LE STATINE NELLE SCA: QUANDO, COME E PERCHE' USARLE

Cesare Baldi
Struttura Complessa di Cardiologia Dipartimento Medico-Chirurgico di Cardiologia A.O." S. Giovanni di Dio e Ruggi d'Aragona" - Salerno

Nella letteratura scientifica e nella pratica clinica è ormai consolidato che le statine determinano una significativa riduzione della morbilità e della mortalità a lungo termine nei pazienti con elevato rischio coronarico o con cardiopatia ischemica manifesta; allo stato attuale si stanno ancora raccogliendo evidenze progressivamente crescenti sulla effettiva efficacia clinica delle statine nei pazienti affetti da sindromi coronariche acute. Gli studi di prevenzione secondaria hanno documentato che l'effetto favorevole delle statine si verifica a distanza di 1-2 anni dall'inizio del trattamento, laddove nei pazienti con sindromi coronariche acute la attesa terapeutica della riduzione degli eventi avversi si colloca in una finestra cronologica molto più precoce, a breve distanza dall'episodio acuto. Nel data base della Duke University, che raccoglie circa 22000 pazienti con infarto acuto e con angina instabile in trattamento farmacologico, si riscontra un aumento della mortalità nelle prime settimane dall'evento acuto, mentre successivamente, a distanza di 3-4 mesi, si registra una sostanziale stabilizzazione del quadro clinico confermata da una incidenza di eventi sovrapponibile a quella osservata nei pazienti con quadro di cardiopatia ischemica stabile.

Perché (usare) le statine nelle SCA?
Il primo quesito a cui bisogna rispondere è, quindi, se le statine, che si sono dimostrate farmaci estremamente efficaci nella riduzione dei lipidi ma con comparsa relativamente tardiva di questa azione terapeutica, possano risultare utili anche nei pazienti con sindromi coronariche acute, nei quali il numero maggiore di recidive ischemiche ed il rischio maggiore di mortalità si verifica precocemente nelle prime settimane dalla insorgenza dell'evento acuto.
Le attuali conoscenze in tema di biologia della aterosclerosi e di fisiopatologia delle sindromi coronariche acute rappresentano un corpo di informazioni necessario a comprendere il razionale alla base dell'impiego delle statine in questo contesto clinico.
La formazione e la instabilizzazione di una placca aterosclerotica costituiscoo i fenomeni fondamentali responsabili di una sindrome coronarica acuta: nel processo aterogenetico giocano un ruolo fondamentale la disfunzione endoteliale e le LDL circolanti; queste ultime, che provvedono a veicolare il colesterolo verso i tessuti periferici, sono state da tempo riconosciute come importanti fattori proaterogeni. Tuttavia, studi condotti sia in vivo che su modelli animali indicano che esse allo stato nativo non risultano attive in senso aterogenetico, ma assumono la capacità di modificare alcune cruciali funzioni cellulari solo quando il loro livello plasmatico ed il loro tempo di permanenza in circolo aumentano significativamente. In tali condizioni, infatti, le LDL subiscono un processo di biotrasformazione ad opera dei monociti e delle cellule endoteliali che conduce ad una progressiva perdita del loro potenziale antiossidante intrinseco e, attraverso la conversione degli acidi grassi insaturi dei fosfolipidi in idrossiacidi altamente reattivi, alla comparsa di "LDL minimamente ossidate" destinate, in presenza di processi ossidativi particolarmente spinti, ad acquisire maggiori cariche negative ed a diventare "LDL maggiormente ossidate". Le LDL così fortemente modificate esprimono una potente attività biologica all'interno della parete vasale che consiste nella alterazione profonda della produzione di ossido nitrico mediata da molteplici meccanismi (aumento della produzione dei radicali liberi dell'ossigeno con conseguente inattivazione dell'NO, alterata trascrizione dell'mRNA per la nitrossido sintetasi, attivazione della proteichinasi C che compromette il meccanismo intracellulare di trasduzione del segnale di controllo sulla attivazione della nitrossido sintetasi). Le LDL ossidate svolgono un ruolo chiave nel processo aterogenetico fondamentalmente attraverso la ridotta disponibilità di NO (disfunzione endoteliale) che, oltre a modificare in senso protrombotico la bilancia emostatica ed a ridurre significativamente i fenomeni di vasodilatazione flusso-dipendenti, innesca una potente attività infiammatoria locale attraverso la attivazione del fattore di trascrizione nucleare kB. Questo fattore si è rivelato responsabile della espressione di una moltitudine di geni proinfiammatori che conducono alla ulteriore amplificazione della risposta infiammatoria attraverso l'aumento della chemiotassi dei monociti, la inibizione della mobilità dei macrofagi, la proliferazione di cellule muscolari liscie controllate da fattori di crescita in aumento, la biosintesi di citochine destinate a stimolare la risposta infiammatoria in fase acuta. Tra queste citochine, la interleukina-6 rappresenta lo stimolo più potente alla produzione in sede epatica di alcune proteine della fase acuta, in particolare della Proteina C Reattiva (PCR), che si è rilevata un prezioso marcatore di attività infiammatoria, di agevole e riproducibile misurazione, quindi facilmente utilizzabile nella pratica clinica sia nei pazienti senza cardiopatia ischemica manifesta ad elevato rischio di eventi cardiovascolari sia nei pazienti con evento coronarico già manifesto ma destinati a prognosi peggiore.
Il substrato fisiopatologico delle sindromi coronariche acute è rappresentato dalla placca aterosclerotica instabile, vulnerabile: in questo tipo di placca le caratteristiche di instabilità sono strettamente connesse alla presenza di una infiltrazione cellulare capace di produrre sostanze che indeboliscono il cappuccio fibroso della lesione e che aumentano il rischio di emorragia intraplacca, ad una maggiore tendenza alla formazione di trombi, ed a un sostanziale incremento della motricità vasale. I principali artefici della vulnerabilità biologica di una placca sono proprio le cellule infiammatorie ed in particolari macrofagi e linfociti-T che rilasciano citochine, tumor necrosis factor e interferon gamma in grado di attivare le cellule muscolari lisce alla produzione di enzimi proteolitici che degradano la matrice extracellulare del cappuccio fibroso o alla inibizione della produzione di collagene favorendone la rottura o la erosione.
Anche nell'uomo esistono delle evidenze che mostrano come le statine siano in grado di agire a livello di tutti questi fenomeni biologici in tempi estremamente rapidi e quindi si rivelino potenzialmente utili per essere somministrate in pazienti con sindromi coronariche acute.

Come (agiscono) le statine nelle SCA ?
I benefici clinici dimostrati dalle statine non sono tutti riconducibili alla loro azione di riduzione dei livelli di colesterolo: questo concetto appare già evidente in una analisi ad hoc effettuata all'interno dello studio di prevenzione secondaria 4S, focalizzata sul rapporto tra valori basali di colesterolo-LDL (suddivisi per quartili) ed effetto del trattamento. Quando si va a considerare gli eventi coronarici maggiori si osserva che le riduzioni del rischio relativo sono simili in tutti i quartili, in assenza di differenze significative, nonostante l'inevitabile trend verso una maggiore incidenza assoluta di eventi all'aumentare del quartile: ciò indica che l'effetto della simvastatina è indipendente dai livelli basali di colesterolo LDL in questa popolazione di coronaropatici. Anche lo studio WOSCOPS fornisce una prova del fatto che la riduzione degli eventi coronarici, osservata nel gruppo dei pazienti trattato con pravastatina e risultata del 31% rispetto al placebo, non può essere spiegata solo in relazione alla riduzione dei livelli dei trigliceridi o all'incremento dei livelli del colesterolo HDL; infatti la somma dei benefici clinici attesi sulla base di stime epidemiologiche da parte di queste variazioni dei livelli lipidici dovrebbe generare una riduzione di eventi coronarici del 6.6%, valore che sottostima largamente il beneficio reale prodotto in questo studio dalla pravastatina.
Orbene, le modificazioni indotte dalle statine sui livelli lipidici non sono in grado, da sole, di rendere ragione in maniera completa di tutti gli effetti clinici di questa categoria di farmaci: devono, pertanto, esistere delle proprietà addizionali delle statine, chiamate pleiotropiche, che possano giustificare una azione diretta contro la aterosclerosi e le sue complicanze, indipendente , o meglio sinergica rispetto a quella ipolipidemizzante.
Il trattamento con statine può rallentare o far regredire il processo aterogenetico attraverso meccanismi prevalentemente indiretti (miglioramento del profilo lipidico) o diretti (per azione antiaterogena intrinseca). Il trattamento con statine migliora la funzione endoteliale misurata a livello della arteria brachiale in soggetti ipercolesterolemici. La simvastatina ha dimostrato che il miglioramento della funzione endoteliale a livello brachiale incrementava con la continuazione della somministrazione del farmaco nonostante la assenza di ulteriori riduzioni del colesterolo LDL. La pravastatina , nello studio RECIFE, ha dimostrato un incremento del 42% del flusso dell'arteria brachiale rispetto al placebo. Il miglioramento del flusso coronarico e la risposta vasodilatatrice ottenuti con alcune statine riducono la ischemia transitoria nei pazienti con angina stabile, migliorano la perfusione miocardica ed in breve tempo anche l'ischemia da sforzo. Laufs e coll. hanno dimostrato che il trattamento con atorvastatina ad alto dosaggio (80 mg/die) è in grado, in 1-2 giorni, di determinare un miglioramento della funzione endoteliale, ed hanno osservato una parallela significativa riduzione in seconda giornata dei livelli plasmatici di PCR, a sostegno della correlazione tra due fenomeni strettamente interconnessi, il miglioramento della funzione endoteliale e la risoluzione della risposta infiammatoria sistemica valutata attraverso un suo specifico marcatore.
La riduzione dei livelli di colesterolo nei modelli sperimentali si accompagna alla riduzione delle cellule infiammatorie all'interno della placca aterosclerotica. I soggetti affetti da ipercolesterolemia presentano un aumento della adesività dei monociti alle cellule endoteliali in vitro e questo effetto risulta diminuito dalla simvastatina.
Peraltro il contenuto relativo di esteri di colesterolo rappresenta un importante fattore che influenza la stabilità della placca. Le statine inibiscono l'accumulo degli esteri di colesterolo nei macrofagi derivati dai monociti, sia riducendo la disponibilità di colesterolo per l'enzima ACAT che provvede ad intrappolarlo nei depositi contenenti fosfolipidi, sia inibendo la endocitosi delle LDL correlata alla riduzione della sintesi di mevalonato. La riduzione dei livelli ematici di colesterolo può facilitare la stabilità della placca sia attraverso una riduzione delle sue dimensioni, sia attraverso una alterazione delle proprietà fisico-chimiche del nocciolo lipidico: la idrolisi degli esteri liquidi di colesterolo a cristalli solidi di colesterolo può rendere la placca più stabile.
Infine le statine possono condizionare favorevolmente il processo di ossidazione delle LDL, nel senso che lo riducono attraverso un miglioramento delle loro capacità antiossidanti ed una ridotta captazione da parte dei macrofagi.
In definitiva, le statine interferiscono con entrambi i meccanismi di instabilizzazione della placca (rottura o erosione) attraverso molteplici vie di attività antiaterotrombotica che conducono al ripristino di una normale funzione endoteliale, ad una azione combinata sulla funzione piastrinica (in senso antiaggregante) e sul sistema emocoagulativo (in senso antitrombotico), e, infine, a variazioni di composizione della placca imputabili ad una riduzione dell'accumulo di macrofagi nello spessore dello strato intimo-mediale ( azione antinfiammatoria) e dei depositi lipidici extracellulari e all'aumento della area di collagene e del rapporto area del collagene/area dei depositi lipidici extracellulari,. E' quindi ipotizzabile che maggiore è il numero di attività antiaterosclerotiche dirette di una statina, maggiore è la probabilità che questa possa modificare favorevolmente il decorso e le complicanze di una lesione e contemporaneamente ridurre la probabilità che si possa verificare un evento cardiovascolare.
Il meccanismo più importante alla base degli effetti non lipidici delle statine sembra mediato dalla via metabolica della Rho chinasi che si colloca a valle della tappa di biosintesi del farnesil-PP a partire dalla conversione dell'acetyl-CoA in mevalonato: la molecola di farnesil-PP può percorrere due circuiti metabolici, uno che conduce alla formazione di colesterolo ed una seconda, alternativa, che porta alla formazione di geranigeranil-PP che, a sua volta, può attivare una molecola detta Rho con elevata attività aterogena in quanto produce ridotta disponibilità di NO, vasocostrizione, infiammazione e proliferazione vascolare.

Quando (somministrare) le statine nelle SCA?
Le evidenze scientifiche sulla efficacia e la sicurezza dell'impiego delle statine nelle sindromi coronariche acute, disponibili allo stato attuale, provengono principalmente da due studi randomizzati e controllati: il MIRACL ed il PROVE IT. Il primo studio è stato disegnato per stabilire se il trattamento con atorvastatina alla dose di 80 mg/die, iniziato tra le 24 e le 96 ore dall'esordio di una angina instabile o di un infarto miocardio non Q, fosse in grado di influenzare eventi ischemici a distanza: l'end point primario combinato (definito come morte, infarto miocardio non fatale, arresto cardiaco resuscitato, ischemia miocardica ricorrente con evidenza di inducibilità oggettiva), è risultato significativamente minore nel gruppo dei pazienti trattati rispetto ai valori registrati nel gruppo placebo, ad opera prevalente della riduzione degli eventi di ischemia ricorrente sintomatica con ricorso alla ospedalizzazione urgente. La necessità di utilizzare dosi di statina particolarmente elevate, in grado di spingere la riduzione dei valori di colesterolo LDL molto al di sotto della soglia raccomandata dalle linee guida, è stata successivamente confermata nello studio PROVE-IT: il trattamento precoce ed aggressivo con atorvastatina alla dose di 80 mg/die ha fatto registrare un end point composito per morte, infarto miocardio ed angina instabile destinata alla riospedalizzazione significativamente inferiore a quello riscontrato nel gruppo dei pazienti trattati con pravastatina alla dose di 40 mg/die. Il PROVE-IT che, nei confronti del MIRACL dimostra di estendere il vantaggio clinico di un trattamento precoce ed aggressivo dal solo rischio di ischemia ricorrente anche al rischio di eventi fatali, mostra una rapida comparsa dei benefici già a 30 giorni, che si vanno ulteriormente a consolidare nei successivi 30 mesi del follow up. Del tutto recentemente l'A to Z trial ha di nuovo affrontato la questione della efficacia e della sicurezza di un trattamento precoce ed aggressivo verso un trattamento tardivo e convenzionale: lo studio, che per le sue dimensioni si colloca come il più grande trial di trattamento con statine all'interno delle SCA sviluppato finora, ha randomizzato circa 4500 pazienti con un quadro di sindrome coronarica acuta ad un braccio di terapia con simvastatina ad alta dose (40 mg di simvastatina nel 1^ mese poi 80 mg/die ) ed a un braccio di somministrazione di placebo per 4 mesi e, successivamente, di 20 mg/die di simvastatina. Il beneficio clinico in termini di riduzione dell'end point composito non risulta statisticamente significativo nei pazienti trattati con strategia farmacologia aggressiva nei confronti dei pazienti trattati con strategia farmacologia convenzionale.
In ordine alla questione della legittimità di un trattamento precoce, va segnalato che nello studio CHAMP la compliance del paziente al trattamento con statine è risultata maggiore quando queste vengono somministrate durante il ricovero piuttosto che successivamente. Inoltre nei pazienti con SCA già in trattamento con statine la sospensione di questi farmaci al momento del ricovero si associa ad una incidenza di eventi sensibilmente superiore non solo a quella dei pazienti che hanno continuato ad assumere le statine, ma anche a quella osservata nei pazienti che non ne avevano mai fatto uso.
In conclusione, nei pazienti con sindromi coronariche acute la somministrazione di statine in fase precoce si è rivelata utile a dosaggi alti con l'intento di ridurre i livelli di colesterolo LDL anche al di sotto di 100 mg/dl.


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