombolytic era? J Am Coll Cardiol 2002; 40:1748.
4. Grundy SM, Howard B, Smith S Jr et al. Prevention Conference VI: Diabetes and Cardiovascular Disease: executive summary: conference proceeding for healthcare professionals from a special writing group of the American Heart Association. Circulation. 2002 ;105:2231-9.
5. Bonow RO, Mitch WE, Nesto RW. Prevention Conference VI: Diabetes and Cardiovascular Disease: Writing Group V: management of cardiovascular-renal complications. Circulation. 2002;105:e159-64
6. Mc Guire DK et al. Diabetes and ischemic heart disease. Am Heart J 1999;138:366-375
7. Zuanetti G. et al. Influence of diabetes on mortalità in acute myocardial infarction: data from GISSI-2 study. J Am Coll Cardiol 1993;22:1788-1794.
8. Winer N, Sowers JR. Cardiovascular risk factors in diabetic patients with hypertension. Curr Diab Rep. 2002 ;2:263-6.
9. The GUSTO Investigators. An international randomised trial comparing four thrombolytic strategies for acute myocardial infarction. N Engl J Med 1993;329:673-682.
10. Mak KH. et al. Influence of diabetes mellitus on clinical outcome in thrombolytic era of acute myocardial inferction. J Am Coll Cardiol 1997;30:171-179.
11. Mc Guire DK. et al. Influence of diabetes mellitus on clinical outcomes across the spectrum of acute coronary syndromes. Findings from the GUSTO Iib Study. Eur Heart J 2000;21:1750-1758.
12. Woodfield SL et al. Angiographic findings and outcome in diabetic patients treated with thrombolytic theraphy for acute myocardial infarction: the GUSTO-I experience. J Am Coll Cardiol 1996;28:1661-1669.
13. Tedesco JV, Wright RS, Williams BA, et al. Effect of diabetes on the mortality risk of cardiogenic shock in a community-based population.
Mayo Clin Proc. 2003;78:561-6.
14. Hasdai D et al. Diabetes mellitus and outcome after primary coronary angioplasty for acute myocardial infarction: lessons from the GUSTO -IIb angioplasty substudy. J Am Coll Cardiol 2000;35:1502-1512.
15. Angeja BG, de Lemos J, Murphy SA. Impact of diabetes mellitus on epicardial and microvascular flow after fibrinolytic therapy.
Am Heart J. 2002;144:649-56.
16. Zairis MN, Makrygiannis SS, Papadaki OA et al. Diabetes and ST elevation myocardial infarction: how successful is intravenous thrombolysis for the diabetic heart? Diabetes Care. 2002;25:1890-1.
17. Aronson D et al. Mechanism determining course and outcome of diabetic patients who have had acute myocardial infarction. Ann Intern Med 1997;126:296-306
18. Eckel RH, Wassef M, Chait A, Sobel B, et al. Prevention Conference VI. Diabetes and cardiovascular disease. Writing Group II: Pathogenesis of Atherosclerosis in Diabetes. Circulation 2002;105:e138-e148.
19. Laakso M. Epidemiology of Diabetic dyslipidemia. Diabetes Rev 1995; 3: 408-22.
20. Sniderman AD, Scanteblury T, Ciaflone K. Hypertriglyceridemic hyperaboB: the unappreciated atherogenic dyslipoproteinemia in type 2 diabetes mellitus. Ann Intenr Med 2001; 135: 447-59.
21. Schmidt AM, Hori O, Brett J, et al. Cellular receptors for advanced glycation end products: implications for induction of oxidant stress and cellular dysfunction in the pathogenesis of vascular lesions. Arterioscler Thromb. 1994; 14:1521-1528.
22. Baynes JW. Role of oxidative stress in development of complications in diabetes. Diabetes 1991; 40: 405-412.
23. Ross. R. Atherosclerosis: an inflammatory disease. N Engl J Med 1999; 340: 115-126.
24. Calles-Escandon J., Cipolla M. Diabetes and endothelial dysfunction: a clinical perspective. Endocr Rev 2001; 22:36-52.
25. Schneider DJ, Sobel BE. Diabetes and thrombosis: In: Johnstone MT, Veves A, eds. Diabtes and Cardiovascular Disease. Totowa NJ: Humana Press; 2001.
26. Juhan-Vague I, Alessi MC, Vague P. Increased plasma plasminogen activator inhibitor 1 levels : a possible link between insulin resistance and atherothrombosis. Diabetologia 1991; 34: 457-462.
27. Silva JA, Escobar A, Collins TJ, Ramee SR, White CJ. Unstable angina. A comparison of angioscopic findings between diabetic and nondiabetic patients. Circulation 1995; 92: 1731-6.
28. Moreno PR, Murcia AM, Palacios IF, et al. Coronary composition and macrophage infiltration in atherectomy specimens from patients with diabetes mellitus. Circulation 2000; 102: 2180-4.
29. Mahaffey KW, Granger CB, Toth CA, et al. for the GUSTO-I Investigators. Diabetic retinopathy should not be a contraindication to thrombolytic therapy for acute myocardial infarction: Review of ocular hemorrhage incidence and location in the GUSTO-I trial. J Am Coll Cardiol 1997; 30:1606.
30. Van de Werf F, Ardissimo D, Betriu A, et al. Management of acute myocardial inferction in patients presenting with ST-segment elevation. Eur Heart J 2003;24:28-66.
31. The MIAMI Trial Research Group. Metoprolol in acute myocardial infarction (MIAMI). A randomised placebo controlled international trial. Eur Heart J 1985;6:199-226.
32. Cruickshank JM. Beta-blockers and diabetes: the bad guys come good.
Cardiovasc Drugs Ther. 2002;16:457-70.
33. Malberg K for the DIGAMI Study Group. Prospective randomised study of intensive insulin treatment on long term survival after acute myocardial infarction in diabetic patients with diabetes mellitus. B M J 1997;314:1512.
34. Tavazzi L, Chiariello M, Scherillo M, et al. Acute myocardial infarction with persistent ST segment elevation: towards an appropriate diagnostic and therapeutic approach in the health care community
Ital Heart J. 2002 ;11:1127-64.
35. Harjai KJ, Stone GW, Boura J, et al. Comparison of outcomes of diabetic and nondiabetic patients undergoing primary angioplasty for acute myocardial infarction. Am J Cardiol. 2003;91:1041-5
36. Hsu LF, Mak KH, Lau KW, et al. Clinical outcomes of patients with diabetes mellitus and acute myocardial infarction treated with primary angioplasty or fibrinolysis. Heart. 2002;88:260-5.
37. Labinaz M, Madan M, O'Shea JO, et al. Comparison of one-year outcomes following coronary artery stenting in diabetic versus nondiabetic patients (from the Enhanced Suppression of the Platelet IIb/IIIa Receptor With Integrilin Therapy [ESPRIT] Trial). Am J Cardiol. 2002;90:585-90.
38. Bertrand ME, Simoons ML, Fox KAA et al. Management of acute coronary syndromes in patients without persistent ST-segment elevation. Eur Heart J 2002;23:1809-1840
39. Theroux, P, Alexander, J, Pharand, C, et al. Glycoprotein IIb/IIIa receptor blockade improves outcomes in diabetic patients presenting with unstable angina/non-ST elevation myocardial infarction. Results from the Platelet Receptor Inhibition in Ischemic Syndrome Management in Patients Limited by Unstable Signs and Symptoms (PRISM-PLUS) study. Circulation 2000; 102:2466.
40. Roffi M et al. Platelet glycoprotein Iib/IIIa inhibitors reduce mortality in diabetic patients with non-ST-segment-elevation acute coronary syndromes. Circulation 2001;104:2767-2771.
41. Boersma, E, Harrington, RA, Moliterno, DJ, et al. Platelet glycoprotein IIb/IIIa inhibitors in acute coronary syndromes: a meta-analysis of all major randomised clinical trials. Lancet 2002; 359:189.
42. Yusuf S, Zhao F, Mehta SR, et al. Effects of clopidogrel in addition to aspirin in patients with acute coronary syndromes without ST-segment elevation. N Engl J Med 2001;345:494-502.